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Italia-Africa, il 28-29 gennaio 2024 a Roma presso il Senato ci sarà un summit per la cooperazione27/1/2024 I leader africani e italiani hanno fissato per il 28 e 29 gennaio 2024 il vertice “Italia-Africa”, che si terrà a Roma e avrà ad oggetto la cooperazione nel campo dell’energia, con l’obiettivo di garantire l’approvvigionamento di prodotti energetici dell’Unione Europea e promuovere lo sviluppo dei paesi africani al fine di ridurre i flussi migratori verso l’Europa. L’annuncio di questo nuovo appuntamento è stato dato sabato 5 novembre 2023 dal Primo Ministro italiano, Giorgia Meloni, a seguito di una riunione del Consiglio dei Ministri, dove sono state approvate anche le prime fasi del programma che l’Italia vuole proporre ai Paesi africani nel corso del vertice, noto come “Piano Mattei per l’Africa”, in riferimento al fondatore del gruppo energetico italiano ENI, Enrico Mattei. I dettagli di questo piano non sono ancora stati rivelati, ma mira a rafforzare la cooperazione energetica tra l’Italia e i paesi africani e comprenderà un vasto programma di investimenti e partnership. Inizialmente previsto per l’inizio di novembre 2023, il Summit Italia-Africa è stato rinviato a causa del peggioramento del contesto di sicurezza internazionale. Giorgia Meloni aveva già presentato questo piano durante il suo discorso all’Onu lo scorso settembre, definendolo una “seria alternativa al fenomeno delle migrazioni di massa”. Puntando sulla cooperazione energetica, l’Italia spera di contribuire alla crescita economica dei Paesi africani e alla creazione di opportunità per le popolazioni locali. Danakali è lieta di annunciare di aver mosso i primi passi per perseguire un nuovo progetto di risorse in Eritrea, sede del progetto Colluli. La Società ha richiesto una licenza di esplorazione che copre 1.537 kmq dove i lavori preliminari hanno dimostrato che l'area potrebbe essere ricca di rame e oro. Danakali ha forti relazioni in Eritrea e ulteriori opportunità sono sorte in seguito al passaggio di Colluli a nuovi proprietari. https://data-api.marketindex.com.au/.../market-update... credit Ghideon Musa Aron Flynas, la compagnia aerea di bandiera e la principale compagnia aerea low cost del Medio Oriente e del mondo, ha celebrato questa mattina, 17 gennaio 2024, il lancio del suo primo volo tra Jeddah e la capitale eritrea, Asmara.
https://www.flynas.com/.../news-updates/eritrea-asmara... credit Ghideon Musa Aron di Francesca Ronchin per Analisi Difesa
Dopo quasi due decadi di amnesie, lo scorso 12 dicembre, in occasione del 23° anniversario degli accordi di Algeri, il Dipartimento di Stato americano ha vergato un comunicato di 6 righe per ribadire l’importanza di rispettare i confini Etiopia – Eritrea. Una nota “curiosa” visto che l’Etiopia non li aveva rispettati per ben 18 anni e durante questo lungo periodo gli USA non hanno mai avuto nulla da eccepire. Apparentemente un segnale di apertura all’Eritrea ce da tempo orami immemore è uno dei target preferiti delle “preoccupazioni umanitarie” nonché delle sanzioni americane. Al contempo un monito al premier etiope Abiy Ahmed che con le ultime sortite sul diritto dell’Etiopia ad avere uno sbocco sul Mar Rosso, ha mandato in fibrillazione i paesi costieri, a partire dall’Eritrea. Per l’amministrazione di Joe Biden non è una conversione sulla via di Damasco, né un semplice omaggio di rito come conferma il repentino copia-incolla della segreteria dell’alto rappresentate UE per gli affari esteri Joseph Borrell. L’attuale politica estera americana si inserisce nel solco delle precedenti amministrazioni che hanno sempre silenziosamente appoggiato l’occupazione etiope dei confini eritrei nell’area di Badme. Una totale inosservanza degli accordi di Algeri del 2000 e delle direttive della Ethiopian Boundary Commission delle Nazioni Unite portata avanti nel disinteresse generale della comunità internazionale e conclusasi solo nel 2018 con l’arrivo di Abiy Ahmed che ritirò le truppe etiopi dall’area e distese i rapporti con l’Eritrea “guadagnandosi” il Nobel per la Pace. Evidentemente, ci volevano gli Houti, i ribelli sciiti dello Yemen che da settimane minacciano le navi sul Mar Rosso, per spingere gli americani a rivedere la propria strategia africana. Del resto lo stretto di Bab el Mandeb è canale di estremo interesse, qui vi scorre il 12% del commercio mondiale, il 10% del petrolio consegnato via mare e l’8% del gas liquido (Gnl). Sempre da qui passano i rifornimenti a Israele e l’allargamento di un fronte meridionale del conflitto a Gaza fa emergere in tutta la sua problematicità il sempre maggiore isolamento nell’area sia di Israele sia degli USA che vedono i propri storici alleati come Egitto e Arabia Saudita sempre più vicini alla sfera d’influenza cinese e ai BRICS. In questo scenario, una escalation nel Medio Oriente, oltre a destabilizzare la penisola arabica, potrebbe essere un’ottima occasione per far saltare l’accordo di pace sciiti-sunniti mediato dalla Cina, ricondurre i sauditi sotto l’influenza di Washington e così rilanciare gli accordi di Abramo. Non è infatti un mistero che l’indebolimento del BRICS e dei suoi due paesi fondamentali (Russia e Cina) siano visti dagli USA come l’elemento fondamentale della propria politica estera e in questa ottica un coinvolgimento dell’Eritrea potrebbe certo fare comodo, a partire dall’operazione navale di polizia internazionale Prosperity Guard (OPG) per proteggere i mercantili in transito dagli attacchi degli Houthi. Inoltre, oltre ad essere snodo centrale della Via della Seta, con i suoi 1,251 chilometri di costa sul Mar Rosso, l’Eritrea è prima dirimpettaia dello Yemen e, grazie ai suoi ottimi rapporti con Arabia Saudita, Egitto e Sudan, potrebbe rivelarsi cruciale per gli equilibri dell’area. Di contro, l’Etiopia, storico avamposto USA nell’Africa orientale, si sta rivelando un Paese il cui attuale assetto politico non sembra convincere del tutto Washington, disinteressata come sembra a salvarla dal baratro economico, a partire da quei 3,5 miliardi di dollari del Fondo Monetario Internazionale e altrettanti della Banca Mondiale cui l’Etiopia è ancora appesa. Con un’inflazione al 30% e grave mancanza di valuta estera, l’Etiopia sta affrontando una congiuntura economica difficilissima tant’è che dopo il mancato pagamento di una cedola da 33 milioni di dollari su una obbligazione da 1 miliardo di dollari emessa nel 2014, è ormai ufficialmente in default. Il terzo Paese africano dopo Zambia e Ghana a finire in insolvenza sul debito estero. Etiopia-USA: liaison ritrovata, per poco… Solo fino a qualche mese fa, tutto faceva pensare che Etiopia e Stati Uniti avessero ritrovato la liaison d’un tempo, quella costruita durante i 27 anni in cui il TPLF (Fronte popolare di liberazione del Tigray) era al potere e in cui aveva trasformato l’Etiopia in una sorta di stato satellite di Washington, un avamposto prezioso in una zona strategica come il Corno d’Africa. Complicità