<<La Grande Bugia, Eritrea andata e ritorno>> di Francesca Ronchin e Salomon Mebrahtu su RAI36/7/2025 L’Eritrea è considerata una delle peggiori dittature al mondo, il paese africano "meno sicuro" in assoluto. Difficilmente accessibile per troupe e giornalisti.
Proprio dal cuore del Corno d’Africa, parte uno dei principali flussi migratori che in questi anni hanno attraversato il Mediterraneo. La questione eritrea è anche alla base di alcuni dei principali pilastri su cui poggiano le politiche sull'immigrazione. In primis la Carta di Roma, che per attuare “un’informazione corretta sull’immigrazione” ha sostituito la parola "immigrato" con una parola buona per tutte le stagioni: "migrante". Termine che nel suo sottolineare un’inesistente volontà di nomadismo, falsifica le reali motivazioni di quanti lasciano il loro Paese non certo per spondeggiare tra le rive del Mediterraneo o le lacune della nostra legislazione, ma per cercare una terra in cui collocarsi e avere un futuro migliore. La questione eritrea ha inoltre ispirato sentenze dirimenti su rimpatri o respingimenti, come quella della Cedu sul caso Hirsi Jama. Sempre gli eritrei sono i protagonisti di alcuni dei principali casi di cronaca, dalla tragedia del 3 ottobre 2013 davanti alle coste di Lampedusa che ha dato il via a Mare Nostrum a quella del 2015 da cui scatta l'operazione europea Triton. Entrambe le operazioni militari però, nonostante l'intento di effettuare più salvataggi, hanno di fatto provocato più partenze e più morti. Per non parlare poi del caso della nave Diciotti a bordo della quale vi erano soprattutto eritrei. Proprio una sentenza della Cassazione uscita lo scorso marzo, ha aperto ai risarcimenti di centinaia e centinaia di migranti. Il principio di fondo al quale si sono ispirate le varie politiche e decisioni in materia di immigrazione, prendendo spunto proprio dagli eritrei in quanto rifugiati per eccellenza, è che i migranti scappano da persecuzioni e violenze e non possono rientrare nel loro Paese. Eppure, se si va un po' oltre la superficie delle narrazioni, si scopre che c'è qualcosa che non torna perché durante l’estate, molti eritrei rientrano a casa in vacanza. Senza alcun tipo di ripercussioni. Com'è possibile che tornino proprio nel paese da dove sono fuggiti raccontando di guerre e persecuzioni? La giornalista Francesca Ronchin li ha seguiti in Eritrea, per capire sul campo come stiano le cose. Realizzata in modo indipendente, l’inchiesta “La Grande Bugia” svela come il tema dell’immigrazione, di cui la questione eritrea è la punta dell’iceberg, negli anni sia stato trattato in modo principalmente ideologico, avallando falsificazioni della realtà con la conseguenza di alimentare criticità nel meccanismo di accoglienza della società ospitante nonché di mettere a repentaglio la vita dei protagonisti, i migranti. Finalmente in onda il 15 luglio seconda serata su Rai3 La Grande Bugia, Eritrea andata e ritorno
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L'Eritrea ha lavorato instancabilmente per portare un riavvicinamento tra i due Paesi, utilizzando anche le sue risorse per stabilizzare e salvare l'Etiopia dalla disintegrazione e dalla guerra civile nel 2022.
L'Eritrea sta attualmente assicurando che prevalga la pace eliminando ogni ostacolo alla pace. Creare consenso con le popolazioni vicine per evitare la guerra non significa guerrafondaia o sovvertire la sovranità dell'Etiopia, ma garantire un futuro di pace per entrambe le nazioni. Uno dei principi Eritreas rimane "non vogliamo ciò che non è nostro e non daremo ciò che è nostro". L'Eritrea rimane all'interno dei suoi confini riconosciuti a livello internazionale e nessuna quantità di etiopi che minaccia o armano dissidenti per le ambizioni di cambiamento di regime cambierà le cose. I leader etiopi stanno cercando una via d'uscita per coprire il loro fallimento nella gestione dell'Etiopia. L’Eritrea non si prenderà la colpa per il fallimento della leadership etiope di portare il paese a prosperità e sviluppo sostenuti. Le relazioni dell'Etiopia con i suoi vicini sono al peggiore di sempre, poiché l'Etiopia minaccia ancora di annettere i propri porti per istituire la sua base navale. In cima alla lista c'è l'Eritrea e il suo porto di Assab. La storia eritrea dimostra che gli eritrei faranno tutto il necessario per garantire la pace, ma non permetteranno alcun avventurismo ed espansionismo etiope nei territori eritrei. L'avventura di guerra che l'Etiopia sta cercando potrebbe portare alla disintegrazione dell'Etiopia fallita che sta evitando attraverso una serie di sogni o una guerra civile che sarebbe devastante. Sulamit credit Ghideon Musa Aron Negli ultimi giorni, il regime etiope ha intensificato le sue campagne diplomatiche, anche inviando lettere al Segretario Generale delle Nazioni Unite e a diversi Capi di Stato e di Governo, per accusare l'Eritrea di "ripetute provocazioni e violazioni dell'integrità sovrana e territoriale dell'Etiopia".
