Corno d’Africa: non la conflittualità, ma una piena sovranità può fare l’interesse dei suoi popoli14/4/2025 Dell'insorgenza delle milizie FANO nello stato etiopico dell'Amhara, a livello internazionale, non si parla ancora a sufficienza; ma la gravità della situazione è tale da richiedere la nostra attenzione, perché testimoniano dinamiche di cui il Corno d'Africa davvero non sente alcuna necessità.
Di Filippo Bovo 14 Aprile 2025 In Etiopia, nello stato del Tigray, le conflittualità tra le fazioni di Debretsion Gebremichael (TPLF-D) e di Getachew Reda (TPLF-G) dentro il TPLF (Tigray People’s Liberation Front) sembrerebbero aver trovato un momentaneo tampone con la sostituzione del secondo, ormai esautorato dal primo, con un nuovo presidente ad interim, il Generale Tedesse Warede scelto dal primo ministro etiopico Abiy Ahmed; ma è solo un risanamento di facciata. Reda, allontanatosi dal Tigray, è probabilmente coinvolto insieme al Governo Federale nell’insorgere di una nuova, inedita rivolta armata nel Tigray contro le autorità del TPLF, ma in tal merito le notizie sono ancora troppo fresche per potersi lanciare in giudizi certi. Certo, solo la fazione di Debretsion dispone nel TPLF di una reale forza militare, e quindi a potervisi opporre non può essere che qualche altro elemento, assistito dall’esterno; e che tra il Governo Federale e quella fazione, la TPLF-D, ci siano al momento vari problemi ad andar d’accordo, non è un mistero. Dopotutto, per ragioni di convenienza politica e tattica, la fazione TPLF-D non ha oggi interesse a farsi cavalcare dal Governo Federale in una guerra contro la vicina Eritrea, per guadagnare uno sbocco sul mare che nessuno, a livello internazionale, sarebbe peraltro disposto legalmente ad avallare. Come avevamo raccontato anche in un precedente articolo, le conflittualità diplomatiche (potenzialmente in grado di sfociare in più aperte conflittualità d’altro genere, e proprio per tale motivo per nulla giustificabili) che oggi Addis Abeba sta manifestando coi suoi vicini, dall’Eritrea alla Somalia fino alla stessa Gibuti, a tacer poi del ruolo di supporto alle RSF (Rapid Support Forces) in Sudan, sono espressione di una volontà della sua leadership di scaricare verso l’esterno le non poche e crescenti contraddizioni interne, dalla crisi economica e valutaria ai tanti conflitti etno-militari che ne scuotono, oltre al Tigray, anche gli stati dell’Oromia, addirittura dell’Ogaden, o ancora dell’Amhara. Proprio nell’Amhara, secondo stato del paese per dimensioni ed importanza, vi è una ribellione armata che dura dal 2023 e sempre più sta incidendo come un vero e proprio maglio sulle fibre del Governo e dell’Esercito Federale: con la loro avanzata le milizie FANO hanno ormai sotto il loro controllo più di metà dei distretti, oltre ad altre aree esterne, e sono inoltre riuscite a catturare, con relativo e non poco armamento, molti militari etiopici che avrebbero dovuto contrastarli, a tacer di quelli addirittura passati di propria sponte dalla loro parte. Le condizioni umanitarie nella regione sono molto gravi, stando a vari osservatori persino più gravi che nel Tigray dove, in modo discontinuo e disordinato, e lontano dalla sufficienza, un po’ d’aiuti nel tempo sono comunque arrivati (e qui sorvoliamo sul tenore, e spesso sulle reali motivazioni, che si celano dietro a certi aiuti, perché s’aprirebbe un capitolo infinito: si pensi a cosa spesso giunge, spacciato per aiuto umanitario ma ben lontano dall’esserlo, come armi o munizioni, o a chi vanno a finire in mano, e all’uso clientelare che poi ne va a fare); non sono mancati neppure, tra i vari scontri avvenuti, dei fatti piuttosto sanguinosi, come a Bakrat nel marzo scorso, con le truppe federali che hanno colpito i civili, donne per prime, in base al principio per cui “se la guerriglia è il pesce e il popolo la sua acqua, allora togliendo l’acqua il pesce muore”. Così diceva infatti Mao, parlando del rapporto essenziale tra popolo e movimenti di guerriglia; e così gli replicava il famigerato Efrain Rios Montt, ex presidente guatemalteco, su come spezzare quel rapporto, semplicemente togliendo al pesce l’acqua che gli era necessaria per vivere. Tuttavia, malgrado le gravi responsabilità di cui si sono coperte le truppe federali, con un bilancio tra i civili ben più grave di quanto visto altrove, tanto da far gridare vari osservatori ad una vera e propria strage degli Amhara da parte del Governo Federale, i FANO continuano ad avanzare; ancor più se pensiamo che per reazione proprio tali continui episodi contribuiscono, e non poco, alla loro popolarità di liberatori e patrioti. Il loro obiettivo, e non lo nascondono, è d’abbattere il Governo Federale e certamente, se consideriamo anche la contemporanea azione d’altri gruppi militari attivi nel resto del paese, impegnati nella lotta contro il potere centrale, le possibilità che gli assestino un duro logoramento non sono certo così remote. Intorno allo scorso anno vi erano stati contatti tra emissari di Addis Abeba e dei FANO, ad un certo punto arenatisi senza aver risolto la grave situazione regionale; che da allora è persino peggiorata, estendendosi anche ad altre aree, probabilmente alimentando anche lo spirito di lotta degli altri movimenti in lotta col potere centrale, come l’ONLF in Oromia. Anche in questo caso, e soprattutto riguardo a certi ultimi clamorosi successi riportati dai FANO, da Addis Abeba sono state lanciate accuse su una mano esterna che li avrebbe alimentati; e l’indice è stato puntato, neanche a farlo apposta, su Asmara, ormai adottata a facile capro espiatorio degli annosi problemi interni etiopici. Tuttavia questo approccio, come già abbiamo raccontato in precedenza, è da considerarsi irresponsabile e potenzialmente foriero di più gravi conflittualità, a cui probabilmente è proprio quanto Addis Abeba e certi particolari gruppi d’interesse dalla forte e notoria influenza sulla sua linea politica mirano ad ottenere. Tale approccio, indubbiamente autolesionista per l’Etiopia e per l’intera regione, non fa l’interesse di nessuno dei popoli che vi abita e risponde unicamente alle ambizioni di quei gruppi, comodamente ubicati all’estero, dall’Europa al Nord America e non solo, che fin troppo spesso son soliti avvalersi di un paese per cavalcarlo come ariete in Africa e in altre parti del “Sud del Mondo”. L’Africa non ha bisogno di questi gruppi d’interesse, politici ed economici, per i quali le vite degli africani servono unicamente ad arricchire il proprio potere e i propri guadagni. L’Eritrea, che della nociva influenza neocoloniale di questi gruppi s’è sbarazzata fin dal primo giorno della sua Indipendenza, di cui presto ricorrerà l’Anniversario, e che in tutti questi anni ha continuato efficacemente a combatterli, ne è il più chiaro esempio: un paese africano può essere veramente libero e svilupparsi soltanto con una piena sovranità, pieno diritto dei suoi cittadini. Proprio per questo, però, sempre per quei gruppi d’interesse, e per la politica di quei paesi su cui hanno ancora un’influenza, paesi come l’Eritrea diventano il puntuale capro espiatorio da punire, diffamare, sanzionare e bandire internazionalmente: proprio come sta avvenendo, e forse continuerà ad avvenire, per gli odierni contrasti che oggi dilaniano l’Etiopia, di cui tuttavia Asmara non ha alcuna responsabilità. Semmai, Asmara avrebbe interesse a coltivare, con un’Etiopia finalmente in pace al suo interno e coi suoi vicini, un rapporto fruttuoso come già altre volte tentò in passato; e, sempre come dimostrato dalle esperienze passate, sarebbe lieta pure di darle un aiuto per sanare molte delle sue ormai croniche difficoltà. E’ un momento, quello, che prima o poi arriverà.
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E’ nato ad Asmara il sodalizio artistico tra il sottoscritto e l'amico Yonas.