che si era interrotta nel 2018 quando le prime mosse di Abiy Ahmed suggerivano un nuovo corso di netta rottura con la linea americana. Non solo per la decisione di distendere i rapporti con l’Eritrea, in contrasto con la politica USA che accusava Asmara di supportare i terroristi somali di Al Shabaab salvo poi ammettere di non aver mai avuto prove, ma anche per l’iniziativa di realizzare la Diga della Rinascita (GERD) sul Nilo Azzurro, anche qui in piena rottura con gli USA che si sono sempre allineati con le preoccupazioni del Cairo sulla gestione delle acque. L’intenzione di anteporre gli interessi nazionali alle pressioni oltreoceano, Abiy l’aveva mostrata anche durante la guerra in Tigray. Una crisi innescata dal TPLF il 4 novembre 2020 contro il governo etiope ma che era stata raccontata al mondo come un genocidio portato avanti da Abiy Ahmed ai danni dell’etnia tigrina. Non c’era invece nessun genocidio, nessun blocco agli aiuti come testimoniato dai dirigenti del World Food Program i cui convogli hanno raggiunto 3 milioni di persone solo nel 2022. C’era invece una guerra di secessione scatenata dal gruppo armato tigrino contro l’esercito federale e le regioni limitrofe Amhara e Afar, sfociata in una serie di crimini di guerra commessi da entrambe le parti ma pagate in primis dall’Etiopia prontamente sanzionata dagli USA con la sospensione dalle facilitazioni all’export previste dall’Agoa (African Growth and Opportunity Act) per “motivi umanitari”. Facilitazioni che avevano permesso all’export etiope verso gli USA di crescere oltre il 50% in un anno ma che una volta sospese hanno causato la perdita di almeno 100 mila posti di lavoro. Poi qualcosa è cambiato. E’ cambiato Abiy Ahmed (il consenso è in caduta libera) e dopo la recente guerra in Tigray sono cambiati gli atteggiamenti della comunità internazionale nei confronti dell’Etiopia (“curiosamente” in meglio). Un cambio di rotta che ha il suo punto di svolta nella pace che il governo etiope ha firmato a Pretoria il 2 novembre 2022 e che concluse il conflitto con un bilancio di un milione di morti e una spesa per il Paese pari a 25 miliardi di dollari. Un danno enorme che era valso al TPLF la dicitura di “gruppo terrorista” da parte del parlamento etiope. Etichetta che, come da accordi di pace, viene fatta scomparire. Non tutti i punti dell’accordo sono stati però rispettati a partire da quello che prevedeva il completo disarmo del TPLF che ad oggi, nonostante le divisioni interne, è ancora militarmente in forze e può contare su 200 mila uomini armati. Anche i leader tigrini sono ancora ben saldi al loro posto. Dai leader del TPLF Debretsion Gebremichael all’ex portavoce Getachew Reda che guida il governo ad interim del Tigray e non disdegna strette di mano con il premier etiope Abiy Ahmed che solo 12 mesi prima definiva “leader genocida e sanguinario”. Un graduale avvicinamento al TPLF da parte del premier etiope vissuto come un vero e proprio tradimento dalla quasi totalità del Paese che è ancora memore di come la vecchia leadership si fosse macchiata di sanguinose repressioni delle proteste delle popolazioni Oromo ed Amhara nel 2015 e 2016 fino alla guerra d’aggressione contro l’Eritrea tra il 1998 e il 2000. Un senso di tradimento pervade anche quanti avevano dato vita a #nomore, il movimento di orgoglio africano che durante il conflitto in Tigray aveva eletto Abiy a simbolo di una resistenza contro le ingerenze occidentali. In quel momento l’Etiopia era vittima di una pesante campagna mediatica, con il Segretario di Stato americano Anthony Blinken e Joseph Borrell schierati in sostegno del TPLF. Un allineamento che non stupisce visto che molti dei vecchi amici dell’ex primo ministro etiope e uomo forte del TPLF Meles Zenawi sono entrati nell’entourage di Biden, dall’ex consigliera politica Susan Rice all’ambasciatrice all’ONU Linda Thomas Greenfield fino alla Direttrice di USAID Samantha Power. Per non parlare del numero uno dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus, dirigente di lungo corso del TPLF. In linea dunque con i propri storici rapporti con la dirigenza tigrina, gli USA hanno da subito guardato alla crisi in Tigray come ad una opportunità per poter riportare al potere i vecchi amici come aveva spiegato senza mezzi termini l’ex Vice Segretario di Stato americano per l’Africa Vicki Huddleston durante un meeting con il dirigente del TPLF Berhane Gebre Christos. Le mancate promesse dell’uomo nuovo Se dopo gli accordi di Pretoria i toni di Washington si ammorbidiscono, il feeling con gli USA non è certo paragonabile a quello di un tempo come è emerso lo scorso 30 novembre durante l’audizione della Commissione per gli Affari Esteri al parlamento americano: “Etiopia: promesse o pericoli, la situazione della politica americana”. Qui il deputato repubblicano John James non ha usato mezzi termini, spiegando come <<un’Etiopia stabile è utile al Corno d’Africa e un asset importante per portare avanti gli interessi strategici americani nella regione, tuttavia la direzione che sta prendendo l’Etiopia è preoccupante>>. Per quanto l’Etiopia avrebbe tutto il diritto, ma evidentemente non la possibilità, di sganciarsi da Washington, è un fatto che la politica di Abiy si stia sempre più rivelando come autoritaria e inaffidabile. La decisione della Banca Africana di Sviluppo (AfDB) di lasciare l’Etiopia dopo la mancata promessa del Primo Ministro di effettuare un’indagine su un mancato trasferimento di 5,2 milioni di dollari (forse dirottati a Panama) e il conseguente arresto di due diplomatici in contravvenzione della Convenzione di Vienna, è solo l’ultimo caso di una leadership sempre più vulnerabile ad accuse di corruzione e dall’arresto facile, soprattutto nei confronti di giornalisti, attivisti e oppositori. Dopo un inizio di belle promesse e dai toni panafricani, il governo di Abiy sta inoltre alimentando profonde divisioni etniche. La modifica alla Costituzione promessa nel 2018 non è mai arrivata e la specifica etnica è ancora nero su bianco sui documenti d’identità. Dopo aver accusato il TPLF di “tigrinizzare” del paese, Abiy Ahmed, di etnia oromo, sta a sua volta “oromizzando” i principali gangli del potere e in violazione della carta costituzionale, ha messo in piedi una guardia repubblicana di soli militari oromo che risponde direttamente al suo gabinetto. Un leader dalla personalità narcisista che già a inizio mandato nel 2018 amava raccontare di come sua madre gli avesse predetto che sarebbe diventato il settimo re d’Etiopia, che ama sfoggiare un atteggiamento fatalista e provvidenziale tipico del movimento evangelico Prosperity Gospel cui Abiy, di fede protestante, sarebbe affiliato da tempo. Non a caso nominato dopo il passo indietro di Hailemariam Desalegn, anch’egli di fede protestante. Una sorta di teologia del pensiero positivo che ha portato i fedelissimi a sostituire la parola “povertà” con “prosperità”. Un uomo “scollegato dalla realtà”, lo definiscono alcuni commentatori etiopi, che fornisce