Questo palese stratagemma, volto a ingannare la comunità internazionale e a ottenere così sostegno per il suo programma di guerra in fermento da tempo, è simile al proverbio locale: "la fionda emette un grido acuto mentre colpisce la preda". Il fatto è che il Partito della Prosperità, al governo in Etiopia, si è lasciato andare, negli ultimi due anni, a dichiarazioni non richieste e a provocatorie minacce, per acquisire, per usare le sue stesse parole, i porti eritrei "legalmente se possibile e militarmente se necessario". Il regime è andato oltre le semplici prese di posizione verbali, abbandonandosi a una serie di acquisti di armi e a una miriade di atti sovversivi. Sebbene questi atti provocatori costituiscano gravi minacce alla sovranità e all'integrità territoriale dell'Eritrea, nonché alla stabilità regionale, l'Eritrea ha preferito mostrare la massima moderazione. Nella dichiarazione pubblica rilasciata dal Governo dell'Etiopia il 16 ottobre 2023, in occasione dell'annuncio del programma di guerra da parte del Primo Ministro etiope, l'Eritrea ha espresso il proprio sgomento per la sconvolgente piega presa dagli eventi, sottolineando che "non si lascerà trascinare, come sempre, in simili vicoli e piattaforme, e ha esortato tutti gli interessati a non lasciarsi provocare". Il regime etiope sta oggi distorcendo questi fatti indelebili e la sequenza di eventi per accusare l'Eritrea anche di "violazione della sua sovranità e integrità territoriale". Questa è una menzogna assurda. Come si ricorderà, i regimi etiopi che si sono succeduti hanno continuato a occupare diversi territori sovrani eritrei per quasi due decenni, in flagrante violazione del diritto internazionale, della Carta delle Nazioni Unite e del Lodo EEBC. L'occupazione illegale di territori sovrani eritrei da parte dell'Etiopia è stata tardivamente rettificata, e questa è stata la ragione fondamentale alla base della Dichiarazione Congiunta di Pace e Amicizia tra Eritrea ed Etiopia, firmata ad Asmara il 9 luglio 2018. L'Eritrea rimane strettamente vincolata al Lodo EEBC che l'Etiopia ha accettato dopo due decenni di ingiustificato ritardo. In conclusione, l'inutile tensione deriva e si basa sulle illegittime ambizioni del regime etiope di acquisire le terre sovrane e il territorio marittimo del suo vicino. Ministero dell'Informazione Asmara, Eritrea 26 giugno 2025 Il presidente Guelleh respinge la proposta di una base navale e ribadisce la sovranità nazionale
di Marilena Dolce Gibuti respinge l’Etiopia: “Non siamo la Crimea del Corno d’Africa”Il presidente di Gibuti, Ismail Omar Guelleh, ha respinto con fermezza la proposta dell’Etiopia per l’installazione di una base navale sul territorio gibutiano, dichiarando che il suo Paese non intende diventare “la Crimea del Corno d’Africa”. In una recente intervista a Jeune Afrique, Guelleh, 77 anni, al potere dal 1999, ha precisato di non opporsi all’uso commerciale delle infrastrutture portuali da parte di Addis Abeba, ma ha escluso qualsiasi concessione in esclusiva o presenza militare straniera, tantomeno etiopica. “Gli etiopici ci hanno chiesto un corridoio extraterritoriale e una base navale. Ma non era questo ciò di cui si era parlato”, ha affermato il Presidente, “Avevamo proposto una gestione condivisa del porto di Tadjourah, ma la loro richiesta è inaccettabile”. Crescono le tensioni sull’accesso al Mar Rosso La questione dell’accesso al mare è tornata centrale nella politica estera etiopica. Dal 1991, con l’indipendenza dell’Eritrea, Addis Abeba ha perso ogni sbocco diretto sul mare. Il premier Abiy Ahmed ha più volte sottolineato l’urgenza strategica di ottenere un porto, anche attraverso mezzi “non convenzionali”, suscitando allarme nei Paesi vicini. “Credo che Abiy abbia compreso che non può trattarsi di una prova di forza”, ha aggiunto Guelleh, evidenziando il ruolo costruttivo della mediazione turca. Gibuti, un piccolo Stato con un grande valore strategico Con una popolazione di poco