di Pasquale Santoro
Da un articolo sul quotidiano “ LA REPPUBLICA” Si siede alla sua scrivania. Sul piano del tavolo è depositato un pacchetto. Lui lo apre. Dentro c’è uno zoccolo di cavallo in argento con un’iscrizione: “Sandor. Berbero grigio, 12 anni. Max Harari, Asmara – Giugno 1942”. C’è anche una foto: si vede il bel primo piano di un cavallo grigio affacciato alla porta del suo box. E una dedica autografa a penna: “Ad Amedeo, in ricordo del meraviglioso cavallo che fu causa della nostra amicizia”. Ad Amedeo… ma chi è Amedeo? E chi è la persona che gli invia questo oggetto così particolare? Facciamo un salto indietro nel tempo. Adesso siamo nel 1909. È il 7 febbraio, giorno in cui a Piacenza nasce Amedeo. Amedeo Guillet. Famiglia nobile di origine sabauda. Il piccolo Amedeo cresce e diventa ragazzo dall’animo sensibile e creativo: quando è il momento di fare la prima scelta terminata l’età della spensierata adolescenza è indeciso tra la carriera musicale e quella militare. Ma la carriera militare presenta un vantaggio esclusivo, ai suoi occhi: permette di rimanere a contatto con i cavalli praticamente ventiquattr’ore al giorno. La sua passione. I cavalli, certo: elemento fondamentale e imprescindibile dall’inizio alla fine di una vita intera. Amedeo Guillet esce dall’Accademia Militare di Modena con il grado di sottotenente nel 1931. Il Monferrato e le Guide i primi due reggimenti di cavalleria in cui presta servizio, probabilmente con l’idea di dedicarsi (anche) allo sport equestre come molti suoi colleghi d’arma: non dimentichiamo che in questo momento storico, infatti, l’equitazione agonistica è quasi esclusivamente cosa di militari. Ma il destino decide diversamente: nel 1935 Amedeo Guillet viene trasferito in Africa, dove nel mese di ottobre comanda un plotone impegnato nelle prime operazioni della guerra colonialista d’Etiopia e in dicembre viene ferito gravemente a una mano. Ed è a partire da questo momento che la sua vita smette di essere simile a quella di tanti altri ufficiali dell’esercito italiano per diventare la storia di un romanzo. Nel 1937 Amedeo Guillet è in Spagna dove comanda un reparto di carri della divisione Fiamme Nere e poi un reparto di cavalleria marocchina durante la guerra civile spagnola; successivamente ritorna in Libia, quindi nuovamente in Eritrea dove prende il comando del Gruppo Bande Amhara, un’organizzazione militare che riunisce uomini di origine etiope, eritrea e yemenita. È qui che nasce il mito: nel 1939 durante un’operazione militare il suo cavallo viene colpito e ucciso e lui, illeso, ne monta immediatamente un altro per continuare la carica, ma anche questo secondo povero cavallo cade vittima del fuoco; Amedeo Guillet imbraccia allora una mitragliatrice e continua a piedi la battaglia senza alcuna protezione fino a conquistare il sopravvento sulle formazioni nemiche. I soldati indigeni che avevano combattuto con lui, sbalorditi per la sua apparente invincibilità, lo soprannominano Comandante Diavolo, ignari di consegnare così alla leggenda un ‘titolo’ che segnerà ormai per sempre la vita di questo personaggio straordinario. Quando gli inglesi conquistano Asmara nell’aprile del 1941, Amedeo Guillet prende una decisione folle: se anche l’Italia si fosse arresa, lui avrebbe continuato la ‘sua’ guerra. E così accade: Guillet si spoglia della divisa dell’esercito italiano, raduna una formazione di suoi fedelissimi soldati indigeni e inizia una guerriglia senza quartiere, efficace al punto che gli inglesi mettono sul suo capo una taglia enorme. Invano, però: nessuno lo tradisce in nome del denaro, a conferma di quanto questa sorta di Lawrence d’Arabia italiano fosse amato dalle popolazioni locali. Ma in ottobre dopo una continua ed estenuante serie di operazioni Guillet capisce che non avrebbe