Insieme, con mini documentari autoprodotti, vi racconteremo la nostra Eritrea in attesa di un vero e proprio documentario sul "fenomeno immigrazione" che arriverà a breve. Sarà un progetto importante per sottolineare ancora una volta che non è proprio come ce l'hanno sempre raccontata ma, soprattutto, che non esiste affatto nessuna "accoglienza umanitaria". Ecco, semmai nutriste qualche dubbio sulla narrativa dei media mainstream, il nostro documentario ve ne fornirà molti altri. Ad majora! di Marilena Dolce
Un caso “anomalo”: l’Eritrea, unico paese in Africa da sempre senza Usaid. Che per l’Africa l’aiuto occidentale non funzionasse era cosa nota da tempo. Tuttavia la scossa forte è arrivata dal presidente americano Donald Trump che, all’inizio del mandato, ha detto di voler far pulizia nel mondo degli aiuti. E così è stato. Prima vittima eccellente Usaid, organizzazione americana per la cooperazione internazionale, fondata nel 1961 da John F. Kennedy, presente in più di cento Paesi. Nel 2024 Usaid, aveva un budget preventivato di circa 42,8 miliardi di dollari. Lunedì 10 marzo il segretario di stato Marco Rubio ha dichiarato che in sei settimane l’amministrazione Trump ha tagliato l’83 per cento di Usaid, passando la restante quota al dipartimento di Stato. “Eliminati 5.200 contratti costati miliardi di dollari, che non hanno servito, e in alcuni casi hanno persino danneggiato gli interessi nazionali degli Stati Uniti”, ha scritto su X il Segretario di Stato. Le motivazioni ufficiali fornite dall’amministrazione riguardano l’eliminazione di sprechi e l’obiettivo di utilizzare in modo più efficiente i fondi pubblici, per promuovere gli interessi americani. In termini di occupazione, benché non ci siano dati certi, si ritiene che negli Stati Uniti siano stati licenziati a Washington 1.600 funzionari Usaid, più altri 8.000 nell’indotto e 5.000 all’estero. Altri tagli di fondi americani per organizzazioni attive in Africa, coinvolgono l’International Development Association (IDA), l’African Development Found (AfDf) e il World Food Program (WFP). Così, mentre il terremoto che ha travolto Usaid è ancora in corso, il Financial Times pubblica un articolo sul “paese che ha cacciato Usaid vent’anni fa”, ovvero l’Eritrea. Due decenni dopo sono altre infatti le nazioni africane a dover fare i conti con il taglio degli aiuti. Ma come se l’è cavata l’Eritrea che l’anno scorso è stata l’unica nazione africana a non ricevere aiuti dagli Stati Uniti? Nello stesso articolo il Financial Times riporta stralci di un’intervista rilasciata dal presidente Isaias Afwerki prima dell’espulsione, nel 2005, di molte ong e agenzie UN “Se hai bisogno di qualcosa e nessuno te lo dà”, dice il presidente, “ti sforzi ancora di più per farcela da solo”. E proprio questo sforzo per far da sé, è la via indicata adesso da molti intellettuali e politici africani, dopo il taglio degli aiuti. Dice Arikana Chihombori-Quao, ex ambasciatrice dell’Unione Africa negli Stati Uniti, riferendosi al lavoro di Usaid e in generale delle Ong in Africa, che sono “lupi travestiti da agnelli”. Sulla carta, spiega, tutto sembra buono, poi però, a distanza di tempo, quali sono i risultati? Se si guardano i due campi dove maggiormente operano, sanità e istruzione, in nessuno dei due si sono visti miglioramenti. Nel marzo 1998, poco prima dello scontro con l’Etiopia, il Los Angeles Times intervista il presidente dell’Eritrea, allora considerato dall’America un esempio di eroe combattente, un politico visionario, “l’onda del futuro” per la “storia di successo”, del suo Paese. Così si legge nell’articolo che ricapitola come l’Eritrea, avesse combattuto da sola, unita e solidale, cementando etnie e religioni nell’ideale di nazione. Fin dall’inizio l’Eritrea si pone su un piano diverso, cominciando proprio dal rifiuto degli aiuti. Nonostante il paese dopo trenta lunghi anni di combattimenti, dal 1961 al 1991, sia distrutto, Isaias dice subito che l’aiuto non deve far parte nel loro vocabolario. “Le elemosine della comunità internazionale per avere cibo e quant’altro, ti paralizzano”, spiega nell’intervista, “costringendoti a vivere per sempre di aiuto, pensando che la comunità internazionale sia responsabile per te”. La strada “anomala” che l’Eritrea imbocca fin dall’inizio è quella della self reliance, del far da sé, come ricordato ora dal FT. L’aiuto, ripete Isaias, è una droga che alla fine ti blocca. Al massimo dovrebbe essere un’aspirina, un farmaco temporaneo di cui non abusare. “Meglio prendere una medicina amara per curare la malattia piuttosto che sviluppare una dipendenza”, concludeva il presidente Isaias già nel 1998. Parole che tanti anni dopo ritornano nei commenti sulla chiusura di Usaid, “che l’Africa non riceva più aiuti in un colpo solo o abbia il metadone, questo è ora il problema”, dice al FT il funzionario di un istituto finanziario. Mentre Ngozi Okonjo-Iweala, direttrice dell’Organizzazione generale del commercio ed ex direttrice generale della Banca Mondiale, lancia un appello perché i paesi coinvolti ricevano finanziamenti ad interim, per evitare il vuoto soprattutto nell’assistenza sanitaria. Sollecitando comunque i paesi africani ad assumersi le proprie responsabilità. L’aiuto esportato finora in Africa è l’opposto della partnership, delle relazioni win-win, degli accordi tra pari.E alla partnership l’Eritrea ha sempre creduto. Ora, infatti, è in prima linea con i progetti del Piano Mattei lanciato a Roma, durante Italia-Africa nel 2024. Se da un lato non spetta ad altri, disse a suo tempo il presidente Isaias, dettare gli obiettivi per il nostro Paese, allo stesso tempo siamo pronti a sederci a un tavolo per stabilire con i partner, capacità, risorse e competenze necessarie per la crescita del Paese.Nel 2010, durante una lunga intervista al settimanale italiano Panorama, sempre il presidente Isaias, spiegò ancora una volta il punto di vista eritreo sugli aiuti. “Noi vogliamo costruire una nazione, un’economia, un governo. Se vogliamo costruire scuole, strade, servizi, dobbiamo avere un piano per ogni settore e per ogni regione del Paese. Nessuno può dirci di abbandonare i nostri programmi per seguire i loro…molte Ong hanno detto che dovevano realizzare i loro programmi a prescindere dai nostri. Per questo se ne sono andate”. Sulle agenzie Onu, Isaias è, fin da allora, ancora più esplicito, “Quanti così detti esperti sono impiegati da queste agenzie in Africa? E quanto denaro è speso da tali agenzie? È devastante perché dove sono loro non è possibile sviluppare le capacità e le istituzioni locali. C’è bisogno di addestrare i tecnici locali ma non è possibile perché i tecnici arrivano dall’estero. Si potrebbe impiegare manodopera locale invece si assume gente da fuori…”. A pensarla così è anche l’economista Dambisa Moyo che nel 2009 scrive Dead Aid, libro in cui spiega perché gli aiuti occidentali non fanno bene all’Africa. “Perché”, chiede, “la maggior parte dei paesi dell’Africa sub sahariana non esce dal circolo vizioso corruzione, malattia, povertà e dipendenza dagli aiuti, nonostante sia l’area che ne riceve di più, almeno dal 1970”. La risposta è che la povertà dei paesi africani è causata proprio dagli aiuti. Il concetto di quid pro quod è applicato agli aiuti. I Paesi che li ricevono devono spenderli per merci e servizi provenienti dai paesi donatori. Anche il personale arriva dai paesi donatori, persino quando nel paese povero esistono persone adatte all’incarico. Il donatore può scegliere l’ambito e il progetto d’investimento, inoltre gli aiuti arrivano purché il beneficiario accetti una serie di misure politiche ed economiche che piacciono al donatore. Torniamo all’articolo del FT che si chiede come sia andata all’Eritrea che ha messo in pratica il suo “cocciuto spirito di autosufficienza”. La risposta è che “se l’è cavata bene negli ultimi due decenni, come altri Paesi che hanno beneficiato di miliardi di generosità da parte dei donatori”. Che l’Eritrea abbia percorso