risposte laconiche a chi lo accusa di piantare alberi mentre in Etiopia si continua a morire: “serviranno a fare ombra a quanti riposano in pace”, e che nonostante un terzo dei bambini etiopi soffra di malnutrizione secondo l’indice 2020 HCI del capitale umano, e l’87 % della popolazione sia povero o prossimo alla povertà, ha pensato bene di costruirsi una residenza per un costo stimato di 10 miliardi di dollari, un decimo del prodotto interno lordo del paese. Con quali soldi il premier inalbererà la sua reggia, è uno degli argomenti di discussione più tragicomici nei caffè della capitale. Se alcuni tirano in ballo i 2,6 miliardi di dollari sottratti alle casse dello stato dai suoi predecessori del TPLF (Fronte Popolare di Liberazione del Tigray), altri propendono per la stretta amicizia con gli Emirati Arabi Uniti da cui nelle ultime settimane, continuano ad arrivare aerei militari con misteriosi carichi. Anziché portare pace e prosperità, come il nome del suo partito (Prosperity party) sembrava promettere, Abiy guida un paese dilaniato dalle guerre. Dopo quella in Tigray, da oltre un anno imperversano le violenze e discriminazioni contro l’etnia Amhara. Una crisi che peraltro, in un triste gioco dell’assurdo, sembra avvicinare ulteriormente il TPLF alle istanze degli Oromo, in particolare a quelle dell’OLF (Oromo Liberation Front) e del suo braccio armato Oromo Liberation Army OLA). Entrambi i fronti etnici condividono infatti un atavico odio contro l’etnia Amhara percepita come dominante e oppressiva. E tutti accarezzano sogni di grandezza. (nelle foto qui sopra e sotto armi delle forze governative catturate in battaglia dalle milizie dell’OLA nelle recenti battaglie del novembre 2023). Così come il TPLF, già nel suo manifesto del ’76, tratteggiava il miraggio di un “grande Tigray”, buona parte degli Oromo accarezza la visione di “una grande Oromia” o di un mitologico “Oromo empire of East Africa” che dovrebbe estendersi fino al Mar Rosso. Scenari tipici dell’ideologia Oromummaa che si ritiene preveda un’Etiopia oromiizata o, in alternativa, una repubblica Oromia indipendente motivo per cui la popolosa etnia amhara, 30 milioni di cui ben 15 vivono nella regione Oromo, è percepita come un ostacolo da eliminare. I Fano: “la spina nel fianco” di Abiy Proprio il fronte aperto con l’etnia Amhara ha rappresentato fino ad oggi il principale problema interno di Abiy alle prese con la difficile gestione di un Paese di 120 milioni di abitanti e 88 etnie. Una crisi iniziata lo scorso febbraio quando un gruppo di sacerdoti Oromo si era staccato dalla chiesa ortodossa etiope per fondare un proprio sinodo e così eseguire le proprie celebrazioni in lingua oromo. Una frattura poi rientrata ma che secondo gli Amhara sarebbe stata utilizzata dal premier per dividere la Chiesa e quindi il Paese. A peggiorare le cose è arrivata poi la decisione del governo etiope di smantellare le forze militari speciali regionali. Nonostante l’apparente afflato nazionalista, l’iniziativa si declina da subito come un’operazione “ad personam”, diretta ad indebolire la resistenza Amhara, in particolare quella dei Fano, milizie volontarie nate negli anni ’30 contro l’occupazione italiana e che durante la crisi in Tigray si erano rivelate cruciali nel contenere l’avanzata del TPLF su Addis Abeba. “Eroi nazionali” li aveva definiti allora il Primo Ministro che oggi invece li combatte. Al centro della resistenza Amhara la difesa delle terre di Welkait e Raya, storicamente amhara ma rivendicate dal TPLF come proprie al punto da chiamarle “Western Tigray”. Un termine controverso che gli Amhara non riconoscono Il 4 agosto il premier proclama lo stato di emergenza nella regione Amhara arrogando a sé il potere di effettuare arresti senza mandato, imporre il coprifuoco, limitare i movimenti e vietare le riunioni pubbliche. Ne segue una escalation che ha esacerbato la guerra contro gli Amhara nel quasi totale silenzio mediatico. Per quanto non siano organizzati in una unità centrale, grazie ad una perfetta conoscenza del territorio e alla possibilità di sorprendere l’esercito federale con imboscate, i Fano ad oggi hanno dato prova di grande forza sul campo e sono arrivati a controllare anche il 60% della regione Amhara. Una superiorità militare che ha portato l’esercito federale a ricorrere ad armi pesanti e a droni di provenienza turca. Non solo, proprio il 22 dicembre, un importante carico di armi sarebbe arrivato dalla Cina, in particolare fucili d’assalto AK 47 e AF56 oltre a ulteriori droni armati Wing Loong. Una situazione di quasi guerra civile che rischia di deflagrare e che viene seguita attentamente oltreoceano. <<Mentre il governo di Abiy continua a guardare all’America per ricevere aiuti umanitari, l’Etiopia stringe legami più stretti con i concorrenti degli Stati Uniti come Cina, Emirati Arabi Uniti e Turchia, i contribuenti americani vogliono sapere dove vanno a finire i loro soldi>> ha ribadito ancora il deputato James. Il “diritto” all’accesso al Mar Rosso Con il Paese sempre più diviso e il fiato sul collo da parte degli USA, il tema dell’accesso sul Mar Rosso deve essere sembrato al premier etiope come un modo per risalire la china. Il tema era stato portato all’attenzione dell’opinione pubblica con un’intervista registrata a giugno ma trasmessa sulla TV nazionale Fana solo lo scorso 13 ottobre. In quella occasione Abiy Ahmed aveva messo sul tavolo una vecchia questione, la necessità di avere uno sbocco al mare che per gli etiopi, tocca una ferita aperta, quella del porto “ceduto” all’Eritrea nel 1991 con l’indipendenza. Una ferita non ancora rimarginata nonostante l’accesso ai porti eritrei di Assab e Massawa non fosse mai stato precluso all’Etiopia. Fu anzi l’allora primo ministro etiope Meles Zenawi, durante il tentativo di occupare l’Eritrea nel 1998, a voler spostare le attività commerciali a Gibuti nella speranza di penalizzare economicamente il nemico. Un obiettivo da raggiungere “con ogni mezzo possibile”, ha ribadito Abiy Ahmed (bella foto qui sopra) portando sulle difensive gli stati costieri Gibuti, Somalia ed Eritrea. Toni bellicosi che ricalcano il vecchio copione che investe il Corno d’Africa da oltre un secolo, lo stesso seguito dalla precedenti leadership etiopi, tutte contraddistinte da tentativi espansionistici nei confronti dell’Eritrea e permeabili alla solita logica del divide et impera molto cara oltreoceano. Nonostante i pubblici auspici di stabilità, nei fatti gli USA hanno sempre dimostrato di voler mantenere il Corno d’Africa in un cronico stato di instabilità. L’aveva detto chiaramente nel 1951 l’Ambasciatore americano John Foster Dulles agli eritrei che chiedevano l’indipendenza. Nonostante “le opinioni del popolo eritreo devono essere prese in considerazione” spiegava, “l’interesse strategico degli Stati Uniti nel bacino del Mar Rosso e le considerazioni di sicurezza e di pace mondiale rendono necessario che il Paese (l’Eritrea) sia collegato con il nostro alleato Etiopia”. Una posizione