superiore al milione di abitanti, Gibuti controlla un passaggio marittimo vitale: lo stretto di Bab el-Mandeb, porta del Mar Rosso e via obbligata per i traffici tra Europa, Asia e Africa Orientale. Proprio per la sua posizione strategica, il Paese ospita basi militari statunitensi, francesi, cinesi, giapponesi e italiane, un “ombrello geopolitico” che dissuade ambizioni regionali troppo aggressive. Durante l’intervista, Guelleh non ha escluso la possibilità di una propria ricandidatura alle elezioni del 2026, rivendicando il ruolo di garante della sovranità e stabilità nazionale. Il nodo Somaliland e la strategia di Addis Abeba Le tensioni sull’accesso al mare si sono acuite nel gennaio 2024, quando l’Etiopia ha firmato un controverso memorandum con il Somaliland, regione separatista della Somalia. L’accordo prevedeva il transito delle merci etiopiche attraverso il porto di Berbera in cambio del riconoscimento dell’indipendenza del Somaliland, con la concessione di un tratto costiero di dieci chilometri per la costruzione di una base navale. Il patto, sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti e dalla loro compagnia DP World, puntava a ridurre la dipendenza di Addis Abeba dai porti di Gibuti, che oggi fruttano circa due miliardi di dollari annui alla piccola repubblica africana. Tuttavia l’intesa ha scatenato la dura reazione della Somalia, che l’ha definita “un attacco alla propria sovranità”, trovando il sostegno dell’Egitto. La Turchia, pur contraria all’accordo etiopico, ha mediato un’intesa con Mogadiscio per fermare l’espansione navale etiopica. Una lunga storia di attriti e ambizioni La tensione sull’accesso al mare accompagna da decenni la storia dell’Etiopia. Dopo l’indipendenza dell’Eritrea, Addis Abeba ha potuto utilizzare i porti eritrei solo per periodi limitati. L’accordo di pace del 2018, tra Abiy Ahmed e il presidente eritreo Isaias Afwerki, non ha previsto concessioni militari. L’Eritrea ha acconsentito all’uso commerciale delle sue infrastrutture portuali, respingendo ogni ipotesi di base navale etiopica. Nonostante ciò, nel 2019, l’Etiopia ha avviato la costituzione di una propria marina militare, un progetto privo di uno sbocco naturale al mare ma ricco di implicazioni strategiche. Molti analisti osservano che il controllo di un porto militare è parte integrante della visione geopolitica del Prosperity Party di Abiy Ahmed, volto a trasformare l’Etiopia in una potenza dominante nella regione. Il progetto imperiale e il sogno Oromo Secondo varie fonti, il disegno politico del premier etiopico mirerebbe alla creazione di un "Impero Oromo" con accesso al Mar Rosso. La necessità di un porto rappresenterebbe un tassello cruciale per consolidare tale visione, che prevederebbe il dominio della regione da parte del gruppo etnico oromo. Dopo aver perso il sostegno degli Amhara e finita l’alleanza tattica con l’Eritrea contro il TPLF (Tigray People's Liberation Front), Abiy ha accentuato il processo di “oromizzazione” delle istituzioni, marginalizzando le altre etnie e inasprendo, in questo modo, i conflitti interni. Nel frattempo, il sogno etiopico di un porto militare resta al centro dei piani del governo ma i Paesi vicini, Gibuti, Eritrea e Somalia, sono fortemente determinati a non cedere nemmeno un centimetro del proprio territorio. homas C. Mountain 10 giu 2025 Nell'Etiopia odierna, governata da un gangster sostenuto dagli Stati Uniti di nome Abiy Ahmed, le cose stanno andando a pezzi. Tanto per cominciare, il 75% del paese è fuori dal controllo del governo a causa delle insurrezioni che imperversano. Il "Primo Ministro" Abiy è, in realtà, solo il Sindaco della capitale Addis Abeba, con eserciti ribelli che circondano la città a soli 30 miglia dalla periferia. Da un lato di Addis Abeba ci sono i combattenti di etnia Amhara FANO (Patrioti). Dall'altro lato di Addis Abeba ci sono i ribelli Oromo. Dato che questi due gruppi etnici, nazioni a tutti gli effetti, sono i due più grandi in Etiopia, si può avere un'idea di quanto sia disperata la situazione in cui si trova il regime gangster di Abiy Ahmed. L'inflazione è alle stelle, con le tariffe dell'elettricità che sono appena raddoppiate, mentre la carenza di cibo, i prezzi incontrollati e la corruzione la fanno da padrone. Non è un buon momento per ammalarsi gravemente in Etiopia perché tutti i medici sono entrati in sciopero chiedendo stipendi sufficienti per sopravvivere. 