ERITREA ETIOPIA
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ERITREA ETIOPIA

20 giugno Giornata dei Martiri Eritrei

22/6/2025

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Festival dell'Eritrea 2025 a Milano

18/6/2025

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Etiopia: le cose vanno a pezzi

10/6/2025

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homas C. Mountain


10 giu 2025

Nell'Etiopia odierna, governata da un gangster sostenuto dagli Stati Uniti di nome Abiy Ahmed, le cose stanno andando a pezzi. Tanto per cominciare, il 75% del paese è fuori dal controllo del governo a causa delle insurrezioni che imperversano. Il "Primo Ministro" Abiy è, in realtà, solo il Sindaco della capitale Addis Abeba, con eserciti ribelli che circondano la città a soli 30 miglia dalla periferia.

Da un lato di Addis Abeba ci sono i combattenti di etnia Amhara FANO (Patrioti). Dall'altro lato di Addis Abeba ci sono i ribelli Oromo. Dato che questi due gruppi etnici, nazioni a tutti gli effetti, sono i due più grandi in Etiopia, si può avere un'idea di quanto sia disperata la situazione in cui si trova il regime gangster di Abiy Ahmed.

L'inflazione è alle stelle, con le tariffe dell'elettricità che sono appena raddoppiate, mentre la carenza di cibo, i prezzi incontrollati e la corruzione la fanno da padrone.

Non è un buon momento per ammalarsi gravemente in Etiopia perché tutti i medici sono entrati in sciopero chiedendo stipendi sufficienti per sopravvivere. 165 dei migliori medici del paese sono stati arrestati, e decine dei massimi dirigenti della professione medica sono dovuti fuggire dalla città, un passo avanti alla polizia segreta, molti rifugiandosi nella vicina Eritrea.

Anche tutti gli insegnanti sono entrati in sciopero, chiedendo stipendi che alcuni di loro non hanno mai ricevuto, mai. Esatto, i gangster che gestiscono ciò che resta del governo etiope hanno smesso di pagare gli insegnanti parecchio tempo fa, e i nuovi assunti non sono mai stati pagati.

Debitore di miliardi di dollari e con scarsi guadagni in valuta estera (il caffè è il principale generatore di reddito), il regime gangster di Abiy non può pagare i suoi conti, un fatto fin troppo tipico dell'Etiopia nei decenni successivi al 1991. I banchieri occidentali del FMI hanno appena promesso un altro "prestito di emergenza" di 260 milioni di dollari, che si aggiunge ai molti miliardi già dovuti.

I banchieri occidentali stanno parlando della necessità di tenere un'altra conferenza sulla "riduzione del debito per l'Africa", sapendo fin troppo bene quanto sia impossibile per quei paesi africani ancora in stato di schiavitù del debito effettuare anche i pagamenti degli interessi. Come in passato, la "riduzione del debito" dell'Etiopia è in cima alla lista del condono, salvando, ancora una volta, il loro gangster di turno.

Questi succhiasangue finanziari hanno preso in prestito dalle loro banche centrali per quasi 20 anni a poco più dello 0% di interesse, realizzando decine di miliardi di "prestiti ad alto rischio" all'Etiopia a tassi di interesse del 7-8%, quindi è difficile provare dispiacere per loro se devono stralciare qualche miliardo di dollari dopo aver dedotto le loro "perdite" dalla loro fattura fiscale.

L'unica cosa che tiene a galla il regime di Abiy, in grado di continuare a respingere l'esercito ribelle crescente che lo circonda, è la generosità militare degli Emirati Arabi Uniti, la cui fornitura di droni e bombardieri cinesi lascia una scia di morte e distruzione. Ma anche questi, usati principalmente contro i civili, non sono stati in grado di arginare l'ondata di ribellione e il cerchio attorno ad Addis Abeba continua a stringersi.

Si potrebbe essere scusati per essere un po' scettici su ciò che scrivo, perché quasi nulla di tutto ciò sta arrivando nei principali media occidentali o internazionali. Ehi, è il Corno d'Africa, giusto, delle cui storie di carestie, piaghe e spargimenti di sangue il mondo si è stancato. Anche i cosiddetti media "alternativi" hanno coperto poco il modo in cui le cose stanno andando a pezzi in Etiopia.

Quindi non sorprendetevi quando, non se, il regime gangster sostenuto dall'Occidente di Abiy Ahmed in Etiopia crollerà. Potrebbe essere molto prima di quanto la maggior parte di noi si aspetti.

Ciò che verrà dopo assomiglia sempre più all'originale Impero Abissino, ribattezzato "Etiopia" a metà del XX secolo, che si farà a pezzi in nuove nazioni africane con nomi come Oromia, Amhara, Tigray, Afar e molti altri. Stiamo parlando di 120 milioni di persone nell'attuale impero etiope, con gli Oromo, forti di oltre 50 milioni, la più grande nazione dell'Africa e la seconda lingua più parlata, che saranno una parte importante di questi cambiamenti.

In prima linea in questa rivoluzione contro il più grande impero indigeno dell'Africa ci sono gli Amhara e il loro esercito di "FANO/Patrioti", che hanno recentemente combinato le loro milizie regionali e la loro leadership politica in un'unica forza unificata. Il nazionalismo amhara è diventato così forte che l'esercito etiope ha smesso di addestrare unità amhara perché una volta completato l'addestramento militare disertano in massa con le loro armi, scivolando via per unirsi alle crescenti forze armate FANO.
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L'unica luce in questa oscurità è il ruolo che quella che ho chiamato "l'oasi dell'Africa", l'Eritrea, ha e svolgerà nell'aiutare a consigliare e mediare i pericoli futuri. Come dice il proverbio "Tutte le strade per la pace nel Corno d'Africa passano per Asmara, Eritrea", ancora una volta. L'Eritrea farà il suo dovere nei confronti dei suoi concittadini del Corno d'Africa e continuerà ad assumersi le sue responsabilità per stabilire una pace basata sul rispetto reciproco e sulla cooperazione tra le persone in questa parte del mondo finora martoriata.

​Una cosa che l'Occidente non vuole è un Corno d'Africa forte, unito e indipendente, una parte del mondo strategicamente critica. Quindi non sorprendetevi quando l'Eritrea inizierà a portare ordine in tutto questo caos, i banchieri occidentali e i loro lacchè nei media inizieranno a inveire e delirare, sputando ancora una volta vili menzogne e calunnie sull'Eritrea e cercando di assicurarsi che nessuna buona azione in Africa resti impunita.
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Thomas C. Mountain è un educatore e storico che ha vissuto e lavorato come cronista dall'Eritrea dal 2006 al 2021. Un tempo era il giornalista indipendente più diffuso in Africa. Potete trovare thomascmountain su X e Facebook. Il modo migliore per contattarlo è su [email protected]

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Ministero dell'Informazione dell'Eritrea — Brevi osservazioni sulla "Lettera aperta al Presidente Isaias Afwerki"

9/6/2025

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Asmara, 9 giugno 2025

Un gruppo di 85 studiosi e professionisti #Oromo ha pubblicato una "Lettera aperta al Presidente Isaias Afwerki" il 5 giugno 2025.

La "Lettera" è purtroppo piena di inesattezze e contiene una serie di accuse gravi e infondate contro l'Eritrea.
Questo non può che suscitare il nostro sgomento, soprattutto perché gli autori avrebbero potuto scegliere un approccio più appropriato, quello del confronto diretto, se il vero motivo fosse, come dovrebbe essere, quello di dissipare persistenti incomprensioni o punti di vista su questioni di fondamentale importanza per l'Eritrea e il popolo Oromo.

