L’Eritrea respinge la dichiarazione rilasciata dal Segretario generale aggiunto delle Nazioni Unite per i diritti umani durante il dialogo interattivo rafforzato tenutosi durante la 55a sessione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite.
In un momento in cui la comunità globale chiede equità e giustizia nelle istituzioni internazionali, in cui il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite cerca di affrontare le questioni della selettività e dei doppi standard, è deplorevole che ancora una volta alcuni funzionari delle Nazioni Unite, travisando fatti e rigurgitando accuse infondate contro l’Eritrea, compreso quello di revoca del mandato da parte del Consiglio per i diritti umani. Il 28 febbraio 2024, Ilze Brands Kehris, segretario generale aggiunto delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha consegnato una dichiarazione al Consiglio per i diritti umani, che è stata presa parola per parola dai numerosi rapporti contenenti accuse infondate a cui l’Eritrea ha ripetutamente risposto. Tra le altre cose, il Segretario generale aggiunto descrive l’Eritrea come un paese senza legge, “che soffre di una grave mancanza di stato di diritto senza un sistema giudiziario indipendente o altri meccanismi di responsabilità”. La signora Ilze Brands Kehris insulta i Servizi Nazionali senza scarso esame e riferimento alla logica sottostante; norme statutarie; e le politiche e le prospettive del Governo. Allude alla persecuzione dei cristiani; ignaro del track record riconosciuto dall’Eritrea di costumi esemplari e armoniosi di tolleranza e rispetto religioso, in una regione che è spesso tormentata da conflitti etnici e religiosi. L’Assistente Segretario Generale prende ingenuamente spunto dalla disinformazione del TPLF per affermare falsamente la “presenza segnalata di truppe eritree nella regione del Tigray”. A questo proposito, ha appoggiato, consapevolmente o inconsapevolmente, il rifiuto da parte del TPLF della sentenza definitiva e vincolante sui confini della Commissione per i Confini dell’Eritrea Etiopia (EEBC), in violazione del diritto internazionale e della posizione delle stesse Nazioni Unite. Ovviamente, l’intenzione non era quella di coinvolgere l’Eritrea, ma di incrementare la campagna negativa contro lo Stato dell’Eritrea, la sua leadership e il suo popolo. Niente nella dichiarazione riflette i fatti sul campo che avrebbero potuto essere facilmente verificati dai membri del Country Team delle Nazioni Unite in Eritrea e dalle ripetute risposte presentate dal governo eritreo. Il funzionario delle Nazioni Unite ha scelto invece di utilizzare la piattaforma per portare avanti programmi politicamente motivati da alcuni ambienti, che non hanno nulla a che fare con la promozione dei diritti umani dei popoli eritrei. È scoraggiante vedere l’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani (OHCHR) utilizzato come strumento per prendere di mira alcune nazioni, proclamando ad alta voce accuse non verificate, mentre si hanno risposte mute su evidenti violazioni altrove. Le recenti azioni dell’OHCHR nell’unirsi a quella che sembra essere una campagna di diffamazione contro l’Eritrea, basata su affermazioni infondate, sono irresponsabili e non riescono a soddisfare gli obiettivi dell’ufficio stabiliti nella risoluzione 48/141. La ripetizione di accuse errate rafforza le riserve che gli Stati membri hanno nei confronti del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, in particolare la percezione della selettività. Quando il mondo è testimone di crimini atroci, la scelta di distogliere l’attenzione prendendosela con un piccolo stato in via di sviluppo, che non ha commesso tali crimini è inaccettabile. La realtà di un paese e di un popolo la cui storia è basata sulla lotta per la liberazione e per i diritti umani non può essere cancellata o offuscata da dichiarazioni così irresponsabili. Invece