165 dei migliori medici del paese sono stati arrestati, e decine dei massimi dirigenti della professione medica sono dovuti fuggire dalla città, un passo avanti alla polizia segreta, molti rifugiandosi nella vicina Eritrea. Anche tutti gli insegnanti sono entrati in sciopero, chiedendo stipendi che alcuni di loro non hanno mai ricevuto, mai. Esatto, i gangster che gestiscono ciò che resta del governo etiope hanno smesso di pagare gli insegnanti parecchio tempo fa, e i nuovi assunti non sono mai stati pagati. Debitore di miliardi di dollari e con scarsi guadagni in valuta estera (il caffè è il principale generatore di reddito), il regime gangster di Abiy non può pagare i suoi conti, un fatto fin troppo tipico dell'Etiopia nei decenni successivi al 1991. I banchieri occidentali del FMI hanno appena promesso un altro "prestito di emergenza" di 260 milioni di dollari, che si aggiunge ai molti miliardi già dovuti. I banchieri occidentali stanno parlando della necessità di tenere un'altra conferenza sulla "riduzione del debito per l'Africa", sapendo fin troppo bene quanto sia impossibile per quei paesi africani ancora in stato di schiavitù del debito effettuare anche i pagamenti degli interessi. Come in passato, la "riduzione del debito" dell'Etiopia è in cima alla lista del condono, salvando, ancora una volta, il loro gangster di turno. Questi succhiasangue finanziari hanno preso in prestito dalle loro banche centrali per quasi 20 anni a poco più dello 0% di interesse, realizzando decine di miliardi di "prestiti ad alto rischio" all'Etiopia a tassi di interesse del 7-8%, quindi è difficile provare dispiacere per loro se devono stralciare qualche miliardo di dollari dopo aver dedotto le loro "perdite" dalla loro fattura fiscale. L'unica cosa che tiene a galla il regime di Abiy, in grado di continuare a respingere l'esercito ribelle crescente che lo circonda, è la generosità militare degli Emirati Arabi Uniti, la cui fornitura di droni e bombardieri cinesi lascia una scia di morte e distruzione. Ma anche questi, usati principalmente contro i civili, non sono stati in grado di arginare l'ondata di ribellione e il cerchio attorno ad Addis Abeba continua a stringersi. Si potrebbe essere scusati per essere un po' scettici su ciò che scrivo, perché quasi nulla di tutto ciò sta arrivando nei principali media occidentali o internazionali. Ehi, è il Corno d'Africa, giusto, delle cui storie di carestie, piaghe e spargimenti di sangue il mondo si è stancato. Anche i cosiddetti media "alternativi" hanno coperto poco il modo in cui le cose stanno andando a pezzi in Etiopia. Quindi non sorprendetevi quando, non se, il regime gangster sostenuto dall'Occidente di Abiy Ahmed in Etiopia crollerà. Potrebbe essere molto prima di quanto la maggior parte di noi si aspetti. Ciò che verrà dopo assomiglia sempre più all'originale Impero Abissino, ribattezzato "Etiopia" a metà del XX secolo, che si farà a pezzi in nuove nazioni africane con nomi come Oromia, Amhara, Tigray, Afar e molti altri. Stiamo parlando di 120 milioni di persone nell'attuale impero etiope, con gli Oromo, forti di oltre 50 milioni, la più grande nazione dell'Africa e la seconda lingua più parlata, che saranno una parte importante di questi cambiamenti. In prima linea in questa rivoluzione contro il più grande impero indigeno dell'Africa ci sono gli Amhara e il loro esercito di "FANO/Patrioti", che hanno recentemente combinato le loro milizie regionali e la loro leadership politica in un'unica forza unificata. Il nazionalismo