In questo spirito, l'Eritrea ritiene che il modo più costruttivo per affrontare queste questioni rimanga un dialogo franco e diretto tra i firmatari della Lettera o i loro rappresentanti e le controparti eritree interessate.
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Nel frattempo, e per dovere di cronaca, desideriamo ribadire le opinioni e le posizioni consolidate dell'Eritrea:

1. L'Eritrea nutre il massimo rispetto per il popolo Oromo e la sua cultura.

2. La risoluta solidarietà e il forte sostegno dell'Eritrea al popolo etiope, e in particolare alla lotta del popolo Oromo per la difesa dei propri diritti fondamentali, durano da oltre mezzo secolo.

3. A questo proposito, il riferimento all'Oromumma politica nel discorso del Presidente Isaias non sminuisce il suo rispetto di principio per il popolo Oromo e allude a irritanti interpretazioni e sfumature ideologiche emerse negli ultimi due anni da ambienti certi e non rappresentativi.

4. L'Eritrea è fermamente impegnata per la pace e la giustizia nel Corno d'Africa. Non è un segreto che il tamburellare e l'impulso alla guerra non provengano dall'Eritrea, ma da coloro che si battono apertamente per la conquista di territori sovrani eritrei.


credit ​Ghideon Musa Aron
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Il tour europeo di Abiy Ahmed: diplomazia e ombre di guerra

9/6/2025

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Tra Parigi, Roma e Vaticano, il premier etiopico cerca sostegno politico e finanziario in vista di una possibile nuova guerra contro l’Eritreadi Marilena Dolce

In patria, la crisi economica e la repressione alimentano l’opposizione al governoIl 22 maggio scorso il presidente francese Emmanuel Macron ha ricevuto a Parigi il premier etiopico Abiy Ahmed. Una visita quasi improvvisa, successiva a quella del 21 dicembre 2024 ad Addis Abeba, con l’obiettivo dichiarato di rinsaldare i rapporti bilaterali, fondati su un’amicizia strategica. Le conversazioni tra Abiy e Macron sono state “costruttive”, scrive il premier etiopico sui social. Macron, dal canto suo, afferma su X che la Francia vede nell’Etiopia un futuro “prospero e pacifico”. 

La Francia, tuttavia, non è stata l’unica tappa europea del tour di maggio. 
Qualche giorno dopo il primo ministro è volato a Roma, per incontrare la premier Giorgia Meloni e Papa Leone XIV. Ha invece rinunciato alla tappa inglese. A Londra, infatti, la diaspora etiopica era scesa in piazza, contro una sua possibile visita, denunciando le stragi in atto nella regione Amhara e gli arresti ad Addis Abeba di parlamentari e oppositori. 

Ufficialmente lo scopo del viaggio europeo era quello di attrarre nuovi investimenti in Etiopia. In realtà Abiy punta ad assicurarsi il sostegno politico dell’Unione Europea. La Francia potrebbe convincere il partner tedesco, mentre la premier Meloni, potrebbe mediare con i governi europei più conservatori. 
I media italiani, che secondo dati recenti dedicano uno scarso 14% dello spazio informativo all’Africa Orientale, hanno ignorato l’arrivo del premier etiopico, eccezion fatta per le agenzie di stampa. Diversamente, Augustine Passilly, corrispondente francese da Addis Abeba, ha pubblicato su Le Point un’analisi del viaggio, riportando anche fonti utili a comprenderne gli scopi più profondi, oltre a quelli apparenti. 

“L’elemento principale di questo tour”, dice Mahdì Labzaè, ricercatore del CNRS, Centre national de la recherche scientifique, ed esperto di Africa, “era sondare la reazione dei paesi alleati in caso di una nuova guerra contro l’Eritrea. Inoltre, il regime, sull’orlo della bancarotta, è alla disperata ricerca di finanziamenti”. 
La crisi economica è profonda. I 265 milioni di dollari, che il Fondo Monetario Internazionale dovrebbe dare all’Etiopia a fine giugno, non basteranno a risollevare un paese dove, secondo un recente rapporto interno, il 26% dei 130 milioni di abitanti, vive in condizioni di povertà estrema. In un momento in cui l’economia crolla e il consenso interno è azzerato, Abiy sembra voler spostare l’attenzione su un obiettivo esterno: l’Eritrea. 

Dopo il colonialismo italiano, terminati gli anni di federazione e annessione all’Etiopia, nel 1991 l’Eritrea conquista l’indipendenza. Dal 1998 al 2000 è però ancora guerra tra i due paesi e i successivi accordi di Algeri non porteranno una vera pace, piuttosto una “non guerra”. Sarà solo con l’arrivo del premier Abiy nel 2018 che riprenderà il dialogo, entrato nuovamente in crisi dopo l’Accordo di Pretoria tra governo etiopico e Tigray. 
Ora il premier Abiy chiede all’Eritrea di stabilire ad Assab un porto commerciale e, soprattutto, una base navale. Definendo “errore storico” la perdita di tale porto dopo l’indipendenza eritrea.

In realtà l’Eritrea non ha mai negato l’accesso ai porti di Massawa e Assab per attività commerciali. Quanto all’appartenenza storica, i porti non sono mai stati etiopici, se non durante gli anni di federazione, annessione e occupazione militare. L’Eritrea indipendente ha riconquistato il territorio, delimitato dai confini ex coloniali che comprendevano i porti. 

L’idea che un grande Paese debba avere un accesso al mare potrebbe però trovare orecchie attente in Europa, anche se finora nessun leader europeo ha sostenuto apertamente tale posizione. Tuttavia, dalle tappe del viaggio di Abiy traspare la volontà di ottenere appoggio nel caso di guerra contro l’Eritrea. A rassicurare il premier Abiy sembrano essere stati i toni amichevoli della Francia. Macron non gli ha fatto mancare sorrisi e strette di mano, nonostante le accuse di gravi violazioni dei diritti umani nelle regioni Amhara e Oromo. 

Un’altra leva su cui Abiy cerca di far presa è il suo impegno a rispettare l’Accordo di Pretoria (2022), firmato dopo due anni di guerra tra il governo etiopico (sostenuto anche dall’Eritrea) e il TPLF. Oggi però il Fronte di Liberazione del Popolo del Tigray è diviso e l’ala, guidata da Debretsion Gebremichael, si è avvicinata all’Eritrea, temendo proprio la possibilità di una nuova guerra scatenata da Abiy. 

Oltre alla via diplomatica Abiy cerca anche il sostegno militare dalla Turchia, che già ha fornito droni impiegati nei bombardamenti nella regione Amhara e dagli Emirati Arabi Uniti, che potrebbero supportarlo in caso di guerra contro l’Eritrea. Secondo fonti interne negli ultimi mesi truppe etiopiche si sarebbero ammassate lungo il confine eritreo. 
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Di Europa parla anche Desta Tilahum, segretaria generale del Partito Rivoluzionario del Popolo Etiopico che dice: “Abbiamo bisogno di relazioni diplomatiche con l’Unione Europea, ma devono andare a beneficio della gente, non di un solo leader. I politici europei devono sapere che in Etiopia si muore ogni giorno di fame, conflitti interni, inflazione. I bambini non vanno a scuola, i giovani sono costretti a combattere. Mai visto un tale caos. Se l’Etiopia collassa il mondo ne subirà le conseguenze”.