finora una strada in salita, ricevendo sanzioni anziché aiuti è un dato. Come un dato sono i traguardi raggiunti, cominciando da quelli indicati per il millennio. E il FT riprende tali traguardi, aspettativa di vita di circa 68 anni, uguale al Ruanda, che “riceve un miliardo” dai donatori. “Secondo la Banca Mondiale più eritrei hanno accesso all’elettricità rispetto alle persone in Uganda, che nel 2022 ha ricevuto 2,1 miliardi di dollari rispetto ai soli 55 milioni di dollari dati all’Eritrea dalle agenzie UN. Aggiungerei i dati sull’istruzione e sulla sanità.Nel 1991, prima dell’indipendenza, in tutta l’Eritrea c’erano 471 scuole frequentate da 220 mila ragazzi mentre l’unica Università era ad Asmara. Oggi ci sono 1.540 scuole frequentate da 860 mila studenti (su 4 milioni di abitanti) e 7 college nei diversi capoluoghi. La scuola è gratis per tutti, a tutti i livelli, uguale per maschi e femmine. Quanto alla sanità, le vaccinazioni sono diffuse in tutto il Paese. Nel 1991 l’incidenza dell’AIDS era del 4,5% oggi è dello 0,9%. Migliorata la salute delle donne in gravidanza, la sicurezza del parto e la mortalità infantile, risultati raggiunti grazie ai molti ambulatori sorti sul territorio. Per terminare, una riflessione sul rapporto tra aiuti e politica, così come raccontato da S.W Omamo, nel libro At the Center of The World in Ethiopia che scrive “ciò che ha visto, sentito e fatto” come direttore del programma alimentare mondiale UN, WFP dal 2018 al 2021. È lui che spiega le false narrazioni a beneficio della comunità internazionale e dei media messe in atto da politici infiltrati nella stessa organizzazione di stanza ad Addis Abeba. A loro è stato permesso, durante la prima fase di scontro in Tigray, tra governo etiopico e Tplf, di raccontare la sofferenza della gente (obiettiva) con dati falsi. In questo modo la fame e la carestia avrebbero potuto premere per un accordo tra governo e Tplf. Famoso il tweet di Samantha Power, (@PowerUSAID, account non più esistente…) in cui afferma che nel Tigray 900 mila persone sono sull’orlo della carestia, utilizzando dati provvisori del WFP. Leggendo i commenti social sulla chiusura Usaid, oltre all’inevitabile “preoccupazione” internazionale, quello che emerge è lo spirito di rivalsa dell’Africa, che forse con questa scossa seguirà la strada “anomala” eritrea che da sempre ha evitato la carità pelosa, più interessata al benessere di chi dà rispetto a quello di chi riceve. Marilena Dolce, giornalista. Da più di dieci anni viaggio verso il Corno d'Africa e da altrettanti scrivo ciò che vedo. Soprattutto per Eritrea ed Etiopia ma non solo. Dal 2012 scrivo per EritreaLive, notizie e racconti in diretta dall'Eritrea. Perchè per capire il mondo bisogna uscire dal proprio quartiere, anche solo leggendo. JEFF PEARCE
27 MAR 2025 Protesta eritrea Oberuzwil, Svizzera, 2 settembre 2023 Alla Brigade Nhamedu: "Odio ciò che rappresenti, che è una vera e propria perversione dell'idea di opporsi al potere. Perché tu non ti opponi al potere. Ti sei allontanato da quel potere, hai messo radici in un bel posto accogliente in Europa o Nord America e poi hai attaccato le persone ai festival dove naturalmente non si aspettano di doversi difendere. Odio la tua falsa crociata e mi rifiuto di temere ciò che è per sua natura spregevole e codardo. E non dovrebbe farlo nessun altro". ** È giunto il momento di parlare della follia che affligge la diaspora eritrea. E della copertura positiva e cinicamente distorta che un gruppo terroristico ottiene sui siti di notizie occidentali. Quel gruppo si chiama Brigade Nhamedu e, da qualsiasi punto di vista oggettivo, è composto da psicopatici. Non lo dico alla leggera. Ma come altro chiameresti i membri di un movimento che attacca deliberatamente le persone alle feste pubbliche e ha provocato incidenti violenti in Svezia, Germania, Canada e Israele (ne parleremo più avanti). Che tratta la violenza come il suo modus operandi e la celebra. Peggio ancora, le operazioni dei media occidentali che hanno trattato il Tigray People’s Liberation Front (TPLF) come eroi durante la sua guerra con le forze federali etiopi ora considerano Brigade Nhamedu i nuovi coraggiosi sfavoriti, anche se non sempre li identificano per nome, di solito li chiamano semplicemente “manifestanti”. Ci sono due ragioni per questo spudorato sostegno. Per chi non lo sapesse, è un segreto di Pulcinella che molti dei ranghi della Brigata Nhamedu sono composti da zelanti fanatici del TPLF fuggiti dall'Etiopia e falsificati le loro richieste di asilo fingendosi eritrei. Solo di recente le autorità occidentali hanno scoperto la truffa. In parte perché i membri del TPLF non possono fare a meno di vantarsi sulle piattaforme dei social media e qualche idiota ha tradito il gioco. Il Daily Mail è stato troppo ignorante o troppo pigro per fare le dovute ricerche per confermare che la maggior parte dei falsi rifugiati erano di origine tigraya, chiamandoli semplicemente etiopi. L'altro motivo è che la narrazione della Brigata Nhamedu viene spacciata da alcuni degli stessi giornalisti senza scrupoli che per primi hanno mentito sul TPLF. Ecco come un articolo dell'Associated Press ha capovolto la sceneggiatura nel 2023 e ha praticamente trasformato una storia sui teppisti ai festival culturali nel Boston Tea Party: "Auto in fiamme, scontri violenti, decine di persone arrestate. Mentre uno dei paesi più repressivi al mondo celebra 30 anni di indipendenza, i festival organizzati dalla diaspora eritrea in Europa e Nord America sono stati attaccati da esuli che il governo eritreo liquida come "feccia dell'asilo". L'articolo è di Cara Anna. E in questo momento, gli etiopi che leggeranno questo articolo staranno roteando gli occhi e borbottando: Certo. Perché è facile riconoscere Cara Anna: è lei quella con i pantaloni costantemente in fiamme per le falsità e le distorsioni che ha scritto. Ma ora la Brigata Nhamedu ha esagerato e ha scoperto le sue carte. Un articolo dell'AP scritto da Kirsten Grieshaber nota che la polizia in sei stati tedeschi ha condotto delle incursioni e ha arrestato 17 sospettati. In Germania, non stanno scherzando. Considerano la Brigata Nhamedu un gruppo terroristico, e lo è, poiché "ha coordinato violente rivolte ai festival dell'Eritrea a Giessen il 20 agosto 2022 e il 7-8 agosto 2023, nonché il seminario di un'associazione eritrea a Stoccarda il 16 settembre 2023. Numerosi agenti di polizia sono rimasti feriti durante gli eventi, alcuni dei quali gravemente, e decine di manifestanti sono stati arrestati". Ecco cosa è davvero affascinante. Grieshaber nasconde il fulcro. Ci vuole fino al paragrafo 7 per arrivare a quella che è probabilmente la vera ragione per cui le autorità tedesche si sono abbattute sulle case in Assia, Baviera e altre località. Paragrafo 7. È lì che leggi questo: "I pubblici ministeri affermano anche che alcuni membri dell'associazione considerano legittima la violenza contro le istituzioni statali tedesche e gli agenti di polizia". Anni fa, ho previsto che alcuni esuli del TPLF si sarebbero trasformati in un sindacato del crimine organizzato o in un'organizzazione terroristica. Sembra che avessi ragione almeno in parte, ma non ne traggo alcun piacere. Ho studiato le gang, ho scritto un intero libro su di loro, che è stato persino usato come libro di testo di criminologia, e ho studiato terrorismo e insurrezioni per ottenere il mio master. Stavo già studiando alcune di queste cose comunque per il mio libro, Prevail. E posso assicurarti che la situazione diventerà ancora più brutta. Se i pazzi in Germania pensano che gli obiettivi tedeschi siano legittimi, significa che le cellule della Brigata Nhamedu ovunque potrebbero attaccare istituzioni governative e obiettivi civili ordinari, oltre a commettere omicidi. È folle perché il terrorismo nella maggior parte dei contesti è controproducente. E lasciatemi essere chiaro. Le mie convinzioni sono più vicine a quelle di Frantz Fanon, che era disgustato