amhara è diventato così forte che l'esercito etiope ha smesso di addestrare unità amhara perché una volta completato l'addestramento militare disertano in massa con le loro armi, scivolando via per unirsi alle crescenti forze armate FANO. L'unica luce in questa oscurità è il ruolo che quella che ho chiamato "l'oasi dell'Africa", l'Eritrea, ha e svolgerà nell'aiutare a consigliare e mediare i pericoli futuri. Come dice il proverbio "Tutte le strade per la pace nel Corno d'Africa passano per Asmara, Eritrea", ancora una volta. L'Eritrea farà il suo dovere nei confronti dei suoi concittadini del Corno d'Africa e continuerà ad assumersi le sue responsabilità per stabilire una pace basata sul rispetto reciproco e sulla cooperazione tra le persone in questa parte del mondo finora martoriata. Una cosa che l'Occidente non vuole è un Corno d'Africa forte, unito e indipendente, una parte del mondo strategicamente critica. Quindi non sorprendetevi quando l'Eritrea inizierà a portare ordine in tutto questo caos, i banchieri occidentali e i loro lacchè nei media inizieranno a inveire e delirare, sputando ancora una volta vili menzogne e calunnie sull'Eritrea e cercando di assicurarsi che nessuna buona azione in Africa resti impunita. Thomas C. Mountain è un educatore e storico che ha vissuto e lavorato come cronista dall'Eritrea dal 2006 al 2021. Un tempo era il giornalista indipendente più diffuso in Africa. Potete trovare thomascmountain su X e Facebook. Il modo migliore per contattarlo è su [email protected] Asmara, 9 giugno 2025
Un gruppo di 85 studiosi e professionisti #Oromo ha pubblicato una "Lettera aperta al Presidente Isaias Afwerki" il 5 giugno 2025. La "Lettera" è purtroppo piena di inesattezze e contiene una serie di accuse gravi e infondate contro l'Eritrea. Questo non può che suscitare il nostro sgomento, soprattutto perché gli autori avrebbero potuto scegliere un approccio più appropriato, quello del confronto diretto, se il vero motivo fosse, come dovrebbe essere, quello di dissipare persistenti incomprensioni o punti di vista su questioni di fondamentale importanza per l'Eritrea e il popolo Oromo. In questo spirito, l'Eritrea ritiene che il modo più costruttivo per affrontare queste questioni rimanga un dialogo franco e diretto tra i firmatari della Lettera o i loro rappresentanti e le controparti eritree interessate. Nel frattempo, e per dovere di cronaca, desideriamo ribadire le opinioni e le posizioni consolidate dell'Eritrea: 1. L'Eritrea nutre il massimo rispetto per il popolo Oromo e la sua cultura. 2. La risoluta solidarietà e il forte sostegno dell'Eritrea al popolo etiope, e in particolare alla lotta del popolo Oromo per la difesa dei propri diritti fondamentali, durano da oltre mezzo secolo. 3. A questo proposito, il riferimento all'Oromumma politica nel discorso del Presidente Isaias non sminuisce il suo rispetto di principio per il popolo Oromo e allude a irritanti interpretazioni e sfumature ideologiche emerse negli ultimi due anni da ambienti certi e non rappresentativi. 4. L'Eritrea è fermamente impegnata per la pace e la giustizia nel Corno d'Africa. Non è un segreto che il tamburellare e l'impulso alla guerra non provengano dall'Eritrea, ma da coloro che si battono apertamente per la conquista di territori sovrani eritrei. credit Ghideon Musa Aron Tra Parigi, Roma e Vaticano, il premier etiopico cerca sostegno politico e finanziario in vista di una possibile nuova guerra contro l’Eritreadi Marilena Dolce