L’opposizione, spesso silenziata o repressa, teme che il viaggio in Europa di Abiy sia servito a raccogliere nuovi fondi, non per alleviare la crisi, ma per completare progetti di lusso e rafforzare il potere del governo. A Roma il premier ha incontrato anche Pietro Salini, Ceo di Webuild, impresa di costruzioni, che dovrebbe completare la Grande Diga del Rinascimento, Gerd, ma che aveva lamentato ritardi nei pagamenti.

Intanto, a metà maggio, in Etiopia è scoppiato un massiccio sciopero del personale sanitario, per protestare contro le pessime condizioni lavorative e i bassi salari. Scioperi seguiti dalla repressione, con centinaia di arresti, come riportato da Amnesty International. 

Il tour di Abiy si è concluso in Vaticano, con l’incontro con Papa Leone XIV. Sui social il premier ha ringraziato per la “calorosa accoglienza” e per il comune impegno per la pace globale. Un messaggio che suona ambivalente, alla vigilia di un possibile nuovo conflitto con l’Eritrea, temuto da molti.

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Guerra civile in Sudan: se degli storici meccanismi si sbloccano

6/6/2025

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In sole 72 ore sono avvenute in Sudan delle novità di portata epocale, che lasciano ben sperare per una rapida e chiara risoluzione del doloroso conflitto civile in corso dal 2023.
Di Filippo Bovo 
3 Giugno 2025

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In Sudan, non appena assunto tre giorni fa il ruolo di primo ministro, Kamil Idris ha smantellato il vecchio governo, ormai un’antistorica eredità della fallita transizione inaugurata nel 2019 ed andata definitivamente in frantumi nel 2023, quando scoppiò la guerra civile con le RSF di Dagalo Hemedti (Forze di Supporto Rapido, nate dai vecchi Janjaweed dell’epoca di al-Bashir, che tristemente si fecero conoscere durante il conflitto del Darfur) che vi uscirono, ribellandosi al Consiglio Sovrano di Transizione guidato dal Generale Fattah al-Burhan; ed ha avviato una transizione del tutto nuova, che include militari e civili ma al cui interno, come già si poteva facilmente intuire, non vi sarà mai più posto alcuno per le RSF.

Le milizie di Hemedti, in Sudan, hanno infatti talmente oltrepassato oltre ogni limite legale, umano e sociale da non poter più sperare in un ruolo, sia pur da perdenti, nella realtà politica e governativa nazionale. Il popolo sudanese non le vuole più.

Comprendendo la portata storica del loro vasto fallimento, i primi due promotori economici e militari delle RSF, gli Emirati Arabi Uniti e l’Etiopia, hanno così tentato un nuovo approccio con le autorità sudanesi, a cominciare dal Generale al-Burhan; ma questi ha frettolosamente respinto le loro profferte, come del resto già aveva fatto con gli Stati Uniti ed Israele. Addirittura i delegati etiopici, recatisi a Port Sudan per incontrarlo, si sono visti rifiutare proprio l’udienza: giusto per la cronaca, erano il direttore dell’intelligence etiopico, Redwan Hussein, e l’ex presidente dello stato del Tigray, Getachew Reda, a capo anche della fazione G del TPLF di recente sconfitta ed estromessa da quella D, guidata da Debretsion Gebremichael, con gran dolore del primo ministro etiopico Abiy Ahmed. 

Questi infatti s’è così trovato a sua volta estromesso dall’importante stato settentrionale del Tigray, al confine con l’Eritrea e proprio per tale ragione essenziale nei suoi piani per una maggior militarizzazione tanto contro Asmara quanto contro Khartum; mentre la montante guerra civile nella stessa Etiopia, non soltanto nell’Amhara, sempre più gli sfugge di mano. E’ notizia delle ultime ore quella delle dimissioni di sei massimi generali dell’Esercito etiopico, in segno di ribellione ad Abiy Ahmed e alla sua repressione dell’insurrezione degli Amhara, giudicata “genocidiaria”. Il fatto che i sei dimissionari proprio a quella etnia appartengano, come altri già dimessisi o passati ai FANO, milizia auto-organizzata alla guida della rivolta, sottolinea sempre più le spaccature emergenti nel paese: in sostanza, la guerra e la destabilizzazione alimentata dal suo governo nelle regioni e nei paesi confinanti sta lentamente, ma massicciamente, ritorcendosi proprio contro Addis Abeba.

Nel mentre, lo sconfitto Hemedti, a capo delle RSF, è apparso con un suo nuovo video in cui per la sua sconfitta ha nuovamente accusato l’Eritrea, “colpevole” d’aver fornito all’Esercito sudanese aiuti ed addestramenti a partire dal conflitto, ed ancor più negli ultimi mesi, rivelatisi essenziali per fargli riguadagnare terreno, di fatto scompaginando tutti i piani etiopico-emiratini e, più a monte, israelo-statunitensi. Non è la prima volta che lo fa, e nemmeno passa inosservato che nelle sue invettive se la prenda sempre col governo eritreo che, evidentemente, nel complesso conflitto civile sudanese è riuscito a metter le mani con più abilità ed efficacia degli altri alleati di al-Burhan, dall’Egitto alla Russia, dall’Arabia Saudita all’Iran fino alla Turchia, di là dal fatto che il loro aiuto sia sempre stato in ogni caso indiscutibilmente prezioso. Dopotutto, senza i loro equipaggiamenti militari, molti successi per l’Esercito sudanese, fortemente sostenuto dal grosso della popolazione, non sarebbero stati possibili.

E’ curioso notare come tutti questi avvenimenti che raccontiamo siano occorsi nelle ultime 72 ore: dal lavoro di Kamil Hadris, che getta le basi di una nuova stagione politica in Sudan, alla visita a vuoto di Hussein e Reda, fino al video livoroso di Hemedti e alle dimissioni dei sei alti gradi militari etiopici. Se ne trae la sensazione di un precipitare d’eventi, in un senso complessivamente positivo, che sblocca dei meccanismi politici e militari già da molto tempo in attesa di scattare, e finora forzosamente frenati.

Un altro merito dell’Eritrea, dal punto di vista umanitario, è stata anche l’accoglienza riservata a molti civili sudanesi fuggiti dal conflitto, fin dal 2023: il paese ha dato a queste persone, caso unico nella regione, la possibilità d’alloggiare in vere case con alimenti forniti dallo Stato oltre che dalla popolazione, profondamente legata ai sudanesi per ragioni storiche. Il Generale al-Burhan, nella sua ultima e recente visita in Eritrea, ha ringraziato profondamente il suo Presidente Isaias Afewerki per questo importante gesto di fratellanza.

​Tutti questi elementi dovrebbero farci riflettere di più sull’importanza degli attori locali nei conflitti civili come quello sudanese. In quelle poche volte che il dramma della guerra civile in Sudan trova attenzione nelle analisi di molti africanisti, infatti, vengono sempre nominati i grandi alleati extraregionali di Hemedti o di al-Burhan, ma mai di quelli locali, come l’Etiopia per il primo e l’Eritrea per il secondo; e, a dir la verità, anche degli Emirati o dell’Egitto non è che si vociferi più di tanto.

Nel frattempo, Hemedti ha lasciato il Sudan con un volo che, dopo aver fatto scalo in Repubblica Centrafricana, è infine giunto in Etiopia. Ha lasciato dietro di sé un paese da ricostruire e profondamente ferito dai suoi uomini; ma certamente il Sudan di domani, senza di lui e senza di loro, potrà riprendersi con molta più più forza e facilità.

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Discorso inaugurale del Presidente Isaias Afwerki in occasione del 34° anniversario dell'Indipendenza, Asmara, 24 maggio 2025

26/5/2025

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Signore e Signori,

Consentitemi di porgere le mie più sentite congratulazioni al patriottico popolo eritreo in patria e all'estero, a tutti i suoi amici e ai popoli liberi del mondo.