dalla violenza ma ne vedeva la necessità in una lotta rivoluzionaria. I gruppi di miliziani Amhara conosciuti collettivamente come “Fano” in Etiopia stanno combattendo le forze federali oggi perché la loro gente sta subendo una pulizia etnica; non puoi negoziare con un dittatore che commette un genocidio più di quanto Netanyahu non tratti in buona fede con i palestinesi: continua semplicemente a bombardarli a più non posso. E così Abiy Ahmed continua gli attacchi dei droni contro i civili. E mentre gli etiopi nella diaspora ritwittano meme e hashtag a sostegno di Fano, nessuno è così sconsiderato o irresponsabile da suggerire di attaccare gli etiopi filogovernativi nelle loro comunità in America o in Europa. La sola idea mortificherebbe qualsiasi sincero sostenitore di Fano. Proprio come gli studenti che sostenevano i palestinesi non erano violenti alla Columbia, per quanto Fox News abbia cercato di dipingerli diversamente. Le tattiche di resistenza sono sì, tecnicamente terrorismo. La Resistenza francese è iniziata un anno dopo che i nazisti si erano sistemati a Parigi; i suoi agenti hanno sparato a un membro dell'esercito tedesco in una stazione della metropolitana, e quel povero idiota non si era nemmeno meritato quell'esecuzione. Ma un colpo doveva essere sferrato. C'era una buona ragione per cui la Resistenza etiope aveva pianificato e portato a termine l'attacco con granate al maresciallo Graziani durante l'occupazione italiana dell'Etiopia, anche se si concluse con il famigerato massacro di Addis Abeba. Tali attacchi sconvolgono gli occupanti, li turbano e li fanno provare paura per una volta. Ma i terroristi della Brigata Nhamedu non stanno attaccando un regime in patria. Non vivono in Eritrea; vivono nelle città occidentali, godendo della relativa stabilità e libertà degli immigrati. È abbastanza spregevole che pensino che sia accettabile continuare con la violenza una faida politica in una nazione diversa, ma ora vogliono ricompensare l'ospitalità di quella nazione con la violenza. Sarà stupidamente tragico e controproducente. Nessuno si riversa nella supremazia bianca dopo che un maniaco ha investito con la sua auto i dimostranti e ucciso delle persone. Nessuno si è schierato dalla parte dei terroristi baschi o palestinesi negli anni '60 e '70 perché la loro distruzione ha naturalmente inorridito l'opinione pubblica europea che badava ai fatti suoi. Bisogna essere completamente squilibrati per arrivare al punto in cui si commette violenza al solo scopo di "sensibilizzare", cioè di attirare l'attenzione. Ma sì, lo psicopatico moderno di oggi può indicare un precedente. Gli americani odiano la loro assistenza sanitaria e le infrastrutture assicurative, e per una buona ragione. Da questi vaghi risentimenti, in qualche modo è diventato socialmente accettabile in alcuni circoli tifare per Luigi Mangioni, che presumibilmente passeggiava fuori da un Hilton Hotel nel centro di Manhattan a dicembre e ha sparato a morte a un dirigente assicurativo, Brian Thompson. Un fanatico ritiene che il fine giustifichi i mezzi. "Ehi", risponde il fanatico alla condanna naturale, "non importa se attacco o uccido queste persone, stai parlando di me". Di sfuggita, dico solo a Brigade Nhamedu che sì, sono pienamente consapevole che potresti provare ad uccidermi. Ho 62 anni. Non riesco più a correre veloce o lontano. Ora devo alzarmi nel cuore della notte per andare in bagno, ma a mio avviso, il tuo ego è più fragile della mia vescica. Tuttavia, non farò finta di essere un macho spavaldo del tipo "Ehi, vieni a prendermi". Dico solo che se lo facessi, potrebbe essere una grande mossa di carriera per me perché uno scrittore martirizzato spesso ottiene un aumento di lettori. Ti odio. Odio ciò che rappresenti, che è una vera e propria perversione dell'idea di opporsi al potere. Perché tu non ti opponi al potere. Ti sei allontanato da quel potere, hai messo radici in un bel posto accogliente in Europa o Nord America e poi hai attaccato le persone ai festival dove naturalmente non si aspettano di dover difendersi. Odio la tua falsa crociata e mi rifiuto di temere ciò che è per sua natura spregevole e codardo. E non dovrebbe farlo nessun altro. Quindi, esaminiamo la tua violenza, la tua codardia e come intendi continuare questa follia. Il contesto Non c'è abbastanza spazio o tempo qui per scavare a fondo nella sordida e triste storia dell'Eritrea. E non importa cosa scrivo qui, farà incazzare qualcuno. Peccato. È un fatto storico che l'imperatore Menelik II abbandonò gli abitanti dell'Eritrea dopo la battaglia di Adua. Ora, se sei un fan di Menelik come lo sono tante persone, puoi giustificarlo in vari modi. Il paese stava ancora cercando di far fronte alla carestia diffusa e alle malattie del bestiame, e il suo esercito era esausto e voleva tornare a casa. La brutta verità era che se Menelik fosse riuscito a riprendersi tutta questa terra, questo avrebbe potuto invitare giocatori coloniali più forti in futuro a provare a rubarla di nuovo. L'Etiopia non era una potenza marittima e non lo era mai stata. La sua decisione di non cacciare gli italiani dall'Eritrea non fu certamente gradita a tutti. Ras Alula voleva "cacciare gli italiani in mare". Non ebbe la sua occasione. Ma pensate a tutte quelle persone dall'altra parte della linea che si aspettavano che Menelik li liberasse. Sarebbero rimasti amaramente delusi. A nessuno piacerà nemmeno che l'imperatore Haile Selassie non faccia bella figura quando, dopo la seconda guerra mondiale, fece attivamente azione per assorbire l'Eritrea nel suo regno. Ho scritto di tutto questo nel mio libro, Prevail, e il mio defunto amico, l'ambasciatore Imru Zelleke, era lì e ha scritto nelle sue memorie, A Journey, di come la nuova costituzione per compiacere l'ONU, che avrebbe dovuto dimostrare che l'Etiopia era "degna" di prenderne il controllo, fosse una farsa completa. L'Etiopia si mise a smantellare tutti i segnali in erba di una democrazia autoctona e di una stampa libera, innescando quella che sarebbe stata una delle più brutte e lunghe insurrezioni nella storia africana. Quando il TPLF emerse come favorito della coalizione che combatté il Derg marxista, uno dei suoi alleati chiave fu, a sorpresa, un certo Isaias Afewerki. L'Eritrea seguì la sua strada dopo un referendum nel 1993, ma nel maggio del 1998 scoppiò una disputa di confine tra la milizia tigrayana e i soldati eritrei in un punto chiamato Badme. Sebbene sia durata solo un paio d'anni, la guerra è stata incredibilmente amara e sanguinosa, con migliaia di morti. Nel 2002, una commissione internazionale per i confini ha dichiarato che Badme apparteneva all'Eritrea. L'Etiopia sotto Meles ha scelto di ignorare questa sentenza e si è tenuta il villaggio. La concessione chiave che Abiy Ahmed ha fatto nel tentativo di normalizzare le relazioni con l'Eritrea nel 2018 è stata quella di rinunciare finalmente a Badme. La storia degli ultimi 30 anni è così politicizzata che troverai difficile rintracciare anche una sola storia dell'Eritrea che non sia macchiata dall'inquietante influenza del propagandista del TPLF preferito dalla Tufts University Alex de Waal e/o della sua cerchia. È praticamente in ogni libro recente. E se giornalisti e reporter diventati storici non parlano con de Waal, stanno facendo pellegrinaggi da Martin Plaut, cavalcando ancora un'onda di credibilità per aver coperto l'Africa per la BBC. Eppure persino Plaut ha dovuto riconoscere che il TPLF ha attaccato per primo Asmara, riferendo il 14 novembre 2020 che "un complesso residenziale nel complesso residenziale Sembel, che ospita circa 1.200 famiglie nel sud-ovest della città, avrebbe ricevuto un attacco missilistico. Si dice che ci sia un blackout in città, con alcune persone in fuga dall'area urbana". È interessante notare che questa storia ora manca dagli archivi di Martin, e Martin è un accumulatore seriale online che di solito conserva tutto. Anche il post aggregato che ho scritto anni fa sugli storici che