che secondo lo storico Theodore Vestal, sarebbe stata ribadita nel 1972 anche da Henry Kissinger che in un report confidenziale sottolineava come gli USA dovessero “mantenere l’Etiopia in un conflitto perenne e usare le divisioni etniche, religiose e di altro tipo per destabilizzare il Paese”. Raccomandazione cui l’alleanza con il TPLF, interessato a costituire un “grande Tigray” che inglobi parte della regione etiope Amhara nonché dello stato eritreo, è stata sempre funzionale. Se non fosse per i toni poco diplomatici usati dal premier etiope, il tema avrebbe potuto essere oggetto di discussione costruttiva e trattativa economica con i Paesi confinanti. Un’occasione di collaborazione interregionale necessaria in un continente dove solo il 15% dell’export è destinato ai paesi africani. Un modello che l’Etiopia peraltro, sta già cercando di portare avanti con la Diga sul Nilo Azzurro che fornisce energia elettrica a Sudan, Kenia e Gibuti. Del resto, già nel 2018, l’accordo di pace con l’Eritrea, tratteggiava la possibilità per l’Etiopia di utilizzare i porti eritrei in regime tax free. Da allora però, nessun accordo è stato raggiunto e l’Etiopia continua ad appoggiarsi su Gibuti per un costo di quasi 2 miliardi di dollari all’anno. Una cifra enorme se si pensa che per le proprie basi navali nella ex colonia francese, USA e Cina non spendono più di 100 milioni di dollari. Non solo, il mancato sbocco sul mare ridurrebbe lo sviluppo dell’Etiopia di almeno il 20% rispetto al proprio potenziale a causa di un balzo dei costi di commercio e trasporto dal 50% al 262%. Dopo le prime dichiarazioni tranchant, Abiy ha messo sul tavolo la possibilità di cedere quote dei principali asset del Paese come Ethio Telecom o Ethiopian Airlines in cambio dell’accesso al mare. Le mire di Abiy: spunto per un’altra guerra? “Un pazzo”. Hanno commentato alti ufficiali della Somalia ribadendo come “sacrosanta” la propria integrità territoriale. Più compassata invece la risposta del Ministro dell’Informazione eritreo che ha invitato a non cedere a provocazioni. Dietro i toni asciutti degli eritrei, tutto però lascia pensare che dopo le strette di mano profuse ai media durante la pace, oggi Eritrea ed Etiopia siano ormai molto distanti, anche come proiezione internazionale. Mentre l’Etiopia sembra voler alimentare le tensioni interne ed esterne, per Isaias Afewerki e i suoi 30 anni di guida ininterrotta dell’Eritrea, il 2023 è stato l’anno di una fine tessitura diplomatica. Dopo essere stato ricevuto con tutti gli onori a Pechino, a Mosca, e al summit dei Brics in Sud Africa, anche a quello Arabia-Africa di Riad dello scorso novembre, il presidente Afewerki non ha perso occasione per rimarcare la distanza da Addis Abeba intrattenendo almeno il triplo degli incontri rispetto al premier etiope. Mentre quest’ultimo continuava ad alimentare lo spettro della guerra tratteggiando l’antico regno di Axum che dalle terre dell’Etiopia si estendeva all’Arabia abbracciando il Mar Rosso, Afewerki preferiva rimarcare la necessità di aumentare la cooperazione tra paesi africani in nome della stabilità regionale e della pace. Proprio la sicurezza del Mar Rosso è stata al centro dell’incontro con il Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, uno dei primi antagonisti della politica di Abiy. A rendere ancora più profonda la distanza tra i leader eritreo ed etiope, sono state inoltre le accuse rivolte da quest’ultimo all’Eritrea, ritenuta responsabile di aiutare militarmente la resistenza Amhara e frange di quella Oromo che comunque stanno dando del filo da torcere ad Abiy per indebolirlo ulteriormente. Un atteggiamento percepito dall’Eritrea come ingrato, visto l’aiuto di quest’ultima in Tigray, nonché pretestuoso dato che ad oggi non vi sono prove di aiuti militari (politici forse) da parte dell’Eritrea, contrariamente invece alla presenza dell’esercito federale etiope nelle terre Amhara che rende quasi impossibile per l’Eritrea fornire supporto ai Fano. La questione del porto rappresenta dunque l’ennesimo elemento di frattura tra Eritrea ed Etiopia e sibilline in questo contesto suonano le parole di Seyoum Teshome, membro del partito di Abiy Ahmed. A detta del politico, un nuovo conflitto sarebbe imminente e potrebbe iniziare con un’operazione sotto falsa bandiera del Tigray diretta a provocare l’Eritrea. Se a quel punto, l’Eritrea dovesse iniziare la guerra, Abiy potrebbe sfruttare questa opportunità per prendere il controllo del porto eritreo di Assab. Uno scenario che potrebbe essere facilitato anche dalle diverse posizioni di Etiopia ed Eritrea rispetto alle fazioni che si contendono il Sudan e che l’avanzata delle RSF (Rapid Support Force) verso Sud potrebbe complicare. In quest’ottica, accusare preventivamente il governo eritreo per “interferenze” in Etiopia o in Sudan, potrebbe rimettere sul tavolo gli antichi piani di regime change in Eritrea, garantendo all’Etiopia il sostegno finanziario dell’Occidente e quella legittimità di leader che ultimamente Abiy sembra aver perduto. Una nuova guerra sarebbe anche l’occasione per portare avanti quanto richiesto dai ribelli tigrini nonché dai report della Commissione delle Nazioni Unite sui diritti umani e dal Dipartimento di Stato americano e quindi consegnare ai tigrini il cosiddetto “Western Tigray”. Un punto sul quale Abiy sta ricevendo non poche pressioni. Non è un caso infatti che nonostante questa dicitura sia contestata dagli Amhara e buona parte degli etiopi, sui tavoli internazionali si parli sempre di “Western Tigray”. Anche quando Mike Hammer, durante l’audizione della Commissione per gli Affari Esteri al parlamento americano, cercava rassicurava i deputati USA sulle intenzioni non bellicose di Abiy, il democratico Brad Sherman, da sempre grande portavoce delle istanze tigrine, ribadiva la necessità di concedere i fondi del Fondo Monetario Internazionale (IMF) all’Etiopia solo dopo la soluzione del “Western Tigray”. Un linguaggio che la dice lunga su quanto il Tigray sia importante per le manovre politiche di Washington nella regione. Non a caso, ancora oggi, il tema della “fame in Tigray” continua ad oscurare altre emergenze come le violenze a danno degli Amhara e a tenere banco sui tavoli internazionali. Gli ex ribelli tigrini lo sanno bene, come dimostra l’ultimo comunicato di Getachew Reda che è tornato ad accusare Addis Abeba di non fare abbastanza per la fame che affliggerebbe la regione. I segni di complicità tra Washington e la leadership etiope non mancano. Non ultima la scelta da parte dell’ambasciata americana ad Addis Abeba di definire la capitale etiope “Finfiné”, un termine controverso ma molto caro agli estremisti Oromo. Giochi di equilibrismo anche per Abiy che oltre che della Cina (che a differenza degli USA ha recentemente annullato il debito etiope), degli Emirati Arabi Uniti che continuano a rifornire le esangui casse etiopi di valuta estera e a rimpolpare l’esercito federale di armi, non può certo permettersi di fare a meno degli Stati