Permettetemi inoltre di esprimere la mia gratitudine a tutti coloro che hanno adornato di splendore – uno splendore la cui intensità e vivacità crescono ogni anno – le celebrazioni del nostro 34° anniversario dell'Indipendenza con una varietà di programmi ed eventi, e a tutti coloro che hanno espresso le loro sincere congratulazioni al popolo eritreo.

Mentre valutiamo ogni anno il percorso della nostra indipendenza, sovranità, unità e integrità territoriale sullo sfondo del formidabile processo di costruzione della nazione, è imperativo comprendere chiaramente, in una prospettiva oggettiva e relazionale, il contesto globale e regionale. Proprio perché il rafforzamento e la consolidazione della nostra indipendenza non possono essere considerati separatamente dalla prevalenza di un giusto ordine globale e di un'architettura regionale basata su rispetto reciproco, complementarietà, cooperazione, stabilità e progresso, che tanto apprezziamo.

Sebbene le nostre interpretazioni degli sviluppi globali/regionali verificatisi lo scorso anno e negli anni precedenti rimangano valide, la novità in questa propizia occasione del nostro 34° anniversario dell'Indipendenza è la sua coincidenza con l'ascesa del Presidente Trump alla più alta carica degli Stati Uniti. Alla luce della posizione globale degli Stati Uniti e delle nuove prospettive già delineate, è necessario un serio lavoro di ricerca per valutare fin dall'inizio le politiche, gli approcci e le tendenze sottostanti della nuova Amministrazione. Per quanto questo approccio fondamentale rimanga palpabile, la prudenza richiede pazienza e l'astensione da conclusioni premature, poiché le dinamiche di questo nuovo fenomeno rimangono complesse e complesse.

Se prendiamo come punto di partenza il mantra "MAGA" – l'acronimo di Making America Great Again – sorgono diverse domande prima di poter approfondire questioni fondamentali di strategia, piani e processi. Quali sono le implicazioni dell'essere "Grandi"? Perché gli Stati Uniti non sono considerati grandi in primo luogo, e perché dovrebbero esserlo? E come si realizzerà questo amato ideale?

In termini letterali, essere "Grandi" si traduce nell'essere il più ricco, il più industrializzato, il più avanzato nel progresso tecnologico, il più forte in termini di potenza militare, senza pari nella sfera d'influenza e nel soft power, ammirato da tutti, ecc. Se queste metriche (alcuni parametri possono essere aggiunti o modificati) vengono prese come punti di riferimento, una valutazione oggettiva dello status degli Stati Uniti nell'ordine gerarchico globale implicherebbe un'analisi esaustiva del periodo della Guerra Fredda e dei successivi 30 anni di fase "unipolare" di sconsiderata ricerca del predominio (senza contare i secoli precedenti alla fondazione degli Stati Uniti). Questo ci permetterà di prevedere cosa ci riserva l'orizzonte nel periodo a venire.

Concentrando l'attenzione sull'epoca contemporanea – gli ultimi 35 anni dopo la fine della Guerra Fredda, quando il tema dominante ruotava attorno alla "preminenza e al controllo globale incontrastati" degli Stati Uniti – l'enorme e galoppante debito pubblico di oltre 30.000 miliardi di dollari accumulato a causa di amministrazioni dispendiose a Washington è un indicatore eloquente che non merita ulteriori approfondimenti. Il postulato miope e sconsiderato di Washington di "delocalizzare le nostre industrie in paesi – con la Cina in prima linea – con costi di manodopera ed energia più bassi e bassi consumi che aumenteranno i nostri profitti" si è infine ritorto contro di noi, provocando pesanti perdite economiche.

In effetti, la Cina oggi si colloca come leader mondiale in termini di produzione industriale. Anche in termini di predominio tecnologico, lo status degli Stati Uniti non solo sta subendo una corrosione multiforme, ma le tendenze future non ne prevedono il ritorno alla preminenza. Gli Stati Uniti non sono il Paese più potente militarmente – un fatto corroborato da diversi parametri, oltre alla precaria condizione della NATO. La situazione non migliora con le vistose parate di portaerei, la demolizione di piccoli Paesi come lo Yemen o l'elevato numero di armi nucleari.

Gli eccessivi profitti ottenuti in un contesto globale – caratterizzato dall'assenza di sana concorrenza, di liberi mercati e scambi commerciali, nonché di un'equa distribuzione della ricchezza e del reddito; dove un ordine finanziario dominato da giochi a somma zero che ricorre alla speculazione e alle pratiche immorali dell'usura; dalla stampa di carta moneta senza vincoli; e dall'illecita militarizzazione di sanzioni e intimidazioni, ecc. – stanno diminuendo e diventando sempre più insostenibile. Questo stato di cose attuale può essere ampliato con prove ampie e dettagliate. Di fronte a questa realtà prevalente, il Presidente Trump ha annunciato politiche e iniziative volte a ridurre o eliminare il debito americano, invertire e rettificare gli sprechi di spesa fiscale, attrarre e riportare industrie e investimenti onshore , incoraggiandone di nuove, aumentando tariffe e tasse, riducendo le imposte interne, ostentando la forza e ricorrendo alla politica del rischio calcolato, e potenziando la diplomazia attiva e le pubbliche relazioni, ecc.

La logica e l'obiettivo generale di queste politiche aggregate è rendere grande l'America, cosa che, a suo avviso, non è possibile in questo momento. Non è facile prevedere, in questo frangente, come evolveranno e si svilupperanno le questioni interne e i rapporti degli Stati Uniti con Cina, Russia, Europa, Asia e America Latina nei prossimi quattro anni, sia in termini di agenda specifica che di impatto collettivo di tutti i diversi aspetti del pacchetto. Pertanto, gli scenari previsti richiederanno un monitoraggio e una valutazione costanti, su base oraria, entro quadri di riferimento dettagliati. Non si può, naturalmente, affermare che sia "assolutamente impossibile" correggere politiche cumulative errate perseguite per secoli. Che il compito richieda di scalare una salita molto ripida è, tuttavia, evidente. Ancora più importante, sarà fondamentale conoscere a fondo le reazioni e gli impegni con l'amministrazione Trump dei cosiddetti "Grandi" Paesi/governi che sono il bersaglio di queste politiche, e valutare la tendenza in relazione a tali tendenze.

Signore e Signori,

In mezzo a tutte le rivalità globali messe in moto durante questa "fase di transizione" per un nuovo ordine globale, l'Africa emarginata è praticamente assente dall'equazione. Che l'Africa venga ignorata non è né spaventoso né sorprendente. Anzi, nonostante le sue enormi doti naturali, l'Africa continua a esportare materie prime a prezzi simbolici, importando al contempo prodotti manifatturieri a prezzi esorbitanti, il che la costringe a mantenere un'economia di sussistenza primitiva e a dipendere dagli aiuti umanitari.

Forse, sullo sfondo delle politiche indicative di Trump, il precario sistema africano, ancorato a sussidi e sussidi provenienti dagli Stati Uniti e da altri paesi, potrebbe trovarsi ad affrontare quelle che vengono spesso definite le "conseguenze indesiderate" del cambiamento. Queste ultime potrebbero potenzialmente aprire una nuova opportunità e dare nuovo slancio ai popoli africani. Come si comporterà l'Africa nei prossimi quattro anni? E soprattutto, cosa farà l'Africa per garantire l'avvento di un ordine globale sostenibile ed equo? Queste azioni ci aiuteranno ad affinare le politiche che abbiamo già elaborato su questo tema cruciale.