In patria, la crisi economica e la repressione alimentano l’opposizione al governoIl 22 maggio scorso il presidente francese Emmanuel Macron ha ricevuto a Parigi il premier etiopico Abiy Ahmed. Una visita quasi improvvisa, successiva a quella del 21 dicembre 2024 ad Addis Abeba, con l’obiettivo dichiarato di rinsaldare i rapporti bilaterali, fondati su un’amicizia strategica. Le conversazioni tra Abiy e Macron sono state “costruttive”, scrive il premier etiopico sui social. Macron, dal canto suo, afferma su X che la Francia vede nell’Etiopia un futuro “prospero e pacifico”. La Francia, tuttavia, non è stata l’unica tappa europea del tour di maggio. Qualche giorno dopo il primo ministro è volato a Roma, per incontrare la premier Giorgia Meloni e Papa Leone XIV. Ha invece rinunciato alla tappa inglese. A Londra, infatti, la diaspora etiopica era scesa in piazza, contro una sua possibile visita, denunciando le stragi in atto nella regione Amhara e gli arresti ad Addis Abeba di parlamentari e oppositori. Ufficialmente lo scopo del viaggio europeo era quello di attrarre nuovi investimenti in Etiopia. In realtà Abiy punta ad assicurarsi il sostegno politico dell’Unione Europea. La Francia potrebbe convincere il partner tedesco, mentre la premier Meloni, potrebbe mediare con i governi europei più conservatori. I media italiani, che secondo dati recenti dedicano uno scarso 14% dello spazio informativo all’Africa Orientale, hanno ignorato l’arrivo del premier etiopico, eccezion fatta per le agenzie di stampa. Diversamente, Augustine Passilly, corrispondente francese da Addis Abeba, ha pubblicato su Le Point un’analisi del viaggio, riportando anche fonti utili a comprenderne gli scopi più profondi, oltre a quelli apparenti. “L’elemento principale di questo tour”, dice Mahdì Labzaè, ricercatore del CNRS, Centre national de la recherche scientifique, ed esperto di Africa, “era sondare la reazione dei paesi alleati in caso di una nuova guerra contro l’Eritrea. Inoltre, il regime, sull’orlo della bancarotta, è alla disperata ricerca di finanziamenti”. La crisi economica è profonda. I 265 milioni di dollari, che il Fondo Monetario Internazionale dovrebbe dare all’Etiopia a fine giugno, non basteranno a risollevare un paese dove, secondo un recente rapporto interno, il 26% dei 130 milioni di abitanti, vive in condizioni di povertà estrema. In un momento in cui l’economia crolla e il consenso interno è azzerato, Abiy sembra voler spostare l’attenzione su un obiettivo esterno: l’Eritrea. Dopo il colonialismo italiano, terminati gli anni di federazione e annessione all’Etiopia, nel 1991 l’Eritrea conquista l’indipendenza. Dal 1998 al 2000 è però ancora guerra tra i due paesi e i successivi accordi di Algeri non porteranno una vera pace, piuttosto una “non guerra”. Sarà solo con l’arrivo del premier Abiy nel 2018 che riprenderà il dialogo, entrato nuovamente in crisi dopo l’Accordo di Pretoria tra governo etiopico e Tigray. Ora il premier Abiy chiede all’Eritrea di stabilire ad Assab un porto commerciale e, soprattutto, una base navale. Definendo “errore storico” la perdita di tale porto dopo l’indipendenza eritrea. In realtà l’Eritrea non ha mai negato l’accesso ai porti di Massawa e Assab per attività commerciali. Quanto all’appartenenza storica, i porti non sono mai stati etiopici, se non durante gli anni di federazione, annessione e occupazione militare. L’Eritrea indipendente ha riconquistato il territorio, delimitato dai confini ex coloniali che comprendevano i porti. L’idea che un grande Paese debba avere un accesso al mare potrebbe però trovare orecchie attente in Europa, anche se finora nessun leader europeo ha sostenuto apertamente tale posizione. Tuttavia, dalle tappe del viaggio di Abiy traspare la volontà di ottenere appoggio nel caso di guerra contro l’Eritrea. A rassicurare il premier Abiy sembrano essere stati i toni amichevoli della Francia. Macron non gli ha fatto mancare sorrisi e strette di mano, nonostante le accuse di gravi violazioni dei diritti umani nelle regioni Amhara e Oromo. Un’altra leva su cui Abiy cerca di far presa è il suo impegno a rispettare l’Accordo di Pretoria (2022), firmato dopo due anni di guerra tra il governo etiopico (sostenuto anche dall’Eritrea) e il TPLF. Oggi però il Fronte di Liberazione del Popolo del Tigray è diviso e l’ala, guidata da Debretsion Gebremichael, si è avvicinata all’Eritrea, temendo proprio la possibilità di una nuova guerra scatenata da