sbagliano la storia etiope è ancora archiviato sul suo sito. Ma non l'attacco missilistico. Se provi anche solo a rintracciare la storia attraverso i suoi X link, ti porta a qualche strano sito di spam di gioco d'azzardo. Hmm. Ma andiamo avanti fino a oggi. Abiy è diventato un vero Idi Amin, massacrando Amhara e perseguitando Gurage, Afar e altri popoli, incarcerando giornalisti e attivisti e cancellando i quartieri storici di Addis Abeba per il sogno megalomane di ricreare la capitale con scatole di vetro luccicanti. L'Eritrea, un tempo alleata, ora è nemica perché il Re Pazzo ha deciso di volere una proprietà fronte oceano. Ma come ho appena spiegato, la pretesa "storica" dell'Etiopia su qualsiasi parte del Mar Rosso affonderà nella sabbia sotto un esame appropriato. Non importa se si sostiene Isaias o no, è assurdo. Ora, se si vuole parlare di un accordo di cooperazione per l'accesso al mare, è un'altra cosa, ma il pestaggio in stile Trump ha probabilmente guadagnato, sospetto, solo uno sbadiglio in stile canadese da Asmara. Se sei fortunato. Non è davvero una buona idea far incazzare le persone che ti hanno appena aiutato a vincere una guerra e che sanno come funziona il tuo esercito. Non ho alcun amore o interesse particolare per il regime eritreo, e ogni volta che un troll del governo mi sfida su X, il modo migliore per zittirlo è ricordargli che il loro paese non ha avuto elezioni libere da decenni. Ma non ho nemmeno intenzione di falsificare la storia e fingere che l'Eritrea non abbia ricevuto un trattamento ingiusto in passato. E qualunque sia la sua politica interna al momento, ciò non significa che i guerrafondai schiumanti alla bocca dei think tank di Washington siano giustificati nel cercare di provocare un nuovo conflitto nel Corno. Come per gli etiopi, come per i birmani, i turchi, gli iraniani, i curdi, ecc., le mie simpatie saranno sempre per le persone, non per un regime o uno stato o un'ideologia. Cosa c'entra tutto questo con la Brigata Nhamedu? Molto, a quanto pare. Perché questo gruppo terroristico è utile in un senso più ampio ai media occidentali, che non riescono a liberarsi dal ruolo di strumento per gli interessi neocoloniali europei e americani. Come ho scritto solo un paio di settimane fa, queste operazioni mediatiche hanno improvvisamente deciso collettivamente che era giunto il momento di saltare su e giù di nuovo e ricordare a tutti che i Tigrini erano in pericolo, i Tigrini erano in pericolo! Al diavolo gli Amhara che vengono assassinati ogni giorno, le loro vittime "degne" scelte avevano bisogno di attenzione. A causa del folle tintinnio di sciabole di Abiy. Ciò significa che ogni volta che la Brigata Nhamedu colpisce un festival eritreo, come le Camicie Brune che distruggono le vetrine dei negozi ebrei, un reporter dell'AP può inserire questo riassunto stereotipato: "I gruppi per i diritti umani descrivono l'Eritrea come uno dei paesi più repressivi al mondo. Da quando ha ottenuto l'indipendenza dall'Etiopia tre decenni fa, la piccola nazione del Corno d'Africa è stato guidato dal presidente Isaias Afwerki, che non ha mai tenuto elezioni". Vuoi chiarire il tuo punto di vista? Picchia un vecchio Il problema è che persino la potente AP non riesce sempre a fare un lavoro di facciata su ciò che il gruppo sta facendo. In un articolo del 2023 più diretto, David Keyton ha scritto questo sulla Brigata Nhamedu che ha attaccato un festival in un sobborgo di Stoccolma: "I manifestanti hanno incendiato stand e veicoli, facendo salire il fumo nel cielo. Il quotidiano svedese Expressen ha riferito che fino a mille manifestanti hanno marciato verso il luogo del festival, spingendo oltre i cordoni della polizia e usando bastoni e pietre come armi". Non si tratta semplicemente di terrorismo, è fascismo. I nazisti hanno fatto cose del genere. Le camicie nere di Mussolini andavano in giro a picchiare turisti, rivali politici, persino un diplomatico americano, nei primi anni '30. In un articolo piacevolmente equilibrato sull'attacco al festival di Toronto del 2023, Katherine DeClerq di CTV News ha intervistato testimoni e parenti delle persone aggredite. Il suo articolo merita di essere citato per esteso: Danait Mehreteab ha detto a CTV News Toronto che suo padre sessantenne stava aiutando a preparare il festival e stava distribuendo magliette dei volontari quando un gruppo di manifestanti "è sceso" su Earlscourt Park, vicino a Caledonia Road e St. Clair Avenue West sabato. "Le zie, come le madri, cucinavano e preparavano il cibo. (I manifestanti) hanno gettato tutto il cibo, li hanno spinti a terra, hanno minacciato di bruciare i loro vestiti, hanno buttato giù le recinzioni", ha detto. "Questo è quello che stava succedendo quando mio padre ha sentito, 'è lui, prendetelo', e poi ha detto che lo avevano colpito alla testa con una barra di metallo e avevano continuato a picchiarlo mentre era a terra". Mehreteab ha detto che suo padre ha perso conoscenza ed è stato "lasciato per morto". Ha dovuto ricevere 12 punti di sutura sulla parte superiore del cranio e ha riportato una frattura alla spina dorsale. Questo è uno dei pochi articoli che riesco a trovare in cui sentiamo effettivamente le vere vittime, non i portavoce del gruppo terroristico. Eppure i delinquenti hanno comunque ottenuto ciò che volevano. Grazie al loro attacco a persone innocenti e persino a poliziotti, le autorità hanno revocato il permesso del parco per il festival eritreo. In sostanza, premiando il caos. Devo tornare al punto sulla codardia. È un codardo che attacca le persone quando meno se lo aspettano, ascoltando musica, mangiando cibo, godendosi la loro cultura, divertendosi e facendosi i fatti propri. Non ti piace ciò che il festival "rappresenta"? Tieni duro. Ma questo non è abbastanza per la Brigata Nhamedu. Chiunque altro avrebbe semplicemente fatto un picchetto all'ambasciata o avrebbe provocato un console o un ambasciatore durante un discorso alla camera di commercio o qualcosa del genere. Questi teppisti attaccano i festival culturali proprio perché sono vulnerabili, perché la gente comune può essere terrorizzata. In Israele, quello stesso anno, si sono fatti più audaci e hanno scatenato una rivolta quando l'ambasciata eritrea ha organizzato un evento per celebrare l'indipendenza del paese... cosa che aveva pienamente il diritto di fare. Questo è il punto delle ambasciate. Il codice della diplomazia è che la tua legazione è sacrosanta, che i tuoi inviati, nel bene o nel male, dovrebbero godere delle cortesie e della protezione della nazione ospitante. Ma dopo che Al Jazeera ha finito con il familiare riassunto stereotipato dei mali dell'Eritrea, ci è stato detto nella sua copertura che i manifestanti "hanno sfondato le barriere della polizia mentre gli ufficiali sembravano impreparati a numeri così grandi, e i video hanno mostrato vetri rotti di auto della polizia e di altre persone oltre a danni ai negozi vicini. Il locale è stato anche vandalizzato con sedie e tavoli distrutti.” "Più di 100 persone, tra cui diverse decine di poliziotti, sono rimaste ferite durante gli scontri" tra gruppi rivali. Non sorprende che Al Jazeera non abbia citato nella storia sostenitori filogovernativi. E tutta questa cattiveria ha appena dato a Benjamin Netanyahu un'altra scusa per promettere che avrebbe espulso i migranti africani. Perché le fazioni eritree Questo è ciò che Martin Plaut sta difendendo. Ha scritto un profilo nauseantemente favorevole alla Brigata Nhamedu sul suo sito web ed è riuscito in qualche modo a non menzionare una volta gli attacchi dei terroristi alle persone. Il più vicino che è arrivato a questo è stato suggerire che l'organizzazione è stata formata dopo che i suoi criminali hanno iniziato una rivolta a Giessen, in Germania, nel 2022. La sua cronologia non ha importanza. Ricorda che le autorità tedesche ritengono il gruppo direttamente responsabile di ciò che è accaduto a Giessen nell'agosto del 2022. Ma credo che la sua nascita concettuale