Signore e Signori,

Che dire della situazione regionale a noi più vicina? La nostra strategia permanente è incentrata sulla promozione di solidi legami nella nostra regione, basati sul rispetto reciproco, la complementarietà, la cooperazione, la stabilità, la prosperità e l'integrazione. L'importanza geostrategica del vicinato lo ha sempre reso suscettibile a una miriade di interferenze e atti di sovversione, alimentati da percepiti imperativi di "crescenti influenze". A questo proposito, possiamo considerare le crisi in Sudan ed Etiopia come manifestazioni e indicatori di queste macchinazioni.

Il popolo sudanese aveva registrato lodevoli progressi nel compito di costruzione della nazione nei primi decenni successivi alla liberazione nel 1956. Ma questi progressi sono stati ostacolati dal 1989 in poi principalmente a causa della minaccia rappresentata dalle politiche irresponsabili del Fondo Monetario Internazionale. Quando la pazienza si è esaurita, il popolo sudanese ha fatto ricorso a una rivolta spontanea per rimuovere l'ostacolo, inaugurando successivamente un periodo di transizione. E, a nome del popolo sudanese, all'Esercito Sovrano è stato affidato il compito della transizione.

Ma per ragioni legate all'importanza geostrategica del Sudan, forze esterne decise a far deragliare il processo hanno iniziato ad alimentare il conflitto mentre il processo di transizione era ancora agli albori, cooptando e strumentalizzando surrogati interni. Il processo di "transizione" si è aggravato ed esacerbato, precipitando nella polarizzazione e nello scontro militare attraverso rivalità e acrimonie fomentate dall'esterno. Queste forze sono impegnate a gestire il conflitto, finanziandolo e aggravandolo contemporaneamente attraverso i paesi "vicini".

È il popolo sudanese ad essere vittima di questa prova, a sopportare il peso di una calamità sempre più grave. Il popolo sudanese ha acquisito una solida esperienza dalla sovversione che ha causato questo pantano. Hanno iniziato ad ampliare e rafforzare la loro opposizione a questa sovversione. I vicini del Sudan hanno l'obbligo di assumersi la propria responsabilità morale e di offrire un sostegno incondizionato al popolo sudanese. Questo è un dovere e non un favore in alcun modo.

Ma che dire dell'Etiopia?

La spirale di crisi e devastazione inculcata per ottant'anni – non meno di tre generazioni – dalle politiche sbagliate enunciate dai Foster di Washington (Foster Dulles e simili) è ben nota e ampiamente documentata, tanto da giustificarne la ripetizione. Allo stesso modo, i gravi errori perpetrati dai leader dell'ex Unione Sovietica, seguendo la stessa logica durante la Guerra Fredda, sono ampiamente documentati. L'opportunità di costruire una nazione è stata di conseguenza negata per due generazioni. E dopo la fine della Guerra Fredda, l'Etiopia...propensi alla polarizzazione etnica invece di costruire una nazione ancorata alla cittadinanza. Gli sconvolgimenti e la devastazione provocati da questa opzione non meritano molti approfondimenti.

Dopo i numerosi e ripetuti disastri scatenati dal Federalismo Etnico, l'euforia e l'ottimismo che la presunta "riforma" ha generato non solo in Etiopia, ma anche in Eritrea e in altri paesi limitrofi sette anni fa sono ancora vivi nella nostra memoria.

Ma le forze esterne, turbate dalle promettenti prospettive, non sono rimaste inerti. Le guerre che hanno dichiarato contro il popolo etiope sotto la bandiera della Prosperità (il loro nuovo surrogato) negli ultimi anni sono un esempio della loro disperazione. I pretesti e le bandiere sono molteplici; i programmi sconsiderati e i loro aspetti preventivi sono evidenti. Tra questi: "La questione dell'acqua", "Il Nilo e il Mar Rosso", "L'accesso al mare", "L'ideologia di Orommuma" che non rappresenta il popolo Oromo, l'enigma di un "antagonismo cuscitico-semita", "La strumentalizzazione del popolo e della terra di Afar come stratagemma e comoda piattaforma", "L'alimentazione di guerre etniche ovunque", ecc.

La corsa agli acquisti messa in atto per acquisire armi e "tecnologia" al fine di scatenare queste guerre dichiarate, la spavalderia e la politica del rischio calcolato che ne conseguono, sono tutte ben note e documentate. I dollari sperperati per ottenere la collaborazione di traditori e voltagabbana sono illimitati. Anche gli strumenti della "guerra psicologica", impiegati come terzo pilastro per diffondere menzogne ​​abiette, sopprimere e distorcere verità e fatti, e fomentare odio e risentimento, sono numerosi. Gli atti di sovversione palesi e "occulti" orditi contro il popolo e il governo dell'Eritrea sono ben noti a tutti.

In conclusione: le prospettive ottimistiche che si prospettavano si sono dissolte. Il popolo etiope ha già fatto la sua scelta e si sta preparando a rafforzare la propria opposizione. Il popolo e il governo eritreo non si pentono del sostegno incondizionato che, con grandi speranze, hanno offerto con vigore alla presunta Rettifica/Riforma a causa dell'improvvisa svolta degli eventi. Non hanno voglia di abbandonarsi a piattaforme di menzogne ​​e futile acrimonia. Invitano le forze esterne, coinvolte nell'ideazione di sovversione, a "piegare le mani/i tentacoli". Quanto ai pochi collaboratori e agli elementi vacillanti, li esortano a "stare lontani da queste trasgressioni".

Signore e Signori,

È nostro dovere monitorare, analizzare meticolosamente e interpretare correttamente gli sviluppi e le tendenze internazionali e regionali al fine di compiere scelte giudiziose che influiscano sulla nostra agenda di progresso interno. Ma come recitano i detti del Saggio – "Tieni saldo il giogo a prescindere dai meandri dei buoi", oppure "Meglio concentrarsi sul fulcro piuttosto che correre senza meta" – la nostra missione principale è quella di dedicare la nostra attenzione e priorità assoluta ai nostri sviluppi e alle nostre tendenze interne.

Signore e Signori,

I nostri programmi di sviluppo, che continuano a essere perseguiti in conformità con le loro priorità settoriali (infrastrutture idriche, energia/elettricità, agricoltura, risorse marine, infrastrutture fisiche, nonché edilizia abitativa, trasporti, istruzione, sanità, turismo… ecc.), saranno ulteriormente rafforzati attraverso un Programma di Sviluppo Integrato che sarà attuato nelle Sei Regioni nell'anno in corso sulla base di piani dettagliati e mobilitando le risorse necessarie. E soprattutto, in modo da stimolare un'ampia partecipazione e un contributo popolare.

L'ampia partecipazione popolare, insieme ai compiti di sviluppo implementati in passato attraverso le Forze di Difesa, aumenteranno in portata e qualità con una migliore organizzazione istituzionale e un maggiore contributo popolare. Come avevo accennato lo scorso anno, il quadro avviato per creare un ambiente favorevole allo stimolo del potenziale latente e dell'iniziativa attiva dei nostri cittadini patriottici all'estero nella nostra agenda di sviluppo non si è ancora concretizzato a causa di ritardi nella raccolta dati, essenziale per la definizione di piani concreti.