Uniti. Questi, dalla loro, sembrano consapevoli di come in questo momento di grande instabilità nella regione, l’Eritrea possa essere determinante per gli equilibri del Corno d’Africa. L’apertura suggerita dal comunicato del 12 novembre è però durata poco. Solo dopo alcuni giorni, gli USA sono tornati al solito registro di accuse contro Asmara, ritenuta responsabile di non aver ancora ritirato le proprie truppe dal Tigray e di interferire con gli affari interni del Sudan. Di certo, prendere di mira l’Eritrea in questo momento non sembra la mossa migliore per permettere ad Etiopia e Stati Uniti di riposizionarsi nell’area. Mai come ora infatti, in un continente che dopo sette colpi di stato susseguitisi nell’Africa centrale, si mostra sempre più insofferente alle ingerenze occidentali, l’Eritrea gode di un’ottima reputazione anche per una questione simbolica, quella di unico paese africano indipendente da meccanismi di controllo esterni o basi militari straniere. Non a caso, quando lo scorso luglio il Consiglio sui diritti umani delle Nazioni Unite si è riunito per rinnovare il mandato allo special rapporteur per l’Eritrea, questo non è stato votato da neanche uno stato africano. L’accordo col Somaliland Una parziale distensione con Gibuti e l’Eritrea potrebbe venire determinata dall’intesa tra Etiopia e Somaliland (l’ex Somalia Britannica) annunciata ieri: l’agenzia Bloomberg ha reso noto che Addis Abeba ha firmato un memorandum d’intesa con il Somaliland, regione separatista della Somalia settentrionale di fattoi autonoma dal 1991 ma non riconosciuta dalla comunità internazionale, per ottenere l’accesso al Mar Rosso in cambio di una partecipazione azionaria nella compagnia di bandiera Ethiopian Airlines. I negoziati dettagliati per raggiungere un accordo formale saranno conclusi entro un mese, ha affermato Redwan Hussein, consigliere per la sicurezza nazionale del primo ministro Abiy Ahmed. Non ha rivelato la quota che l’Etiopia offrirà della più grande compagnia aerea africana. Il protocollo d’intesa consentirà all’Etiopia di accedere al Mar Rosso dal Somaliland per utilizzarlo come base militare e per scopi commerciali per 50 anni, ha detto Hussein in un briefing lunedì nella capitale Addis Abeba. Sarà in grado di affittare un “accesso lungo 20 chilometri (12 miglia) per la base della Marina Etiope e di essere utilizzato come uno dei suoi porti di ingresso”, ha detto il presidente del Somaliland Muse Bihi Abdi. Notizia che di fatto anticipa la ricostituzione di una Marina Etiope (a lato il suo stemma), che di fatto cessò di esistere nel 1991 con l’indipendenza dell’Eritrea ed è stata ufficialmente disciolta nel 1996. In base all’intesa con il Somaliland, l’Etiopia potrà anche costruire infrastrutture e un corridoio terrestre tra il territorio etiope e il porto, probabilmente quello di Berbera già collegato al territorio etiopico da una importante arteria stradale che nelle intenzioni etiopiche dovrebbe venire presto affiancata da una linea ferroviaria. Sul piano politico l’accordo prevede che l’Etiopia riconosca il Somaliland come stato sovrano, ha affermato Bihi Abdi; un passo importante affinché in prospettiva lo stato somalo con capitale Hargeisa possa venire riconosciuto anche da altre nazioni e dall’Unione Africana. “L’accordo firmato costituisce una seria preoccupazione per la Somalia e per l’intera Africa. Il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale è il fondamento della stabilità regionale e della cooperazione bilaterale. Il governo somalo deve rispondere in modo appropriato” ha detto l’ex presidente somalo Mohamed Farmaajo in un tweet di fuoco. Il 29 dicembre erano ripresi a Gibuti i colloqui fra il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud e il presidente del Somaliland, che dal 1991 rivendicano l’indipendenza dal Paese. Lo ha riferito il sito riferisce “Garowe online” ripreso in Italia da Agenzia Nova. Il dialogo si era interrotto alcuni mesi fa dopo che le parti non sono riuscite a concordare i termini di un’intesa che porti al riconoscimento dell’ex Somalia Britannica. Tra alleanze dirette ed indirette, parallele ed asimmetriche: la complessa partita del Mar Rosso1/12/2023 di Pasquale Santoro
Da un articolo sul quotidiano “ LA REPPUBLICA” Si siede alla sua scrivania. Sul piano del tavolo è depositato un pacchetto. Lui lo apre. Dentro c’è uno zoccolo di cavallo in argento con un’iscrizione: “Sandor. Berbero grigio, 12 anni. Max Harari, Asmara – Giugno 1942”. C’è anche una foto: si vede il bel primo piano di un cavallo grigio affacciato alla porta del suo box. E una dedica autografa a penna: “Ad Amedeo, in ricordo del meraviglioso cavallo che fu causa della nostra amicizia”. Ad Amedeo… ma chi è Amedeo? E chi è la persona che gli invia questo oggetto così particolare? Facciamo un salto indietro nel tempo. Adesso siamo nel 1909. È il 7 febbraio, giorno in cui a Piacenza nasce Amedeo. Amedeo Guillet. Famiglia nobile di origine sabauda. Il piccolo Amedeo cresce e diventa ragazzo dall’animo sensibile e creativo: quando è il momento di fare la prima scelta terminata l’età della spensierata adolescenza è indeciso tra la carriera musicale e quella militare. Ma la carriera militare presenta un vantaggio esclusivo, ai suoi occhi: permette di rimanere a contatto con i cavalli praticamente ventiquattr’ore al giorno. La sua passione. I cavalli, certo: elemento fondamentale e imprescindibile dall’inizio alla fine di una vita intera. Amedeo Guillet esce dall’Accademia Militare di Modena con il grado di sottotenente nel 1931. Il Monferrato e le Guide i primi due reggimenti di cavalleria in cui presta servizio, probabilmente con l’idea di dedicarsi (anche) allo sport equestre come molti suoi colleghi d’arma: non dimentichiamo che in questo momento storico, infatti, l’equitazione agonistica è quasi esclusivamente cosa di militari. Ma il destino decide diversamente: nel 1935 Amedeo Guillet viene trasferito in Africa, dove nel mese di ottobre comanda un plotone impegnato nelle prime operazioni della guerra colonialista d’Etiopia e in dicembre viene ferito gravemente a una mano. Ed è a partire da questo momento che la sua vita smette di essere simile a quella di tanti altri ufficiali dell’esercito italiano per diventare la storia di un romanzo. Nel 1937 Amedeo Guillet è in Spagna dove comanda un reparto di carri della divisione Fiamme Nere e poi un reparto di cavalleria marocchina durante la guerra civile spagnola; successivamente ritorna in Libia, quindi nuovamente in Eritrea dove prende il comando del Gruppo Bande Amhara, un’organizzazione militare che riunisce uomini di origine etiope, eritrea e yemenita. È qui che nasce il mito: nel 1939 durante un’operazione militare il suo cavallo viene colpito e ucciso e lui, illeso, ne monta immediatamente un altro per continuare la carica, ma anche questo secondo povero cavallo cade vittima del fuoco; Amedeo Guillet imbraccia allora una mitragliatrice e continua a piedi la battaglia senza alcuna protezione fino a conquistare