risalga a prima, e che Martin Plaut sia il patrigno spirituale e intellettuale di questo gruppo terroristico. Ad aprile del Nel 2019, ha tenuto un discorso a Londra agli attivisti eritrei, dicendo loro: "I giornalisti sono organismi unicellulari molto semplici. Cercano cose, le divorano, ma sai, devi trovare qualcosa da divorare... Dobbiamo fare notizia. E questo non è così difficile come sembra, ma è davvero importante... Una manifestazione fuori dall'ambasciata eritrea non è una notizia. Potrebbe farti sentire meglio, ma è successo centinaia di volte, ma non è una notizia [sic]". Se tutto questo fosse vero, come ho fatto notare agli indignati etiopi nel 2021 quando pensavano di aver trovato una specie di pistola fumante e avevano riempito Twitter e Facebook con questa clip video. Ho gemito e borbottato: Che problema! Mi sbagliavo, ma non per le loro ragioni. Ciò che nessuno poteva prevedere, probabilmente nemmeno lo stesso Martin, erano i risultati a lungo termine del consiglio improvvisato che ha dato dopo. Agitando il dito contro il suo pubblico, ha detto loro: "Non andate a fare un'altra manifestazione fuori dall'ambasciata eritrea a meno che non la bruciate". Il suo pubblico ha pensato che fosse esilarante. "Cosa che non ho detto", ha aggiunto rapidamente con un sorriso furbo. Sì, ah, ah, ah... messaggio ricevuto. Quando la clip circolava nel 2021, ho ancora pensato: Che problema! e non ho visto nulla di significativo in questa battuta spietata. Ma ovviamente, qualcuno stava prestando attenzione. Qualcuno ha capito "Sì, è il biglietto. Bruciare. Picchiare a morte la gente. Impazzire. Questo ci farà ottenere la copertura". Ed ecco che è successo. Sono sicuro che non era sua intenzione, ma c'è sicuramente del sangue sulle sue mani grazie a questa osservazione sciocca. E sospetto che sia il motivo per cui Martin ha scritto un intero profilo di un gruppo terroristico senza menzionare cosa fa. Quale altra scelta aveva? Questi sono i suoi figli spirituali. Anche solo accennare alla violenza significa implicare se stesso. E ora Brigade Nhamedu si sente in diritto di scatenare la sua sanguinosa violenza contro "istituzioni e poliziotti tedeschi". E senza dubbio contro istituzioni e poliziotti in altri posti d'Europa e probabilmente in Canada. Sospetto (almeno spero) che non proveranno questa merda negli Stati Uniti, non più perché nel nuovo panorama politico razzista del Trumpismo, questo è un biglietto aereo per, chiamateli come sono, campi di concentramento esternalizzati per l'America come i call center indiani. Le autorità europee hanno iniziato a rendersi conto, tuttavia, della portata del pericolo. Un tribunale olandese ha apparentemente inflitto una dura pena detentiva di "diversi anni" a un delinquente della Brigata Nhamedu "a causa della sua partecipazione agli scontri all'Aia". Ho il forte sospetto che, come al solito, le autorità canadesi, sempre stupide e lente a destreggiarsi tra le sfumature multiculturali, arriveranno tardi alla conclusione logica. Forse troppo tardi. Si perderanno delle vite perché c'è una comune escalation con i gruppi terroristici. Non ci vuole molto per "progredire" da una sbarra di metallo che colpisce un eritreo di 60 anni a Toronto al tentativo di lasciare una bomba che potrebbe esplodere all'aeroporto di Francoforte. A questi idioti non importa. Eritrei innocenti, ed etiopi e somali perché i poliziotti bianchi e persino i governi più bianchi spesso non sanno fare distinzioni, verranno spinti sul retro dei carri e subiranno prove strazianti. E agli idioti non importerà. È tempo che il mondo li denunci per il male che perpetrano. Personalmente non me ne frega niente se la vostra politica è "corretta" riguardo al regime. Vi definite Brigade Nhamedu ma il vostro ragionamento è logico TPLF. Penso che questo tizio sia un dittatore, quindi punterò la pistola alla testa di una donna che appende una bandiera eritrea fuori dalla finestra del suo appartamento. Non mi piace la mancanza di una stampa libera nel paese, quindi è naturale che vada a sparare a un poliziotto a Berlino. Dovete essere fermati. Posso capire l'esitazione degli eritrei innocenti a non parlare direttamente di voi, ma spero che inondino le linee telefoniche dell'Associated Press, della BBC, dell'AFP e della Reuters e chiariscano che questi non sono eroi, sono predatori. originale gmaron.aron credit Ghideon Musa Aron L'affermazione del primo ministro Abiy Ahmed di cercare solo "dialogo" sull'accesso al mare è palesemente falsa. Ha ripetutamente sollevato la questione con i leader regionali e le loro risposte sono state chiare e coerenti: • L'Etiopia è benvenuta ad utilizzare i porti vicini nell'ambito di accordi commerciali, promuovendo la cooperazione regionale e la prosperità condivisa. • Nessun paese cederà il proprio territorio sovrano all'Etiopia. • Nessuna nazione sosterrà qualsiasi tentativo sconsiderato di ridisegnare la mappa del Corno d'Africa. Tuttavia, Abiy continua a premere la stessa richiesta, nonostante risposte ferme e inequivocabili. A questo punto, la sua insistenza appare più una provocazione deliberata che una vera diplomazia. Il vero problema: un'economia fallimentare e un'instabilità interna. Il problema dell'Etiopia non è la mancanza di accesso al mare, è un'economia in difficoltà, un'instabilità interna e una leadership che prospera sulle crisi fabbricate piuttosto che su soluzioni reali. Abiy Ahmed sta scommettendo sconsideratamente con la pace e la stabilità del Corno d'Africa, in particolare con il futuro dell'Etiopia, quando non è necessaria alcuna scommessa del genere. Il suo ultimo atteggiamento in parlamento - chiedere colloqui sull'accesso al mare mentre dichiara che l'Etiopia non entrerà in guerra con l'Eritrea - è l'ennesimo caso di retorica e di esibizione per i media. Ma pochi gli credono, ed è evidente che non ha più opzioni. Domande alle quali Abiy deve rispondere. I media e i politici internazionali che cerca di persuadere invece di sostenere ciecamente le sue affermazioni dovrebbero chiedergli: • Cosa sta cercando di negoziare esattamente in merito all'accesso al mare con i paesi vicini? • Perché non ha tentato di negoziare quando aveva rapporti migliori con loro? • Perché fa pressioni su leader stranieri che non hanno alcun mandato sulla sovranità di altre nazioni? Le dubbie giustificazioni dell'Etiopia per l'espansione territoriale. Abiy e i suoi sostenitori utilizzano argomentazioni ingannevoli per giustificare rivendicazioni territoriali. Alcune delle loro considerazioni più stravaganti includono: • La popolazione etiopia sta crescendo esponenzialmente. • L’economia dell’Etiopia è in crescita. • Gruppi etnici a cavallo dei confini dell'Etiopia, condividendo storia e legami culturali. • L'Etiopia occupava l'Eritrea sotto Haile Selassie e Mengistu, e quindi merita i diritti dei "saccheggiatori". ’ • La domanda alimentare di pesce in Etiopia sta aumentando. Queste argomentazioni non sono altro che tentativi sottilmente velati di minare la sovranità delle nazioni vicine e giustificare la presa di terreni. La sovranità non è negoziabile Abiy Ahmed lo sa, ed è per questo che le sue richieste di negoziazione sono vuote. La sua retorica non riguarda la diplomazia, si tratta di mettere alla prova i limiti della pazienza regionale e internazionale. Ma nessuna manovra politica cambierà la verità fondamentale: la sovranità non è in discussione. da ER MEDIA credit Ghideon Musa Aron M'è capitato di leggere un articolo su Yeni Safak (EXPLAINER: What comes next for Ethiopia as tensions in Tigray threaten regional war?) , in sé onesto ma con alcune storture che meritano d'essere corrette. In primo luogo è infondato che una fazione del TPLF in Tigray, la D di Debretsion Ghebremicael, si sia avvicinata o sia divenuta alleata dell'Eritrea, contro la fazione G di Getachew Reda. Men che meno che vi siano ancora truppe eritree nel Tigray a due anni dalla fine del conflitto che oppose il TPLF al Governo Federale Etiopico.