Tuttavia, la partecipazione concreta dei nostri cittadini all'estero alla nostra agenda di sviluppo sarà avviata a partire dalla seconda metà del 2025 come terzo pilastro coesivo a integrazione dell'architettura delle Sei Regioni e delle Forze di Difesa, come delineato in precedenza. Questa configurazione non include progetti e investimenti in vari settori e ambiti che possono essere avviati a livello individuale, di gruppo o di comunità. L'obiettivo generale e articolato della nostra agenda di sviluppo ruota attorno al miglioramento tempestivo delle condizioni di vita della nostra popolazione, in particolare delle fasce più svantaggiate, e, soprattutto, all'uscita della nostra economia da un livello di sussistenza verso un'economia che aumenti la nostra produttività e la produzione aggregata in modo sostenibile, catalizzando la nostra transizione verso la produzione manifatturiera e l'industrializzazione.

Ma la nostra agenda per lo sviluppo non si limita alla sola crescita economica. La diplomazia e l'informazione/comunicazione I fronti ionizzanti non dovrebbero essere trascurati nel contesto delle instabili tendenze internazionali e regionali. Naturalmente, capitali, altre risorse e strutture sono vitali. Ma la risorsa di fondamentale importanza è il capitale umano devoto e industrioso. Pertanto, stiamo marciando avanti con rassicuranti garanzie. E nessuna forza può ostacolare l'inesorabile progresso.

La nostra coesione: la nostra armatura!

Gloria ai nostri martiri che garantiscono l'integrità del nostro impegno!
Vittoria alle masse!

credit ​Ghideon Musa Aron
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L’Etiopia vuole il porto eritreo di Assab: una miccia pronta a esplodere

23/5/2025

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La strategia del premier Abiy Ahmed per ottenere una base navale nel Mar Rosso rischia di destabilizzare il Corno d’Africa.
di Marilena Dolce

Dal 2023 l’Etiopia ha innescato una questione geopolitica pericolosa per l’intero Corno d’Africa: la richiesta di avere un territorio, appartenente ad un paese vicino, per stabilirvi una base navale.
Il premier Abiy ha persino minacciato possibili azioni militari qualora i negoziati in merito fallissero, sostenendo che “150 milioni di persone, numero previsto per il 2030, non possono stare in una prigione geografica”.

Un punto di vista non condiviso dai paesi confinanti disposti a permettere all’Etiopia l’utilizzo dei loro porti per scopi commerciali, ma fermamente contrari a cedere porzioni del proprio territorio.
Interessante, in questo contesto, l’analisi di Debesai Tesfu, studioso eritreo, che ne evidenzia le criticità, analizzando alcuni articoli pubblicati dalla ricercatrice etiopica Blen Mamo Diriba, affiliata all’Istituto per gli Affari Esteri. I temi da lei trattati sono principalmente tre. Il primo è la negazione da parte dell’Etiopia del dato geografico riguardante l’Eritrea, ovvero la presenza di una lunga linea costiera, con relativi accessi al mare. Segue la convinzione secondo cui l’Etiopia avrebbe un “interesse strategico” all’accesso marittimo. Infine, la proposta perché si arrivi a un “trattato con l’Eritrea” che, sotto supervisione internazionale, regoli l’uso dei suoi porti.

Per il premier Abiy Ahmed la conquista di un porto e l’accesso alla costa sul Mar Rosso sono imprescindibilmente legati alla supremazia dell’Etiopia. Ritiene che il paese più grande e popoloso del Corno d’Africa debba possedere un porto, a tutti i costi.
La ricercatrice etiopica si spinge oltre, ipotizzando la possibilità che l’Etiopia si “riprenda” Assab. La tensione è palpabile già nel titolo di uno dei suoi articoli: “potrebbe Assab diventare la Crimea d’Africa?”.
Nell’articolo, poi rimosso dal web, Blen Mamo Diriba legittima, o quanto meno contempla, una riannessione unilaterale di Assab da parte dell’Etiopia, sull’esempio dell’occupazione russa della Crimea nel 2014. Il punto centrale del paragone è il passaggio dal piano commerciale a quello della sovranità territoriale. Non più trattati o diritto marittimo, ma conquista militare.

Espressioni come “autonomia eritrea” o “sovranità eritrea” ricorrono spesso nei suoi scritti.
Per comprenderne appieno il significato occorre fare un passo indietro.
Negli anni Cinquanta l’Eritrea perse ogni forma di autonomia, prima con la federazione imposta dalle Nazioni Unite, poi con l’annessione forzata da parte di Hailè Selassiè. Per riconquistare l’autonomia necessaria a costruire il proprio Stato, l’Eritrea ha dovuto combattere trent’anni, (1961-1991), prima contro l’imperatore, poi contro la giunta militare del Derg di Menghistu Haile Mariam. Il 24 maggio 1991 è infine diventata uno stato sovrano, con un territorio delimitato da confini coloniali, che comprendono i porti di Assab e Massawa.

Blen Mamo Diriba affronta anche la questione dell’accesso al mare proponendo un possibile “trattato bilaterale con l’Eritrea”, fondato sui principi della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS). Cita una clausola per cui l’Etiopia potrebbe avere i porti, senza tuttavia intaccare la sovranità eritrea, grazie a una cosiddetta “interfaccia marittima”.
Ma di cosa si tratta, esattamente? Innanzitutto, va ricordato che l’Eritrea non ha mai negato l’accesso ai suoi porti per attività commerciali e che esistono da tempo zone di libero scambio a Massawa e Assab.

Cosa implicherebbe dunque questa “interfaccia marittima”? L’ obiettivo è creare una base navale e militare. Secondo Abiy, infatti, senza una marina, l’Etiopia perderebbe prestigio. Ma difficilmente quest’argomentazione troverebbe spazio nel diritto internazionale.
Restano molti interrogativi. Come potrebbe Addis Abeba “ottenere una rotta marittima indipendente”, non avendo sbocchi sul mare, senza violare la sovranità degli Stati vicini? E ancora, come potrebbe esercitare la propria autonomia marittima poiché è uno stato con confini geografici solo terrestri? Se il Mar Rosso è un bene comune marittimo, cosa implicherebbe rispettare l’autonomia eritrea? Che il controllo dei porti diventerebbe etiopico?

Infine, la domanda più inquietante: il Mar Rosso potrebbe scatenare una nuova guerra?
Finora abbiamo seguito la critica eritrea alle pretese etiopiche, che confondono l’accesso al mare con il possesso territoriale. Nessuna legge internazionale può obbligare un paese costiero a cedere la propria sovranità per accontentare un vicino senza sbocco sul mare.
Chi sostiene un diritto etiopico al mare richiama spesso Ras Alula, il generale che ai primi del Novecento, durante l’occupazione italiana dell’Eritrea, definì “il Mar Rosso, frontiera naturale dell’Etiopia”. Ma già allora non era così. Il riferimento storico corretto rimanda al Trattato di Uccialli, firmato il 2 maggio 1889 dal conte Pietro Antonelli e da Menelik. Dopo la sconfitta italiana di Adua il trattato diventa nullo e, con la pace di Addis Abeba, Menelik riconosce l’Eritrea come entità statale, definita dai confini coloniali italiani, dal fiume Mareb fino ad Assab, sulla cui baia, già nel 1879, era stata issata la bandiera della compagnia navale Rubattino. 
Paradossalmente, è proprio quest’eredità coloniale a dimostrare che l’Etiopia non ha mai avuto sovranità sui porti eritrei.
Trent’anni fa, afferma Abiy, l’Etiopia, con una popolazione di 47 milioni di persone, possedeva due porti. Ma, dopo la guerra contro l’Eritrea (1998-2000), visti i rapporti sempre più tesi, non è rimasta altra scelta che utilizzare il porto di Gibuti, rimpiangendo Assab.
Tuttavia, come già ricordato, i porti eritrei sono stati etiopici solo nel periodo dell’annessione.