il sopravvento sulle formazioni nemiche. I soldati indigeni che avevano combattuto con lui, sbalorditi per la sua apparente invincibilità, lo soprannominano Comandante Diavolo, ignari di consegnare così alla leggenda un ‘titolo’ che segnerà ormai per sempre la vita di questo personaggio straordinario. Quando gli inglesi conquistano Asmara nell’aprile del 1941, Amedeo Guillet prende una decisione folle: se anche l’Italia si fosse arresa, lui avrebbe continuato la ‘sua’ guerra. E così accade: Guillet si spoglia della divisa dell’esercito italiano, raduna una formazione di suoi fedelissimi soldati indigeni e inizia una guerriglia senza quartiere, efficace al punto che gli inglesi mettono sul suo capo una taglia enorme. Invano, però: nessuno lo tradisce in nome del denaro, a conferma di quanto questa sorta di Lawrence d’Arabia italiano fosse amato dalle popolazioni locali. Ma in ottobre dopo una continua ed estenuante serie di operazioni Guillet capisce che non avrebbe più potuto andare avanti ulteriormente: significativo il fatto che la decisione di porre termine alla guerriglia venga da lui presa dopo la cattura del suo cavallo grigio Sandor da parte del maggiore Max Harari, l’ufficiale inglese responsabile delle attività di ricerca del temibile Comandante Diavolo. Amedeo Guillet dunque libera i suoi soldati e si nasconde a Massaua sotto la falsa identità di Ahmed Abdallah al Redai, cosa resa possibile anche dalla sua capacità di parlare perfettamente l’arabo. Da lì raggiunge lo Yemen, inizia a lavorare come palafreniere nelle scuderie della guardia del re, l’Imam Yahiah, il quale lo prende a benvolere fino a nominarlo precettore dei suoi figli nonché istruttore delle guardie a cavallo yemenite. Nel giugno del 1943, dopo aver trascorso un anno intero alla corte dell’Imam Yahiah, Amedeo Guillet riesce a imbarcarsi su una nave della Croce Rossa italiana per infine rientrare in Italia dopo due mesi di navigazione. Grazie alla sua grande esperienza e alla sua conoscenza delle lingue, viene assegnato al Servizio Informazioni Militare per dedicarsi a operazioni molto delicate contro gli alleati angloamericani. Quando però l’8 settembre viene dichiarato l’armistizio, Amedeo Guillet ripudia Mussolini, rimane fedele al re d’Italia e si trasferisce a Brindisi dove si erano installati i componenti della famiglia reale. Amedeo Guillet diventa un agente segreto formidabile ed è proprio a lui che si deve un’operazione diplomaticamente di grande significato nel processo di riappacificazione tra Italia ed Etiopia: il recupero della corona del Negus, prima confiscata dalla Repubblica di Salò e poi nelle mani dei partigiani, e quindi riconsegnata al suo legittimo proprietario. Finisce la guerra. Dopo il referendum che trasforma l’Italia da Stato monarchico in Stato repubblicano Amedeo Guillet – coerente con il suo giuramento militare di fedeltà alla corona Savoia – rassegna le dimissioni dall’esercito e diventa un cittadino italiano al servizio della Repubblica. Inizia così la sua seconda vita. Si laurea in Scienze Politiche, vince il concorso per entrare nella carriera diplomatica, nel 1950 è segretario di legazione all’ambasciata del Cairo, nel 1954 viene trasferito in Yemen dove ritrova i figli del vecchio Imam che lo accolgono come chi ritorna a casa dopo anni di lontananza, nel 1962 viene nominato ambasciatore e destinato ad Amman dove può condividere la grande passione per i cavalli e per l’equitazione con re Hussein di Giordania (padre della principessa Haya, che sarà presidentessa della Federazione Equestre Internazionale dal 2006 al 2014), nel 1967 è ambasciatore in Marocco, nel 1971 in India, per infine raggiungere il termine della carriera diplomatica nel 1975 e quindi stabilirsi in Irlanda in mezzo ai suoi amati cavalli. Nel 2000 insieme allo scrittore irlandese Sebastian O’Kelly (autore della biografia di Guillet uscita nel 2002 con il titolo “Amedeo”), Guillet ritorna in Eritrea: viene ricevuto dal presidente della Repubblica che lo accoglie come un suo pari. Poi arriva il 2 novembre di questo stesso anno: il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, conferisce ad Amedeo Guillet l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Militare d’Italia, uno dei più prestigiosi riconoscimenti previsti nel nostro Paese. Infine il 16 giugno 2010 il Comandante Diavolo ci lascia per sempre. Questa per sommi capi e in estrema sintesi la vita di Amedeo Guillet. Ma tra le tante storie dentro questa straordinaria storia, ce n’è una che non può non emozionare chi vive per i cavalli e con i cavalli. La storia di un pacchetto che un giorno viene recapitato sulla scrivania dell’ambasciatore Amedeo Guillet. Una storia che sembra una favola, invece è la realtà di due persone che prima di essere soldati - e nemici - sono stati gentiluomini nell’animo. Loro: Max Harari e Amedeo Guillet. Proprio loro: il maggiore britannico e il Comandante Diavolo, cacciatore e preda a turno l’uno per l’altro sulla scena dell’Africa Orientale. Ebbene: negli anni Cinquanta, grazie anche all’attività diplomatica di Guillet, i due ‘vecchi’ nemici si incontrano, e tra loro nasce un’amicizia forte come solo l’aver condiviso quel pezzo di storia tremendo avrebbe potuto rendere possibile, seppure da acerrimi rivali. Un’amicizia vissuta nel nome di un cavallo: Sandor. Sì: perché è ovviamente Max Harari il mittente del pacchetto che un giorno viene recapitato sulla scrivania dell’ambasciatore Amedeo Guillet. Sulla scrivania del Comandante Diavolo. Nel 2000 fu ricevuto con tutti gli onori riservati a un Capo di Stato dal Presidente Eritreo Di Pasquale Santoro 03 nov. 2023 Questo articolo che vi accingete a leggere l’ho valutato attentamente, visto e considerato che quando esco fuori dalla logica dei post strappa lacrime, trovo sempre qualcuno cha ha da ridire sui pensieri che esprimo su argomenti piuttosto spinosi. Ma, fortunatamente, i miei amici più fedeli, gli asmarini come me, hanno un altro metro di giudizio e tanto mi basta. Avete dimenticato o forse vi chiederete dove sono andati a finire gli 80 imprenditori italiani che qualche anno fa dovevano investire in Eritrea?? Sono partiti accompagnata da una vice ministra il cui nome è scomparso nel nulla e hanno fatto i turisti, imprenditori fasulli e come in epoca coloniale, affaristi ,avventurieri in cerca di fortuna e nostalgici di ogni tipo, naturalmente viaggiando a sbafo, con i soldi nostri. Alcuni di loro sono arrivati in Asmara con il cappotto e il colbacco in testa pensando che a 2400 metri ci fossero nevi perenni e non gli ha mai detto nessuno che cosa è stata l'Eritrea nella storia Italiana. Hanno scelto per caso, pensando di venire nel cuore del Corno d'Africa a vedere come sono fatti i tucul. Ora, questi sprovveduti imprenditori/turisti incominciano a pensare che non sono venuti in Africa come pensavano . Si ritrovano a guardare con occhi increduli gli edifici dell'arte cubista e poi Art Decò e si rendono conto di trovarsi davanti ad un impronta più evidente dello