Fidarsi del narrato di testimoni faziosi può portare la stampa a facili confusioni, e nel corso degli anni ne abbiamo avuto più volta prova. Lo stesso vale per quanto riferito all'evidentemente incauto giornalista da un altro testimone, sostenitore del diritto del suo paese, l'Etiopia, ad uno sbocco sul mare a spese altrui. Se tutti hanno diritto a qualcosa in base al principio per cui "il diritto internazionale è un'opinione", allora anche i somali dell'Ogaden avrebbero tutto il diritto d'erigere un proprio Stato o di tornare in seno alla Somalia, per non parlare dello stesso Tigray che ugualmente potrebbe fare ciò che vuole, e così via. Mi pare che molti, tra agitatori politici ed umanitari, e giornalisti che incautamente porgono loro una sponda, giochino col fuoco senza tuttavia esserne davvero consapevoli; o forse, come son più solito pensare io, facendo i "finti tonti", simulando dietro ad una fittizia inconsapevolezza una più ben costruita malafede. In Etiopia si sta giocando l'ennesima OPA tra fazioni etno-politiche ed etno-militari, con vari gruppi che ormai tallonano l'Esercito Federale, sempre più demoralizzato, sottraendogli presidi su presidi; intanto, il potere centrale ad Addis Abeba sempre più vicilla. Si sa come vanno a finire questi giochi, in certi paesi che ciclicamente nella loro storia vedono entrare in crisi l'autorità dello Stato sfaldandosi tra vari centri di potere locali: se chi ha tentato l'OPA non riesce ad ottenere "tutto il pacchetto", allora passa al piano B, quello della secessione. L'Etiopia purtroppo rientra in questa categoria, come la Somalia, il Congo, per certi versi persino il Sudan o certe nazioni del Sahel, fino alla Libia: è un aspetto doloroso, ma che nella loro storia può talvolta ripresentarsi, carsicamente, a conferma della difficoltà ad amalgamare tra loro in modo armonico le varie parti interne. Ed infatti, e non è un caso, i continui successi dei miliziani del FANO, gli Amhara, sul Governo Federale Etiopico e le sue truppe trovano immediati e facili capri espiatori proprio nell'Eritrea, con esponenti sia di Addis Abeba che del TPLF che l'accusano di dar sostegno pure a costoro; anche in questo caso, però, sempre senza uno straccio di prova alcuna. Non condanno dunque l'articolo che ho letto, che al pari di tanti soprattutto italiani lascia comunque molto a desiderare; ma al solito, e non perché voglia tessere le lodi di me stesso, per chi davvero voglia capirne di più invito piuttosto a dar una lettura al mio, pubblicato alcuni giorni fa, apparso su l'Opinione Pubblica sia in italiano che in inglese. All'inizio di questa settimana, Osman Saleh, ministro degli Esteri dell'Eritrea, ha tenuto un briefing ai diplomatici e ai funzionari delle Nazioni Unite ad Asmara, affrontando la recente ondata di disinformazione e false accuse diffuse contro l'Eritrea. Ha categoricamente respinto le false affermazioni sulla presenza di truppe eritree nella regione del Tigray in Etiopia, ribadendo che le unità EDF sono state completamente ridistribuite all'interno dei confini riconosciuti a livello internazionale del paese da novembre 2022.
Ha inoltre respinto i tentativi di fare dell'Eritrea un capro espiatorio per le attuali crisi interne dell'Etiopia, chiarendo che l'Eritrea considera l'accordo di Pretoria una questione interna etiope e non ha alcuna intenzione di intervenire nella continua lotta di potere nel Tigray. Inoltre, ha criticato la pericolosa retorica dell'Etiopia in merito all'accesso al Mar Rosso. Oltre a chiarire le cose, il briefing ha evidenziato una questione più ampia: il ruolo storico della comunità internazionale nell'esacerbare l'instabilità regionale anziché promuovere la pace. Invece di sostenere la giustizia e il diritto internazionale, le potenze globali hanno ripetutamente minato la sovranità dell'Eritrea e incoraggiato l'aggressione nella regione. Mentre le tensioni aumentano nel Corno d'Africa, la comunità internazionale deve finalmente fare ciò che ha fallito a lungo: difendere la giustizia, condannare le violazioni del diritto internazionale e assumere una posizione ferma e di principio contro l'aggressione. Negare e ignorare il diritto all'autodeterminazione dell'Eritrea Le azioni dannose della comunità internazionale nei confronti dell'Eritrea hanno profonde radici storiche. Dopo la seconda guerra mondiale, le aspirazioni all'indipendenza del popolo eritreo furono sacrificate per interessi geopolitici. Dopo la colonizzazione italiana e un periodo sotto amministrazione britannica, l'Eritrea fu federata con l'Etiopia contro la volontà del suo popolo. Questa decisione è stata guidata da interessi strategici occidentali, come affermato da John Foster Dulles The International Community Must Finally Shoulder its Role in un discorso del settembre 1952 al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: "Dal punto di vista della giustizia, le opinioni del popolo eritreo devono essere prese in considerazione. Tuttavia, l'interesse strategico degli Stati Uniti nel bacino del Mar Rosso e le considerazioni di sicurezza e pace nel mondo rendono necessario che il paese sia collegato al nostro alleato, l'Etiopia". Mentre l'Etiopia smantellava sistematicamente la federazione e annetteva con la forza l'Eritrea, la comunità internazionale rimase completamente in silenzio, non condannando queste palesi violazioni dei diritti eritrei e del diritto internazionale. Per decenni, la comunità internazionale ignorò le richieste di autodeterminazione degli eritrei, costringendo il paese a sopportare la guerra più lunga dell'Africa senza supporto o intervento internazionale. Infatti, nemmeno una volta nel corso di quasi mezzo secolo fino al 1991 l'Eritrea, teatro della guerra più lunga dell'Africa e vittima di alcune delle più gravi violazioni dei diritti umani, figurava nell'agenda delle Nazioni Unite. Nella prefazione degli Atti del Tribunale permanente dei popoli della Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli, convocato nel 1980, si dichiarava: "Nessuna lotta importante, sia in termini di intensità militare che di impatto politico, è così poco conosciuta, anzi ignorata, come quella in cui è impegnato il popolo eritreo da 20 anni". Allo stesso modo, l'anno seguente, un decennio prima che l'Eritrea ottenesse finalmente l'indipendenza, la Commissione internazionale dei giuristi dichiarò che: "Di tutte le persone che, dalla seconda guerra mondiale, sono state vittime di rivalità e ambizioni tra grandi potenze, forse quella con il più grande diritto di essere presa in considerazione è il popolo eritreo. Tuttavia, nessuna nazione è stata ancora disposta a sollevare la questione dei diritti di queste persone alle Nazioni Unite. La verità è che la "questione eritrea" è fonte di imbarazzo sia per l'ONU stessa che per quasi tutte le "parti interessate"". Dopo l'ammissione formale dell'Eritrea all'ONU nel 1993, il presidente eritreo Isaias Afwerki si è rivolto all'Assemblea generale, riflettendo sugli anni di abbandono: "[Gli anni di] assordante silenzio hanno fatto soffrire il nostro popolo. Hanno anche dato mano libera agli aggressori, prolungando così la nostra sofferenza e aumentando i sacrifici che abbiamo dovuto fare. Ma non hanno scosso la nostra determinazione né minato la nostra convinzione nella giustezza della nostra causa e nell'inevitabilità della nostra vittoria. Come dice un proverbio eritreo: "La verga della verità può diventare più sottile, ma non può essere spezzata". In effetti, la giustizia ha finalmente prevalso. Questa è una fonte di speranza e felicità non solo per il popolo eritreo, ma per tutti coloro che amano la giustizia e la pace". Ostilità continua e doppi standard La lotta dell'Eritrea non si è conclusa con l'indipendenza. Dal 1998 al 2000, ha dovuto affrontare una guerra di