Gli Accordi di Algeri (2002) invece, successivi al conflitto, non hanno modificato i confini marittimi eritrei.
In questi due anni i paesi vicini all’Etiopia hanno preso nettamente le distanze dalle sue mire espansionistiche. La Somalia ha dichiarato che “le questioni territoriali non sono soggette a negoziazioni”. Analoga la posizione di Gibuti che ha ribadito che “in quanto paese sovrano non può vedere messa in discussione la sua integrità territoriale”. Più cauta, ma comunque chiara, la reazione ufficiale dell’Eritrea che ha definito “eccessivi” i discorsi, reali e presunti, sull’acqua, sull’accesso al mare e altri temi affini.
Ma l’Etiopia reggerebbe un nuovo conflitto? 
La guerra interna tra governo e Tplf (Tigray People’s Liberation Front), combattuta nella regione del Tigray, ha provocato 600 mila morti e milioni di sfollati. Anche se formalmente conclusa, con l’accordo di Pretoria (2022), ha lasciato spazio a un altro scontro durissimo, tuttora in corso, nella regione Amhara.
Sembra ormai molto lontano quel 2018 in cui l’insediamento del nuovo premier, Abiy Ahmed, lasciava sperare in una stagione di pace e sviluppo, sia in Etiopia che nell’intero Corno d’Africa.
Oggi la crescita economica dell’Etiopia ha perso slancio e l’inflazione supera il 30 per cento.
Molti dei progetti in corso, per esempio quelli urbanistici nella capitale, sembrano solo di facciata. Per la gente comune la vita quotidiana è sempre più difficile. Il potere d’acquisto della classe media è eroso al punto che persino il Premier consiglia di mangiare pane e banane.
Secondo diversi analisti Abiy punta al Mar Rosso per risvegliare un orgoglio nazionale sopito. Una pericolosa via d’uscita dalla peggiore crisi imboccata dal paese, che rischia di travolgerlo.
In questo contesto di instabilità interna e tensioni regionali, la battaglia per l’accesso al Mar Rosso rischia davvero di diventare una miccia pronta ad esplodere.

​Marilena Dolce per Affari Italiani




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24 Maggio 1991-2025: Giornata dell'Indipendenza dell'Eritrea

23/5/2025

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I 34 anni dell’Eritrea: “La Nostra Coesione: la Nostra Armatura!”

23/5/2025

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Il 34esimo Anniversario dell'Indipendenza viene celebrato dall'Eritrea e dal suo popolo ricordando la grande Coesione che lega l'una e l'altro in una Nazione dimostratasi capace d'affrontare e vincere sfide a dir poco sbalorditive. Quella Coesione è la sua Armatura.

Di Filippo Bovo
22 Maggio 2025

Ogni Anniversario dell’Indipendenza, avvenuta de facto il 24 maggio 1991 con l’entrata delle forze dell’EPLF (Eritrean People’s Liberation Front) ad Asmara e la cacciata di quanto rimaneva dell’ormai decaduto dominio etiopico, e riaffermata de iure il 24 maggio del 1993 con l’ingresso del Paese all’ONU dopo il plebiscitario responso al referendum che questi aveva sovrinteso, viene celebrato con un nuovo slogan, diverso dai precedenti, tale da renderlo così per sempre unico ed indimenticabile. Quest’anno non poteva forse esserne scelto uno di migliore, tant’è rappresentativo e biografico della complessa e profonda storia eritrea: “Our Coesion: Our Armour!”, ovvero “La Nostra Coesione: la Nostra Armatura!”.

Nell’immagine che accompagna lo slogan campeggia una grande fiaccola ardente, brandita da una mano: appare spesso, anche nelle immagini degli Anniversari già trascorsi, arricchite di volta in volta da motivi e soggetti diversi, a conferma di quanto connotante sia della storia e della culturale nazionale eritrea. Del resto, che il Paese sia sempre stato unito e coeso, trovando in queste doti parte delle ragioni della sua tanta forza e resilienza, mentre robusta e vigorosa arde la fiaccola dello spirito patrio, non ci sono dubbi: basterebbe a tal proposito guardare alla sua storia, passata e recente, per potersene abbondantemente accorgere.

E’ fatto noto che fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, al pari d’ogni altra ex colonia italiana, anche l’Eritrea avesse pieno diritto all’Indipendenza. Non così però la pensavano i vincitori: il Negus d’Etiopia, Haile Selassie, tornato sul trono dopo la cacciata degli italiani ad opera degli inglesi nel 1941, la rivendicava a sé, desideroso di poter coronare un’antica ambizione etiopica come quella di raggiungere il mare; mentre i suoi più stretti alleati, Inghilterra e Stati Uniti, non disdegnavano a loro volta tale idea, ritenendo pur sempre strategico il fatto di serbarselo amico.

Così, abbandonato un temporaneo piano di smembrare l’Eritrea tra Etiopia e Sudan, gli inglesi fecero fronte comune con gli americani, e anche i vinti, cominciando dagli italiani che avevano pur manifestato qualche riserbo, si dovettero adeguare: nel 1952, terminato il governo militare provvisorio inglese sull’Eritrea, questa sarebbe divenuta uno Stato federato alla Corona etiopica. L’allora Segretario di Stato americano John Foster Dulles, pur conoscendo il grande desiderio d’Indipendenza degli eritrei, con cinismo così commentò: “Dal punto di vista della giustizia, le opinioni del popolo eritreo devono essere prese in considerazione. Tuttavia, gli interessi strategici degli Stati Uniti nel bacino del Mar Rosso e le considerazioni di sicurezza e di pace nel mondo rendono necessario che il paese sia collegato al nostro alleato, l’Etiopia”.

Tuttavia federare uno Stato come l’Eritrea, già dotato di tutte le sue istituzioni democratiche e parlamentari, di partiti, giornali e sindacati, ad una monarchia assoluta come l’Etiopia d’allora, priva di tali organismi e retta dalla volontà di un autocrate come il Negus, appariva già allora un esperimento destinato ad esiti infelici. E così infatti fu: se durante il loro governo militare provvisorio gli inglesi avevano provveduto a saccheggiare quante più infrastrutture e macchinari potevano dell’ex colonia italiana, fino al 1941 la più avanzata ed industrializzata di tutto il Continente Africano, gli ufficiali etiopici a loro volta iniziarono a sopprimere su ordine del loro sovrano tutte le istituzioni democratiche del Paese, allo scopo di renderlo infine del tutto omogeneo alla più arretrata e verticistica monarchia negussita.

Il malcontento tra gli eritrei e anche tra molti italiani rimasti in loco cominciò ad esprimersi, e le repressioni delle autorità etiopiche ad intensificarsi, finché alla fine degli Anni ’50 quel che restava del vecchio “Stato federato di Eritrea” non venne per decreto ridotto a mera 14esima provincia dell’Impero d’Etiopia. Nel frattempo però, al Cairo, alcuni patrioti avevano fondato l’ELF (Eritrean Liberation Front), con lo scopo di combattere per ottenere la mai vissuta Indipendenza. Tra i suoi massimi esponenti figurava colui che per primo avrebbe acceso la fiaccola della lotta armata assaltando una postazione della polizia etiopica, l’Eroe Nazionale Hamid Idris Awate. Sarà un caso che il manifesto con lo slogan di quest’anno rappresenti proprio una fiaccola? Leggendo il resto della storia eritrea, capiremo che quella fiaccola fu retta e sarebbe stata poi retta da tante altre mani ancora, quelle di un popolo intero, un popolo coeso.