Abiy. Oltre alla via diplomatica Abiy cerca anche il sostegno militare dalla Turchia, che già ha fornito droni impiegati nei bombardamenti nella regione Amhara e dagli Emirati Arabi Uniti, che potrebbero supportarlo in caso di guerra contro l’Eritrea. Secondo fonti interne negli ultimi mesi truppe etiopiche si sarebbero ammassate lungo il confine eritreo. Di Europa parla anche Desta Tilahum, segretaria generale del Partito Rivoluzionario del Popolo Etiopico che dice: “Abbiamo bisogno di relazioni diplomatiche con l’Unione Europea, ma devono andare a beneficio della gente, non di un solo leader. I politici europei devono sapere che in Etiopia si muore ogni giorno di fame, conflitti interni, inflazione. I bambini non vanno a scuola, i giovani sono costretti a combattere. Mai visto un tale caos. Se l’Etiopia collassa il mondo ne subirà le conseguenze”. L’opposizione, spesso silenziata o repressa, teme che il viaggio in Europa di Abiy sia servito a raccogliere nuovi fondi, non per alleviare la crisi, ma per completare progetti di lusso e rafforzare il potere del governo. A Roma il premier ha incontrato anche Pietro Salini, Ceo di Webuild, impresa di costruzioni, che dovrebbe completare la Grande Diga del Rinascimento, Gerd, ma che aveva lamentato ritardi nei pagamenti. Intanto, a metà maggio, in Etiopia è scoppiato un massiccio sciopero del personale sanitario, per protestare contro le pessime condizioni lavorative e i bassi salari. Scioperi seguiti dalla repressione, con centinaia di arresti, come riportato da Amnesty International. Il tour di Abiy si è concluso in Vaticano, con l’incontro con Papa Leone XIV. Sui social il premier ha ringraziato per la “calorosa accoglienza” e per il comune impegno per la pace globale. Un messaggio che suona ambivalente, alla vigilia di un possibile nuovo conflitto con l’Eritrea, temuto da molti. In sole 72 ore sono avvenute in Sudan delle novità di portata epocale, che lasciano ben sperare per una rapida e chiara risoluzione del doloroso conflitto civile in corso dal 2023.
Di Filippo Bovo 3 Giugno 2025 In Sudan, non appena assunto tre giorni fa il ruolo di primo ministro, Kamil Idris ha smantellato il vecchio governo, ormai un’antistorica eredità della fallita transizione inaugurata nel 2019 ed andata definitivamente in frantumi nel 2023, quando scoppiò la guerra civile con le RSF di Dagalo Hemedti (Forze di Supporto Rapido, nate dai vecchi Janjaweed dell’epoca di al-Bashir, che tristemente si fecero conoscere durante il conflitto del Darfur) che vi uscirono, ribellandosi al Consiglio Sovrano di Transizione guidato dal Generale Fattah al-Burhan; ed ha avviato una transizione del tutto nuova, che include militari e civili ma al cui interno, come già si poteva facilmente intuire, non vi sarà mai più posto alcuno per le RSF. Le milizie di Hemedti, in Sudan, hanno infatti talmente oltrepassato oltre ogni limite legale, umano e sociale da non poter più sperare in un ruolo, sia pur da perdenti, nella realtà politica e governativa nazionale. Il popolo sudanese non le vuole più. Comprendendo la portata storica del loro vasto fallimento, i primi due promotori economici e militari delle RSF, gli Emirati Arabi Uniti e l’Etiopia, hanno così tentato un nuovo approccio con le autorità sudanesi, a cominciare dal Generale al-Burhan; ma questi ha frettolosamente respinto le loro profferte, come del resto già aveva fatto con gli Stati Uniti ed Israele. Addirittura i delegati etiopici, recatisi a Port Sudan per incontrarlo, si sono visti rifiutare proprio l’udienza: giusto per la cronaca, erano il direttore dell’intelligence etiopico, Redwan Hussein, e l’ex presidente dello stato del Tigray, Getachew Reda, a capo anche della fazione G del TPLF di recente sconfitta ed estromessa da quella D, guidata da Debretsion Gebremichael, con gran dolore del primo ministro etiopico Abiy Ahmed. Questi infatti s’è così trovato a sua volta estromesso dall’importante stato settentrionale del Tigray, al confine con