di lodare accuse infondate, l’Ufficio dovrebbe dare priorità all’equilibrio, all’impegno, alla cooperazione tecnica e al dialogo basato su aree di priorità per i paesi interessati. Questo metodo ha maggiori probabilità di stabilire una comprensione e di dare luogo a una cooperazione significativa nella promozione dei diritti umani. Il fatto che il Segretario generale aggiunto abbia deciso di portare alla luce accuse infondate avanzate da una commissione d’inchiesta precedentemente defunta, sette anni dopo lo scioglimento del suo mandato, da parte del Consiglio per i diritti umani, è stata una manifestazione della politicizzazione dell’Ufficio. L’Eritrea ha ritenuto che i rapporti fossero privi di alcuna metodologia professionale di accertamento dei fatti e basati su “testimonianze” selezionate, non verificabili e contraddittorie. L'Eritrea ha respinto fin dall'inizio la risoluzione che istituiva il relatore speciale sulla situazione dei diritti umani in Eritrea affermando che il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite si stava facendo beffe dei "criteri di imparzialità e ammissibilità del Consiglio" poiché il risultato non era il risultato di "un processo imparziale di raccolta dei fatti e accertando”. All’Eritrea non è stata data l’opportunità di fornire informazioni e prove essenziali, e ciò che è stata in grado di presentare in un tempo molto limitato è stato “ignorato”. L’intero processo è stato “portato avanti in modo frettoloso” ed è stato “basato su un approccio parziale volto a inghiottire le accuse dei detrattori dell’Eritrea e ad ignorare le risposte e le prove dell’Eritrea”. L’Eritrea chiede la fine di tutti i mandati politicamente motivati stabiliti senza il consenso del paese interessato. Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite dovrebbe cessare di essere utilizzato come piattaforma per manovre geopolitiche. Il Consiglio dovrebbe stabilire credibilità ed efficacia nel promuovere i diritti umani su scala globale, libero da indebite influenze geopolitiche. Dovrebbe impegnarsi in una vera cooperazione con gli Stati nella promozione e protezione dei diritti umani. La Missione Permanente dell’Eritrea è pronta a impegnarsi con tutte le entità delle Nazioni Unite. credit Ghideon Musa Aron
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8/3/2016
Tullia M. Piccoli - "Grazie a un tasso di criminalità molto basso e alla parità dei diritti di cui godono le donne eritree, l'Eritrea è forse uno dei paesi più sicuri e meno restrittivi del continente africano per le donne in viaggio..." pag. 356 della Guida Lonely Planet. Con questa rassicurazione 'da verificare' in loco, ho voluto intraprendere il viaggio in Eritrea, forte anche delle conoscenze di donne eritree in Torino e di agganci ad Asmara, la capitale. A Nord del Mediterraneo circolano voci poco rassicuranti sul clima di guerra e mancanza di libertà del paese, tuttavia la curiosità è stata più forte dei timori. Le donne eritree che conosco a Torino sono donne non comuni; le giovani, anche se addette a lavori di assistenza domestica, sono quasi tutte diplomate, colte e con conoscenza di almeno 3 lingue: il tigrino, l'italiano e l'inglese. Ma ciò che mi affascina di più è il loro attaccamento alle tradizioni, da quelle alimentari a quelle sociali, come le feste, le danze, le ricorrenze e soprattutto la loro grande cortesia e disponibilità. E’ bello osservare la grazia che hanno nei movimenti e la dignità del loro incedere, quasi nascondano un’arcaica e incontaminata forza e superiorità interiore. In aereo, seduta accanto a Saba, vestita sobriamente ma alla moda, vengo a sapere che vive a Milano, lavora in una ditta, e torna a casa a trovare la madre per le vacanze. Scopro poi che ha una serie infinita di bagagli e mi spiega che sono regali per una serie altrettanto infinita di fratelli, sorelle, nipoti e parenti vari. Le rimesse degli