Alla fine degli Anni ’60, riconoscendo le contraddizioni interne che l’ELF recava con sé e che ne tarpava le capacità di portare avanti la lotta, alcuni giovani patrioti eritrei decisero di costituire una nuova formazione, che nel decennio successivo si sarebbe ancor più strutturata: era l’EPLF, con forti basi non soltanto nazionali e patriottiche ma anche socialiste e marxiste. La Guerra di Liberazione eritrea per l’EPLF era anche una Rivoluzione sociale, emancipatrice ed anticoloniale, con la paritaria partecipazione degli uomini e delle donne, destinate ben presto a divenire oltre il 35% dei Tegadelti, ovvero dei combattenti per l’Indipendenza. Quel nuovo movimento avrebbe dato nuovo ed immenso filo da torcere alle truppe etiopiche, sempre più in difficoltà, fino a favorire la caduta del Negus nel 1974.

Quell’avvenimento, tuttavia, non avrebbe ancora migliorato le cose né in Eritrea né in Etiopia: caduto il vecchio regime imperiale, ad Addis Abeba s’insediò una giunta militare, il DERG, al cui interno dopo un cruento regolamento di conti si sarebbe affermata la sinistra figura del “Negus rosso” Menghistu Haile Mariam. Trovandosi ai ferri corti con la Somalia, con cui già il Negus negli Anni ’60 s’era scontrato, Menghistu proclamò la natura socialista e filosovietica del suo regime, ottenendo così l’assistenza economica e militare dei sovietici e dei cubani. Miliardi di dollari a titolo di fondi economici e di dispositivi militari, anche estremamente avanzati, giunsero in Etiopia dall’URSS, trasformandola nel più grande arsenale africano. Grazie a tali aiuti, il DERG riuscì a mantenere l’Ogaden, che la Somalia aveva occupato soccorrendo i somali di quella regione etiopica che volevano unirsi a Mogadiscio, e tentò poi di sbarazzarsi definitivamente dell’EPLF, che sempre più aveva guadagnato terreno. Con l’Operazione Stella Rossa le truppe etiopiche assalirono i capisaldi eritrei mentre la Marina Sovietica a sua volta li bombardava dal Mar Rosso. Neppure il napalm venne risparmiato, insieme ad altre armi proibite dalle convenzioni internazionali.

Eppure, nonostante tutti quegli aiuti, le truppe etiopiche persero sempre contro i Tegadelti. Questi si riprendevano rapidamente e con gli interessi tutto il terreno perduto, per giunta sottraendo alle sempre più demoralizzate truppe etiopiche molto del loro armamento, che dal 1989 non godevano più né dell’assistenza sovietica, revocata, né di quella cubana, con Fidel Castro assai ricredutosi di Menghistu. Già negli Anni ’80 l’EPLF aveva ormai guadagnato, a danno dell’avversario, una potenza di fuoco tale da consentirgli di sfidarlo apertamente, tanto che coi suoi carri armati oltre che con barchini ultraveloci tra l’8 e il 10 febbraio 1990 poté liberare con l’Operazione Fenkil la città di Massawa, assestando un durissimo colpo al regime, e nel corso dell’anno successivo completare passando di successo in successo la liberazione dell’intero territorio eritreo.

Non solo, ma sempre coi suoi mezzi, indispensabili per garantire la copertura anche degli altri movimenti di resistenza etiopici, nel maggio 1991 l’EPLF entrò con le sue bandiere persino ad Addis Abeba, liquidando pure là quanto ancora restava del vecchio regime ormai esaurito. Menghistu era già fuggito in Zimbabwe diversi giorni prima, il 21 maggio, dopo aver dato le dimissioni e portato via con sé molto del Tesoro nazionale, mentre il 24 maggio, come raccontavamo, l’EPLF era entrato ad Asmara, la capitale dell’Eritrea, sancendone così la definitiva Liberazione. Fu dunque un cammino di trionfi, ma anche di grandi sacrifici: molti i caduti, i Martiri, intorno alla cui memoria si forgia l’immenso spirito nazionale eritreo. Quella fiaccola arde anche e soprattutto per loro.

Tanto per l’Eritrea e gli eritrei era importante la data del 24 maggio 1991, dunque, da rendere due anni dopo obbligata la scelta del 24 maggio anche per presentarsi al mondo intero come l’allora più giovane Nazione africana. I festeggiamenti che si sono tenuti in quel 1991 come negli anni successivi, da parte dei tanti eritrei andati all’estero a formare una vasta Diaspora dall’Occidente al Medio Oriente fino a parte dell’Africa, dove trovarono rifugio negli anni della Guerra di Liberazione e dove reperirono fondi e sostegni per portarla avanti e perorarne la causa, resteranno sempre memorabili. Un grande aiuto fu dato, ed è giusto ricordarlo, da paesi come la Somalia e il Sudan, con la prima che fornì visti e passaporti somali dal consolato di Khartum dove molti eritrei avevano trovato riparo dalle persecuzioni del DERG, così da poter poi viaggiare anche all’estero ed ottenervi cure e sostegni.

Anche quest’immenso debito di gratitudine spiega il grande supporto che l’Eritrea dà oggi a somali e sudanesi, i cui Paesi stanno attraversando duri travagli, affinché possano un giorno tornare a vivere nella sicurezza e nella pace. E un altro grande aiuto fu dato, soprattutto in Italia, dalla città di Bologna, che dagli Anni ’70 diventò una vera e propria “capitale morale” della Diaspora e della Comunità Eritrea, per restarlo tuttora. Tant’è che proprio in questi giorni, Bologna compresa, si stanno tenendo i festeggiamenti della nutrita Comunità Eritrea in Italia; altri a Roma, Catania, Pisa, mentre altre ancora se ne terranno nei giorni a venire. Così pure in Germania, in Arabia Saudita, negli Stati Uniti, ovunque, oltre ovviamente alla Madrepatria.
Quanto qui raccontiamo è ben poco del tutto; ma probabilmente adesso i lettori capiranno perché quella Coesione sia anche l’Armatura della Nazione Eritrea.

Trent’anni di Guerra di Liberazione non sarebbero stati possibili senza quella Coesione, né sarebbe stato possibile concluderli con una tale vittoria, con l’Indipendenza; ed ancor meno difenderla dalle aggressioni subite in seguito, in primis quella del 1998-2000, allorché l’Etiopia guidata da Meles Zenawi tentò nuovamente la conquista dell’Eritrea; od abbellirla come i suoi primi 34 anni di vita indipendente ci stanno a testimoniare, facendo dell’Eritrea di oggi il Paese totalmente sovrano a cui molti giovani panafricanisti guardano come esempio per l’emancipazione del proprio. L’Eritrea di oggi è l’unico caso nella storia africana di un Paese sviluppatosi sin dall’Indipendenza senza indebitarsi con l’estero, in particolare con gli istituti economici occidentali responsabili del neocolonialismo nel resto del Continente, ad aver costruito contando sulle sue sole forze più di 800 tra dighe e bacini idrici che hanno reso verdi, piovose e coltivate terre un tempo aride e siccitose, a non far parte del dispositivo NATO/AFRICOM e a non aver basi militari straniere sul proprio territorio, per giunta riuscendo in tutto ciò anche a fronte di lunghi anni di sanzioni internazionali.

La fiaccola di questi 34 anni d’Indipendenza è una fiaccola che arde con gioia.

​Filippo Bovo L'Opinione Pubblica
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