più potuto andare avanti ulteriormente: significativo il fatto che la decisione di porre termine alla guerriglia venga da lui presa dopo la cattura del suo cavallo grigio Sandor da parte del maggiore Max Harari, l’ufficiale inglese responsabile delle attività di ricerca del temibile Comandante Diavolo. Amedeo Guillet dunque libera i suoi soldati e si nasconde a Massaua sotto la falsa identità di Ahmed Abdallah al Redai, cosa resa possibile anche dalla sua capacità di parlare perfettamente l’arabo. Da lì raggiunge lo Yemen, inizia a lavorare come palafreniere nelle scuderie della guardia del re, l’Imam Yahiah, il quale lo prende a benvolere fino a nominarlo precettore dei suoi figli nonché istruttore delle guardie a cavallo yemenite. Nel giugno del 1943, dopo aver trascorso un anno intero alla corte dell’Imam Yahiah, Amedeo Guillet riesce a imbarcarsi su una nave della Croce Rossa italiana per infine rientrare in Italia dopo due mesi di navigazione. Grazie alla sua grande esperienza e alla sua conoscenza delle lingue, viene assegnato al Servizio Informazioni Militare per dedicarsi a operazioni molto delicate contro gli alleati angloamericani. Quando però l’8 settembre viene dichiarato l’armistizio, Amedeo Guillet ripudia Mussolini, rimane fedele al re d’Italia e si trasferisce a Brindisi dove si erano installati i componenti della famiglia reale. Amedeo Guillet diventa un agente segreto formidabile ed è proprio a lui che si deve un’operazione diplomaticamente di grande significato nel processo di riappacificazione tra Italia ed Etiopia: il recupero della corona del Negus, prima confiscata dalla Repubblica di Salò e poi nelle mani dei partigiani, e quindi riconsegnata al suo legittimo proprietario. Finisce la guerra. Dopo il referendum che trasforma l’Italia da Stato monarchico in Stato repubblicano Amedeo Guillet – coerente con il suo giuramento militare di fedeltà alla corona Savoia – rassegna le dimissioni dall’esercito e diventa un cittadino italiano al servizio della Repubblica. Inizia così la sua seconda vita. Si laurea in Scienze Politiche, vince il concorso per entrare nella carriera diplomatica, nel 1950 è segretario di legazione all’ambasciata del Cairo, nel 1954 viene trasferito in Yemen dove ritrova i figli del vecchio Imam che lo accolgono come chi ritorna a casa dopo anni di lontananza, nel 1962 viene nominato ambasciatore e destinato ad Amman dove può condividere la grande passione per i cavalli e per l’equitazione con re Hussein di Giordania (padre della principessa Haya, che sarà presidentessa della Federazione Equestre Internazionale dal 2006 al 2014), nel 1967 è ambasciatore in Marocco, nel 1971 in India, per infine raggiungere il termine della carriera diplomatica nel 1975 e quindi stabilirsi in Irlanda in mezzo ai suoi amati cavalli. Nel 2000 insieme allo scrittore irlandese Sebastian O’Kelly (autore della biografia di Guillet uscita nel 2002 con il titolo “Amedeo”), Guillet ritorna in Eritrea: viene ricevuto dal presidente della Repubblica che lo accoglie come un suo pari. Poi arriva il 2 novembre di questo stesso anno: il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, conferisce ad Amedeo Guillet l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Militare d’Italia, uno dei più prestigiosi riconoscimenti previsti nel nostro Paese. Infine il 16 giugno 2010 il Comandante Diavolo ci lascia per sempre. Questa per sommi capi e in estrema sintesi la vita di Amedeo Guillet. Ma tra le tante storie dentro questa straordinaria storia, ce n’è una che non può non emozionare chi vive per i cavalli e con i cavalli. La storia di un pacchetto che un giorno viene recapitato sulla scrivania dell’ambasciatore Amedeo Guillet. Una storia che sembra una favola, invece è la realtà di due persone che prima di essere soldati - e nemici - sono stati gentiluomini nell’animo. Loro: Max Harari e Amedeo Guillet. Proprio loro: il maggiore britannico e il Comandante Diavolo, cacciatore e preda a turno l’uno per l’altro sulla scena dell’Africa Orientale. Ebbene: negli anni Cinquanta, grazie anche all’attività diplomatica di Guillet, i due ‘vecchi’ nemici si incontrano, e tra loro nasce un’amicizia forte come solo l’aver condiviso quel pezzo di storia tremendo avrebbe potuto rendere possibile, seppure da acerrimi rivali. Un’amicizia vissuta nel nome di un cavallo: Sandor. Sì: perché è ovviamente Max Harari il mittente del pacchetto che un giorno viene recapitato sulla scrivania dell’ambasciatore Amedeo Guillet. Sulla scrivania del Comandante Diavolo. Nel 2000 fu ricevuto con tutti gli onori riservati a un Capo di Stato dal Presidente Eritreo Di Pasquale Santoro 03 nov. 2023 Questo articolo che vi accingete a leggere l’ho valutato attentamente, visto e considerato che quando esco fuori dalla logica dei post strappa lacrime, trovo sempre qualcuno cha ha da ridire sui pensieri che esprimo su argomenti piuttosto spinosi. Ma, fortunatamente, i miei amici più fedeli, gli asmarini come me, hanno un altro metro di giudizio e tanto mi basta. Avete dimenticato o forse vi chiederete dove sono andati a finire gli 80 imprenditori italiani che qualche anno fa dovevano investire in Eritrea?? Sono partiti accompagnata da una vice ministra il cui nome è scomparso nel nulla e hanno fatto i turisti, imprenditori fasulli e come in epoca coloniale, affaristi ,avventurieri in cerca di fortuna e nostalgici di ogni tipo, naturalmente viaggiando a sbafo, con i soldi nostri. Alcuni di loro sono arrivati in Asmara con il cappotto e il colbacco in testa pensando che a 2400 metri ci fossero nevi perenni e non gli ha mai detto nessuno che cosa è stata l'Eritrea nella storia Italiana. Hanno scelto per caso, pensando di venire nel cuore del Corno d'Africa a vedere come sono fatti i tucul. Ora, questi sprovveduti imprenditori/turisti incominciano a pensare che non sono venuti in Africa come pensavano . Si ritrovano a guardare con occhi increduli gli edifici dell'arte cubista e poi Art Decò e si rendono conto di trovarsi davanti ad un impronta più evidente dello stile razionalista del periodo fascista degli anni 30. Si rendono anche conto che a differenza dell'Italia di quel periodo, qui gli architetti si sono sbizzarriti a disegnare una città dell’utopia. Nella "piccola Roma" i nostri frastornati imprenditori/ turisti vedono così accostati i diversi stili architettonici in voga in Europa nei primi decenni del novecento. Possibile che sono in Africa, si domandano? Guardano il Teatro con la sua elegante scala che conduce al portico, in stile rinascimentale, da cui si accede ad una sala da 750 posti e tre file di palchi, oltre alla platea con soffitto decorato in stile liberty. Quando passano davanti al Palazzo del governo e le sue facciate classicheggianti capiscono che dovevano informarsi bene dove stavano andando. Si stanno trovando a girare in una delle più belle città Italiane, su un cocuzzolo di montagna alta 2400 metri E il loro stupore è ancora più grande quando si rendono conto che possono andare a pregare in una chiesa dl nord Italia, come la Cattedrale di S. Giuseppe, terminata nel 1922, in stile romanico lombardo, con i bei mattoni a vista, oppure l'entrata ibrida della chiesa ortodossa dove a tratti tipicamente italiani si accostano due alte torri con elementi dell'architettura locale, come i tetti conici, tipici dei rifugi tradizionali eritrei. I poveri imprenditori/turisti maledicono chi nella Madre Patria non gli abbia mai parlato di questa meraviglia tutta Italiana e ancor più sbigottiscono quando si accorgono delle decine di bar lungo la via principale ad iniziare dal "Vittoria",la Pasticceria