emigrati della ‘diaspora’, cioè coloro che sono fuoriusciti dall’Eritrea durante il periodo del Derg (governo etiopico di occupazione prima della liberazione del 1991), sono ancora molto importanti per l’economia, in lento sviluppo, del paese. Per i parenti emigrati, i legami famigliari non si perdono; quasi tutti sentono l’obbligo morale di tornare e riabbracciare fisicamente i loro cari. I doni più gettonati sono l’olio d’oliva, i capi di vestiario e, quando possibile, cellulari e computer portatili. Le madri sembrano ancora gradire cioccolatini e caramelle, che nel paese sono care, proprio come quando ero piccola io. Le strade di Asmara pullulano di gente che va e viene, soprattutto a piedi ed in bicicletta. La metà della popolazione è musulmana, ma le donne vestono indistintamente all’occidentale o in modo tradizionale con lo zurià, un abito bianco, bordato, di cotone-garza a più strati e con una sciarpa bianca tenuta sul collo o sul capo per coprirsi dal sole o dal vento. Ho incontrato pochissime donne in abito nero lungo, alla moda musulmana, e nessuna col velo integrale. Le donne, qui, non tengono il capo abbassato in presenza degli uomini. Sono invece fiere, ironiche e combattive, pur con i modi garbati e privi di aggressività della loro cultura. Beh, c’è molto da imparare… Inoltre le donne non fumano in pubblico (e fumano pochissimi uomini) perché è il segno distintivo della ‘disponibilità’ sessuale. La donna eritrea si trova ad essere in un mirabile equilibrio tra tradizione e modernità. C’è chi si sente un po’ stretta, ma c’è chi sa apprezzare il senso di protezione sociale che questa condizione garantisce ancora. I legami sociali, parentali, la ‘reputazione’ come vincolo ma anche come salvaguardia, il forte rapporto famigliare e di gruppo hanno preservato di fatto lo sfaldamento sociale e la deriva del degrado, anche all’estero, nelle metropoli corrotte dell’occidente. Non esiste un giro di prostituzione di eritree, è inimmaginabile. Per quanto riguarda il problema della violenza sulle donne, Mbrat, giovane eritrea espulsa con altri 80.000 connazionali da Addis Abeba, in seguito all’aggressione militare dell’Etiopia (60 milioni di abitanti) contro l’Eritrea (5 milioni di abitanti) nel 1998, mi dice che le violenze sessuali sulle donne sono rarissime perché punite molto duramente. Lei vive da sola ad Asmara e sostiene di sentirsi sicura, non minimamente minacciata da eventuali atti di aggressione sessuale. La sera tardi sono scesa per le strade della capitale, tra edifici e ville di gusto architettonico italiano dei primi decenni del secolo scorso. L’aria tiepida e ancora tanti passanti. Locali pubblici in chiusura e qualche venditore di belès, fichi d’india, agli angoli dei marciapiedi. Ho constatato anch’io la piacevolezza della passeggiata tra giovani donne che si muovevano serenamente anche lungo i poco illuminati viali della città e nei dintorni. Tra i vicoli più scuri si vedevano spuntare gli abiti bianchi di donne sole che si dirigevano con passo calmo verso casa, forse ignare di quale privilegio sia il vivere il proprio quartiere e la propria città come a noi non è più consentito. E tutto ciò in assenza di militari, di poliziotti e di ‘ronde’. Intervista a Ghennet Tekiè. Ma dove sta l’atmosfera di intimidazione e paura che mi avevano prospettato in Italia? Forse lo sguardo del turista sfiora solo la superficie dei luoghi e non penetra le contraddizioni della comunità che visita. Ho voluto allora intervistare una donna molto interessante. Ghennet è un’eritrea che vive e lavora ad Asmara; ha due figlie che si sono laureate di recente ma, soprattutto, ha avuto l’esperienza di lavorare all’estero, in Inghilterra, per 15 anni. Ciò le consente di avere un’ottica più ampia della mia di quello che è il processo di emancipazione della donna in Eritrea. - E’ vero che dopo l’indipendenza del 1991 la donna eritrea ha