stile razionalista del periodo fascista degli anni 30. Si rendono anche conto che a differenza dell'Italia di quel periodo, qui gli architetti si sono sbizzarriti a disegnare una città dell’utopia. Nella "piccola Roma" i nostri frastornati imprenditori/ turisti vedono così accostati i diversi stili architettonici in voga in Europa nei primi decenni del novecento. Possibile che sono in Africa, si domandano? Guardano il Teatro con la sua elegante scala che conduce al portico, in stile rinascimentale, da cui si accede ad una sala da 750 posti e tre file di palchi, oltre alla platea con soffitto decorato in stile liberty. Quando passano davanti al Palazzo del governo e le sue facciate classicheggianti capiscono che dovevano informarsi bene dove stavano andando. Si stanno trovando a girare in una delle più belle città Italiane, su un cocuzzolo di montagna alta 2400 metri E il loro stupore è ancora più grande quando si rendono conto che possono andare a pregare in una chiesa dl nord Italia, come la Cattedrale di S. Giuseppe, terminata nel 1922, in stile romanico lombardo, con i bei mattoni a vista, oppure l'entrata ibrida della chiesa ortodossa dove a tratti tipicamente italiani si accostano due alte torri con elementi dell'architettura locale, come i tetti conici, tipici dei rifugi tradizionali eritrei. I poveri imprenditori/turisti maledicono chi nella Madre Patria non gli abbia mai parlato di questa meraviglia tutta Italiana e ancor più sbigottiscono quando si accorgono delle decine di bar lungo la via principale ad iniziare dal "Vittoria",la Pasticceria Moderna, il Bar Commercio nell'ex Viale Regina, dove da bambini si andava ad acquistare paste e caramelle e poi ancora il bar "Portico", il Bar "Alba" dove si gustavano bicchierini di anice, arachidi e l'appetitoso “mezze", crostini con salumi e formaggi. Che dire poi dello storico "Bar Impero" oppure il bar "Rex" dove ci si andava soprattutto la Domenica e dove le donne di Asmara facevano sfoggio della loro eleganza. Loro non sanno, poverini ,che anche gli americani della Cagnew Station dove tutto era rigorosamente fatto in USA, la sera uscivano dalla loro piccola America e affollavano i bar Italiani tracannando litri di birra Melotti. Loro non conoscono la storia di tutti gli Asmarini che molto prima di loro si sono goduti queste bellezze. I nostri annichiliti imprenditori/turisti vedono giovani e non giovani eritrei che non sono diversi dagli Asmarini di una volta che utilizzano con grande attenzione quello che abbiamo lasciato in eredità. I poveri imprenditori/turisti che non sanno cosa ci sono venuti a fare, ritornano in Italia, senza aver mai sentito parlare di Guido De Nadai, un veneto schivo e riservato che in pochi anni fece fiorire i deserti, creò splendide piantagioni, aziende agricole in cui si faceva anche il parmigiano. Poi la Melotti, una minuta e tenace Signora romana che diventò uno dei più grandi industriali in Eritrea, per non parlare dell'ottica BINI, i cui occhiali sono diventati un "cult" anche in Italia e per non dire del grande Barattolo che con il suo cotonificio fece diventare grande l’Eritrea. Eccoli li, infine, a guardare in alto verso la costruzione futuristica per eccellenza che nessuno avrebbe affrontato in Italia, come la Fiat Tagliero con degli sbalzi in cemento di oltre 15 metri a forma di ali, senza sostegni. Riprendono l'aereo pagato dai contribuenti italiani e non sanno di aver perso la vista della ferrovia più ardita del mondo, con 30 gallerie e 65 tra ponti e viadotti ed ancora la funivia, quel che ne resta, una impressionante opera di ingegneria asmarina, lunga 75 Km. che superava dislivelli di oltre 2320 metri da Massaua. Non sono riusciti a vedere Massaua, la magica Massaua, con i suoi sambuchi colorati, gli abili Nakuda sui loro piccoli "hurry" che pescano tra le isolo Dahalak, i mercati di Cheren, e poi Decamerè che fu la città del futuro, Adi Ugri, con i suoi fiumi e le piantagioni . Non sentiranno mai parlare di Ghinda, Elaberet, Tessenei, Agordat, la Piana d'Ala, Embatkalla, Dongollo, Senafè. Peccato per loro, ma mi sono sempre chiesto perché i politici italiani amano prendere in giro gli amici eritrei; perché sono così sconsiderati da non comprendere che in Eritrea bisogna andarci per aiutarla, non per sfruttarla; perché ci fanno fare sempre figure da opportunisti e voltagabbana. Si sono fatti una gita con l’aereo di stato e chi si è visto si è visto. Hanno fatto molto di più Jovanotti e Vittorio Sgarbi che questi nostri sedicenti, amici degli amici e si fa per dire, qualificati come imprenditori. Certo, ci saranno pure problemi ad investire in Eritrea, limiti e burocrazia ma allora, come mai un italiano, di quelli veri, come Pietro Zambaiti, è riuscito a far decollare l'ex cotonificio Barattolo, rendendolo un fiore all'occhiello per tutto il Corno d’Africa? Di quegli ottanta , si fa per dire imprenditori, nemmeno uno si è rifatto vivo e forse è stato meglio così. Dimenticavo: se questi insignificanti ometti al seguito di impresentabili rappresentanti del governo italiano avessero almeno letto quanto scrisse il Generale Amedeo Guillet: GLI ERITREI FURONO SPLENDIDI. TUTTO QUELLO CHE POTREMO FARE PER L’ERITREA NON SARA’ MAI QUANTO L’ERITREA HA FATTO PER NOI. Forse, dico forse, avrebbero provato vergogna. 27 ottobre 2023
L’Eritrea è impegnata nella promozione e protezione dei diritti umani universali e delle libertà fondamentali. L’Eritrea ribadisce che i diritti umani sono indivisibili e si rafforzano a vicenda, e rifiuta l’approccio selettivo e la politicizzazione dei diritti umani, in contraddizione con i principi di non selettività, sovranità e cooperazione costruttiva tra gli Stati. La risoluzione originale contro l’Eritrea è stata sponsorizzata dai paesi africani presumibilmente per darle un “volto” africano. Per oltre un decennio è continuato l’approccio politicizzato, ingiusto e ingiusto, specifico per paese, mascherato da “Iniziativa africana”. Con il tempo, tuttavia, molti Stati membri si sono resi conto dell’inutilità delle accuse mosse contro l’Eritrea. Vale la pena ricordare che quest’ultima risoluzione per il rinnovo del mandato non ha ottenuto il sostegno di un solo Stato africano. Le risoluzioni che chiedevano il rinnovo e l’estensione del mandato dei SR non sono state sostenute da un solo paese africano. I paesi occidentali, che furono gli artefici originali del piano, ora portano avanti da soli l’assalto annuale. La farsa è stata smascherata. La posizione dell’Eritrea rimane la stessa. All’epoca non riconobbe il mandato mal ottenuto, motivato politicamente, e non lo fa nemmeno oggi. L’Eritrea è stata presa di mira attraverso risoluzioni e meccanismi dell’HRC motivati politicamente e specifici per paese da oltre un decennio. Signor Presidente, Al Comitato viene presentato ancora una volta un rapporto viziato del Relatore Speciale (SR) sull’Eritrea. Il rapporto ripete molte delle stesse accuse infondate che hanno caratterizzato i numerosi rapporti dal 2012. Lo scopo e gli