l’Eritrea e proprio per tale ragione essenziale nei suoi piani per una maggior militarizzazione tanto contro Asmara quanto contro Khartum; mentre la montante guerra civile nella stessa Etiopia, non soltanto nell’Amhara, sempre più gli sfugge di mano. E’ notizia delle ultime ore quella delle dimissioni di sei massimi generali dell’Esercito etiopico, in segno di ribellione ad Abiy Ahmed e alla sua repressione dell’insurrezione degli Amhara, giudicata “genocidiaria”. Il fatto che i sei dimissionari proprio a quella etnia appartengano, come altri già dimessisi o passati ai FANO, milizia auto-organizzata alla guida della rivolta, sottolinea sempre più le spaccature emergenti nel paese: in sostanza, la guerra e la destabilizzazione alimentata dal suo governo nelle regioni e nei paesi confinanti sta lentamente, ma massicciamente, ritorcendosi proprio contro Addis Abeba. Nel mentre, lo sconfitto Hemedti, a capo delle RSF, è apparso con un suo nuovo video in cui per la sua sconfitta ha nuovamente accusato l’Eritrea, “colpevole” d’aver fornito all’Esercito sudanese aiuti ed addestramenti a partire dal conflitto, ed ancor più negli ultimi mesi, rivelatisi essenziali per fargli riguadagnare terreno, di fatto scompaginando tutti i piani etiopico-emiratini e, più a monte, israelo-statunitensi. Non è la prima volta che lo fa, e nemmeno passa inosservato che nelle sue invettive se la prenda sempre col governo eritreo che, evidentemente, nel complesso conflitto civile sudanese è riuscito a metter le mani con più abilità ed efficacia degli altri alleati di al-Burhan, dall’Egitto alla Russia, dall’Arabia Saudita all’Iran fino alla Turchia, di là dal fatto che il loro aiuto sia sempre stato in ogni caso indiscutibilmente prezioso. Dopotutto, senza i loro equipaggiamenti militari, molti successi per l’Esercito sudanese, fortemente sostenuto dal grosso della popolazione, non sarebbero stati possibili. E’ curioso notare come tutti questi avvenimenti che raccontiamo siano occorsi nelle ultime 72 ore: dal lavoro di Kamil Hadris, che getta le basi di una nuova stagione politica in Sudan, alla visita a vuoto di Hussein e Reda, fino al video livoroso di Hemedti e alle dimissioni dei sei alti gradi militari etiopici. Se ne trae la sensazione di un precipitare d’eventi, in un senso complessivamente positivo, che sblocca dei meccanismi politici e militari già da molto tempo in attesa di scattare, e finora forzosamente frenati. Un altro merito dell’Eritrea, dal punto di vista umanitario, è stata anche l’accoglienza riservata a molti civili sudanesi fuggiti dal conflitto, fin dal 2023: il paese ha dato a queste persone, caso unico nella regione, la possibilità d’alloggiare in vere case con alimenti forniti dallo Stato oltre che dalla popolazione, profondamente legata ai sudanesi per ragioni storiche. Il Generale al-Burhan, nella sua ultima e recente visita in Eritrea, ha ringraziato profondamente il suo Presidente Isaias Afewerki per questo importante gesto di fratellanza. Tutti questi elementi dovrebbero farci riflettere di più sull’importanza degli attori locali nei conflitti civili come quello sudanese. In quelle poche volte che il dramma della guerra civile in Sudan trova attenzione nelle analisi di molti africanisti, infatti, vengono sempre nominati i grandi alleati extraregionali di Hemedti o di al-Burhan, ma mai di quelli locali, come l’Etiopia per il primo e l’Eritrea per il secondo; e, a dir la verità, anche degli Emirati o dell’Egitto non è che si vociferi più di tanto. Nel frattempo, Hemedti ha lasciato il Sudan con un volo che, dopo aver fatto scalo in Repubblica Centrafricana, è infine giunto in Etiopia. Ha lasciato dietro di sé un paese da ricostruire e profondamente ferito dai suoi uomini; ma certamente il Sudan di domani, senza di lui e senza di loro, potrà riprendersi con molta più più forza e facilità. |
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Luglio 2025
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