ottenuto degli importanti diritti civili? - Non solamente dopo l’indipendenza, anche durante la lotta armata per l’indipendenza, l’emancipazione delle donne eritree era già assicurata. Le donne rappresentavano il 30% dei combattenti, dirigevano dei battaglioni, assicuravano l’assistenza sanitaria e l’istruzione sia dei combattenti che dell’intera popolazione. Dopo aver assicurato l’indipendenza, non sono ritornate in cucina. Attualmente ricoprono cariche ministeriali, di direzione generale, sono medici, ingegneri, piloti di linee aeree interne, informatiche e anche meccaniche. Dal momento che la politica del governo è quella di fornire scuole in tutti i paesi, anche quelli sperduti nelle campagne, le donne della nuova generazione ne approfittano e riescono a completare gli studi superiori. Nel mio caso, per le mie due figlie, dal momento che i livelli secondari e universitari sono gratuiti in Eritrea, non abbiamo versato neanche un Nakfa per i loro studi. - La guerra del 1998 combattuta dall’Eritrea per difendere i propri confini dall’invasione etiopica ha finito per segnare una battuta d’arresto del processo di emancipazione? - La guerra è una cosa devastante che non porta a nulla tranne disastri e ostacoli. Quando la guerra condotta dall’Etiopia è cominciata, molti progetti in corso si sono fermati per qualche tempo. Ma ora questi progetti hanno ripreso il loro cammino. - In Italia mi hanno detto che il centro di istruzione e addestramento militare di Sawa, dove tutti i giovani devono andare, è una specie di prigione che terrorizza i ragazzi e le loro famiglie. Molti giovani fuggirebbero dall’Eritrea per non dover fare il servizio militare di Sawa. - Condanno energicamente questa informazione inesatta. Sawa non è un luogo di tortura. Sawa è un luogo in cui ragazzi e ragazze svolgono l’ultimo anno delle superiori e in seguito ottengono il diploma ‘. Quelli di loro che superano l’esame vanno all’università. Gli studenti che hanno ricevuto un giudizio elevato ricevono il premio ‘Zagra’ dalle mani del presidente eritreo. Il fine del governo è incoraggiare i giovani a studiare e diplomarsi. Tra loro, il numero delle ragazze non cessa di aumentare di anno in anno. Chi invece non supera l’esame ha il diritto di seguire degli ‘stage’ professionali per un anno. A parte gli studi, i giovani apprendono la scoperta e lo scambio culturale nonché la disciplina. Anche se le classi sono miste, i dormitori dei ragazzi e delle ragazze sono separati. Durante la notte, c’ è un’alta sorveglianza affinché non ci siano ‘andirevieni’ tra i dormitori. - Le mie due figlie sono andate a Sawa come tutti i giovani eritrei. Mio marito ed io siamo andati a trovarle e siamo stati impressionati dalla disciplina che regnava nel campo. Qualche mese più tardi si sono diplomate e sono entrate all’Università. Devo dire che le abbiamo trovate più responsabili e anche molto più mature. Dato che l’Eritrea ha una popolazione poco numerosa, è evidente che i giovani difendano la loro patria contro eventuali aggressioni esterne, per cui sono tenuti ad un addestramento militare di 3 mesi proprio a Sawa. - Se ottimista o pessimista per il futuro dell’Eritrea? - Benché l’Eritrea attraversi un periodo economico difficile in questo momento, come del resto tutti i paesi sviluppati e in via di sviluppo che soffrono la crisi mondiale, io sono molto ottimista sull’avvenire del mio paese. Il popolo e il governo eritreo lavorano duro affinché l’economia del paese sia stabile e duratura. - Qual è il tuo messaggio alle donne italiane? - Io le invito a visitare il paese e a vedere con i propri occhi la partecipazione delle donne in tutti i settori economici e anche a vedere la pace che regna nel paese e l’armonia della popolazione. Reportage di Tullia M. Piccoli |
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Settembre 2024
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