obiettivi sottostanti di queste produzioni erano, e rimangono, la denigrazione, l’isolamento e la destabilizzazione del Paese per scopi politici più ampi. La relazione del relatore speciale non è cambiata. L’ultimo rapporto è l’ennesima raccolta di accuse e dicerie infondate, il solito vetriolo ripetuto ogni anno, e la deplorevole campagna di caccia alle streghe contro l’Eritrea continua. Questi rapporti continuano a ignorare i principali fattori contestuali e a minimizzare deliberatamente i progressi e i risultati ottenuti dall’Eritrea. I diritti umani sono alla base della strategia di sviluppo e di costruzione della nazione dell’Eritrea. Garantire la giustizia sociale, la dignità e il benessere di tutti i cittadini è il fondamento di tutte le politiche e le leggi in Eritrea, come sancito dalla Carta Nazionale, dalle politiche e dai regolamenti nazionali. Il Paese rimane vigile e risoluto nei suoi sforzi per attuare tutti i diritti civili, culturali, economici, politici e sociali per tutti i suoi cittadini. I diritti umani sono il fondamento della giustizia sociale, il principio stesso su cui si fonda la strategia di sviluppo e di costruzione della nazione dell’Eritrea. L’Eritrea continua a fare passi da gigante nel miglioramento dei servizi educativi e sanitari, nella produttività agricola, nella riduzione della povertà e nello sviluppo delle sue infrastrutture economiche e sociali. Signor Presidente, Come per i precedenti rapporti SR sull’Eritrea, la mancanza di dati affidabili, la forte dipendenza da fonti distorte, un approccio non verificabile e l’ignoranza delle realtà fondamentali dell’Eritrea rendono la metodologia e l’essenza delle accuse tenui e inaccettabili. La Risoluzione 75/151 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sottolinea che i principi di non selettività, imparzialità e obiettività si applicano a tutti gli organismi del sistema delle Nazioni Unite, compresi “relatori e rappresentanti speciali, esperti indipendenti e gruppi di lavoro” nello svolgimento dei loro mandati. Il Relatore Speciale sulla situazione dei diritti umani in Eritrea è rovinato da estremi pregiudizi, selettività e parzialità. Permettetemi di presentare un esempio eclatante. Il relatore ha maliziosamente riferito che i soldati somali addestrati in Somalia sono stati schierati dall'Eritrea nel conflitto in Etiopia. Questa menzogna, un rigurgito di resoconti non verificati da parte dei detrattori dell’Eritrea, ha causato inutili ansie tra il popolo somalo. Il governo della Somalia ha dissipato la menzogna, ma questo relatore non ha ritrattata la menzogna. Le accuse mendaci del Relatore Speciale violano il Codice di condotta per i titolari di mandati di procedure speciali dell'HRC. In particolare, il comportamento del SR viola l'articolo 6, lettera a) sulle Prerogative, il quale prevede: “I titolari del mandato devono dimostrare i fatti, sulla base di informazioni obiettive e affidabili provenienti da fonti pertinenti e credibili che hanno debitamente incrociato con il nella massima misura possibile”. La SR ha inoltre violato le disposizioni dell'articolo 8, lettera a) sulla fonte dell'informazione e non si è ispirata ai “principi di discrezione, trasparenza, imparzialità e imparzialità”. L’Eritrea ha invitato la SR ad assumersi la responsabilità di aver presentato un rapporto fallace all’HRC in violazione dei “principi di responsabilità…. in cui i principi di indipendenza, imparzialità e obiettività attività sono compromesse”. Il fatto indelebile è che l'SR ha mancato al suo dovere di raccogliere informazioni obiettive e affidabili da un'ampia gamma di fonti primarie e secondarie. Lo stesso si può dire oggi delle sue accuse. I costumi e le tradizioni esemplari di rispetto e tolleranza etnica e religiosa dell’Eritrea sono stati gravemente travisati dall’SR nel suo ultimo rapporto. È vergognoso che l'SR abbia scelto di inserire insinuazioni infondate per cercare di creare un cuneo tra le varie etnie presenti in Eritrea. Il relatore ha fatto di tutto per diffamare il programma di servizio nazionale eritreo. Permettetemi di dichiarare per iscritto la vera essenza del programma di servizio nazionale di grande successo dell’Eritrea. Il servizio nazionale fu introdotto subito dopo l'indipendenza, quando il governo intraprese allora un massiccio programma di smobilitazione. Il Servizio Nazionale dell’Eritrea è stato istituito attraverso la Proclamazione n. 82 del 1995 con un impegno per la dignità umana, dando potere alle nuove generazioni fondamentali per la costruzione e lo sviluppo della nazione. Promuove l’unità nazionale e la cittadinanza. Per legge, ogni eritreo, di età pari o superiore a 18 anni, è tenuto a completare il servizio nazionale, che comprende 6 mesi di formazione e istruzione e 12 mesi di partecipazione ad attività di sviluppo. In tempo di pace, i membri del Servizio Nazionale non hanno altri obblighi una volta adempiuto al loro dovere di servizio per 18 mesi. Rimangono parte dell'esercito di riserva che può essere richiamato se e quando sarà necessario. Un numero significativo di membri del servizio nazionale è stato integrato nel nuovo sistema di remunerazione che ha migliorato la scala salariale del pubblico impiego. Il servizio nazionale in Eritrea preserva i valori e i principi dell’Eritrea, mantiene l’unità del nostro popolo, promuove la tolleranza e il rispetto etnico e religioso e, soprattutto, promuove la stabilità e la sicurezza della nostra giovane nazione. Signor Presidente, Sullo sfondo di queste realtà inaccettabili e in considerazione delle deplorevoli pratiche di diffamazione dell’Eritrea sulla base di false accuse spesso preparate in combutta con gli acerrimi nemici dell’Eritrea, l’Eritrea richiede ancora una volta: - Il ritiro totale del falso Rapporto (A/HRC/47/21) presentato dalla SR alla Sessione dell'UNHRC - L'Applicazione di adeguate misure sanzionatorie, compreso il licenziamento, del SR per inadempimento dei doveri; - e la fine di questo ingiustificato strumento di molestia Abbiamo appena celebrato il 78° anniversario delle Nazioni Unite e il 75° anniversario della Dichiarazione dei diritti umani, ma il nostro mondo rimane ingiusto e disuguale, e la politicizzazione dei diritti umani non fa altro che aggravare ulteriormente la terribile situazione attuale. La necessità di stabilire un’unità di pensiero, pratica e organizzazione contro la politicizzazione che mette in pericolo l’importanza dell’HRC come organismo emerso come risultato dell’esperienza fallimentare del suo predecessore, è ancora di fondamentale importanza da considerare. Il nostro mondo ha bisogno di un sistema solido che funzioni veramente per il miglioramento dei diritti umani per tutti. L’Eritrea rimane impegnata nei confronti del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite e ha lavorato instancabilmente con tutti i membri del Consiglio per riscattare la credibilità, l’efficacia e l’integrità erodenti del Consiglio. Grazie |
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