Moderna, il Bar Commercio nell'ex Viale Regina, dove da bambini si andava ad acquistare paste e caramelle e poi ancora il bar "Portico", il Bar "Alba" dove si gustavano bicchierini di anice, arachidi e l'appetitoso “mezze", crostini con salumi e formaggi. Che dire poi dello storico "Bar Impero" oppure il bar "Rex" dove ci si andava soprattutto la Domenica e dove le donne di Asmara facevano sfoggio della loro eleganza. Loro non sanno, poverini ,che anche gli americani della Cagnew Station dove tutto era rigorosamente fatto in USA, la sera uscivano dalla loro piccola America e affollavano i bar Italiani tracannando litri di birra Melotti. Loro non conoscono la storia di tutti gli Asmarini che molto prima di loro si sono goduti queste bellezze. I nostri annichiliti imprenditori/turisti vedono giovani e non giovani eritrei che non sono diversi dagli Asmarini di una volta che utilizzano con grande attenzione quello che abbiamo lasciato in eredità. I poveri imprenditori/turisti che non sanno cosa ci sono venuti a fare, ritornano in Italia, senza aver mai sentito parlare di Guido De Nadai, un veneto schivo e riservato che in pochi anni fece fiorire i deserti, creò splendide piantagioni, aziende agricole in cui si faceva anche il parmigiano. Poi la Melotti, una minuta e tenace Signora romana che diventò uno dei più grandi industriali in Eritrea, per non parlare dell'ottica BINI, i cui occhiali sono diventati un "cult" anche in Italia e per non dire del grande Barattolo che con il suo cotonificio fece diventare grande l’Eritrea. Eccoli li, infine, a guardare in alto verso la costruzione futuristica per eccellenza che nessuno avrebbe affrontato in Italia, come la Fiat Tagliero con degli sbalzi in cemento di oltre 15 metri a forma di ali, senza sostegni. Riprendono l'aereo pagato dai contribuenti italiani e non sanno di aver perso la vista della ferrovia più ardita del mondo, con 30 gallerie e 65 tra ponti e viadotti ed ancora la funivia, quel che ne resta, una impressionante opera di ingegneria asmarina, lunga 75 Km. che superava dislivelli di oltre 2320 metri da Massaua. Non sono riusciti a vedere Massaua, la magica Massaua, con i suoi sambuchi colorati, gli abili Nakuda sui loro piccoli "hurry" che pescano tra le isolo Dahalak, i mercati di Cheren, e poi Decamerè che fu la città del futuro, Adi Ugri, con i suoi fiumi e le piantagioni . Non sentiranno mai parlare di Ghinda, Elaberet, Tessenei, Agordat, la Piana d'Ala, Embatkalla, Dongollo, Senafè. Peccato per loro, ma mi sono sempre chiesto perché i politici italiani amano prendere in giro gli amici eritrei; perché sono così sconsiderati da non comprendere che in Eritrea bisogna andarci per aiutarla, non per sfruttarla; perché ci fanno fare sempre figure da opportunisti e voltagabbana. Si sono fatti una gita con l’aereo di stato e chi si è visto si è visto. Hanno fatto molto di più Jovanotti e Vittorio Sgarbi che questi nostri sedicenti, amici degli amici e si fa per dire, qualificati come imprenditori. Certo, ci saranno pure problemi ad investire in Eritrea, limiti e burocrazia ma allora, come mai un italiano, di quelli veri, come Pietro Zambaiti, è riuscito a far decollare l'ex cotonificio Barattolo, rendendolo un fiore all'occhiello per tutto il Corno d’Africa? Di quegli ottanta , si fa per dire imprenditori, nemmeno uno si è rifatto vivo e forse è stato meglio così. Dimenticavo: se questi insignificanti ometti al seguito di impresentabili rappresentanti del governo italiano avessero almeno letto quanto scrisse il Generale Amedeo Guillet: GLI ERITREI FURONO SPLENDIDI. TUTTO QUELLO CHE POTREMO FARE PER L’ERITREA NON SARA’ MAI QUANTO L’ERITREA HA FATTO PER NOI. Forse, dico forse, avrebbero provato vergogna. |
Archivi
Settembre 2024
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0 Italia. |