aggressione progettata per rovesciare il governo, invertire la sua indipendenza e impadronirsi con la forza di ampie fasce del suo territorio, anche lungo il Mar Rosso. Nonostante la "decisione definitiva e immodificabile" della Commissione per i confini tra Eritrea ed Etiopia, la comunità internazionale ha permesso all'Etiopia di mantenere per quasi un decennio la sua illegale occupazione militare delle terre eritree e di lanciare ripetuti attacchi militari su larga scala. Infatti, anziché condannare le violazioni dell'Etiopia, le potenze occidentali hanno invece ricompensato gli aggressori. L'Etiopia, sotto il Tigray People's Liberation Front (TPLF), ha ricevuto ingenti aiuti esteri, per lo più in forma di bilancio e altre forme fungibili, e la cancellazione del debito, mentre si posizionava come alleato occidentale. A complicare ulteriormente le cose, su richiesta delle potenze occidentali e del loro rappresentante regionale, sono state imposte all'Eritrea una serie di sanzioni punitive, nonostante la mancanza di prove concrete per le affermazioni e le accuse sollevate. Queste misure non solo hanno ostacolato gli sforzi di costruzione della nazione dell'Eritrea e il potenziale per la cooperazione regionale, ma hanno anche incoraggiato gli attori ostili. Anche dopo che le giustificazioni originali per le sanzioni sono state sfatate, sono rimaste in vigore per anni, riflettendo un programma più ampio di contenimento e controllo piuttosto che una genuina preoccupazione per la pace e la stabilità. Oltre all'interferenza politica, l'Eritrea è stata anche bersaglio di campagne mediatiche incessanti e coordinate, progettate per denigrare e demonizzare il paese, oscurando al contempo le vere fonti di conflitto e instabilità nella regione. È giunto il momento per assumere una posizione di principio Oggi, le crescenti tensioni e il tintinnio di sciabole che circondano il Mar Rosso rappresentano una seria minaccia per la stabilità regionale. Ora è il momento che la comunità internazionale inizi a rettificare la sua lunga storia di fallimenti. Invece di rilasciare dichiarazioni vuote e inefficaci o di mantenere una falsa narrazione "da entrambe le parti", la comunità internazionale deve condannare fermamente e inequivocabilmente coloro che violano il diritto internazionale, alimentando le tensioni e minacciando la sovranità e l'integrità territoriale degli altri. Giustizia e pace non richiedono niente di meno. 21 marzo 2025 credit Ghideon Musa Aron di Sabrina Solomon
L'ambasciatrice Sophia Tesfamariam è la rappresentante permanente dell'Eritrea presso le Nazioni Unite. Ha una vasta esperienza nello sviluppo sociale globale, in particolare nel lavoro con i giovani e le donne nel Corno d'Africa. La sua passione è quella di promuovere una mentalità di possibilità tra i giovani. Ha condotto oltre 100 seminari e workshop sulla leadership e sullo sviluppo di strategie per i giovani e le donne negli Stati Uniti, in Europa e in Africa. Con una profonda competenza nei media e nella diplomazia pubblica, l'ambasciatrice Sophia mantiene solide reti in Africa, Europa e Australia, lavorando costantemente per promuovere la pace, la stabilità e la sicurezza nella regione. Attualmente, in Eritrea, continua il suo lavoro di impatto conducendo seminari e visitando siti chiave per lo sviluppo. Sabrina Solomon e Raphael Giuseppe di Eri-TV si sono seduti con lei per un'intervista approfondita. Di seguito sono riportati alcuni estratti della loro discussione. * * * Il Sud del mondo sta affermando sempre di più la sua influenza negli affari internazionali. Come vede il ruolo dell'Eritrea in questa dinamica e come possono i paesi del Sud del mondo affrontare collettivamente le sfide comuni all'ONU? Beh, grazie. Questa è una domanda molto impegnativa e anche tempestiva. Il Sud del mondo si è unito attivamente per rispondere alle urgenti sfide globali. Di recente, ho partecipato al Summit of the Future delle Nazioni Unite, così come ai precedenti summit chiave degli ultimi due anni. Il Sud del mondo ha costantemente alzato la voce su questioni critiche come lo squilibrio del sistema finanziario globale, le riforme delle Nazioni Unite, il cambiamento climatico, la sicurezza alimentare e idrica e i diritti umani. All'ONU, il Gruppo africano, insieme ad altri blocchi con idee simili, ha lavorato collettivamente per sostenere queste preoccupazioni. Negli ultimi due anni, si sono svolte serie negoziazioni per conto del Sud del mondo, in particolare in importanti forum come la conferenza del G77, il Summit di Kampala di gennaio e i summit sul clima come COP28 e COP29. Il finanziamento per il clima e la transizione energetica rimangono le massime priorità per le nostre nazioni. Il Sud del mondo sta sfruttando ogni piattaforma disponibile, conferenze, summit e riunioni di alto livello, per garantire che le nostre voci siano ascoltate e che le nostre esigenze di sviluppo siano affrontate. Il panorama globale si sta evolvendo rapidamente con sfide come il cambiamento climatico, i cambiamenti geopolitici e i progressi tecnologici. Come percepisce l'Eritrea, in quanto membro delle Nazioni Unite, questi cambiamenti e quali strategie sta impiegando per affrontarli? L'approccio dell'Eritrea è in linea con le strategie impiegate da molte nazioni, ma ciò che ci distingue è la nostra posizione proattiva. Abbiamo affrontato questioni chiave, come clima, sicurezza alimentare, gestione delle risorse idriche e sostenibilità, molto prima che diventassero argomenti di discussione globali. Sul campo, l'Eritrea ha effettuato investimenti significativi nelle infrastrutture, tra cui la costruzione di dighe, la terrazzatura delle montagne e iniziative di piantagione di alberi a livello nazionale. Per noi, queste non sono solo discussioni politiche; sono realtà vissute. A livello internazionale, partecipiamo attivamente a discussioni globali in summit e conferenze, contribuendo a dare forma al dibattito su queste questioni urgenti. I cambiamenti geopolitici in atto oggi erano inevitabili e l'Eritrea ha da tempo previsto la necessità di un ordine internazionale più giusto ed equilibrato. Abbiamo costantemente chiesto un cambiamento nel sistema globale e accogliamo con favore le trasformazioni in atto. All'ONU, l'Eritrea partecipa a discussioni tematiche su questioni emergenti come la sicurezza informatica e l'intelligenza artificiale. Siamo anche un membro attivo del G77+Cina, un blocco di 134 paesi, dove ci impegniamo in dialoghi politici sullo sviluppo globale. All'interno del Gruppo africano, ci concentriamo sulle sfide uniche del continente, tra cui gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG) delle Nazioni Unite per il 2030 e l'Agenda 2063 dell'Africa. L'Eritrea utilizza piattaforme come la Voluntary National Review (VNR) presso l'ECOSOC per condividere i nostri progressi, imparare da altre nazioni e mostrare i nostri sforzi di sviluppo. L'Eritrea ha assunto posizioni diverse da quelle delle principali potenze globali. Come bilancia i suoi interessi nazionali con il suo impegno per la cooperazione internazionale? Quali meccanismi garantiscono che la voce dell'Eritrea venga ascoltata all'ONU? L'Eritrea partecipa attivamente alle discussioni all'ONU. Sarebbe inesatto affermare che le nostre posizioni sono isolate o contraddittorie rispetto alle preoccupazioni globali. Mentre alcune nazioni dominanti potrebbero non condividere sempre le nostre prospettive, esiste un'ampia coalizione di paesi con idee simili che condividono le preoccupazioni e le aspirazioni dell'Eritrea. Ogni paese all'ONU dà priorità ai propri interessi nazionali e l'Eritrea non fa eccezione. Non siamo schierati contro nessun paese, né ci allineiamo ciecamente con gli altri. Al contrario, lavoriamo con nazioni che condividono prospettive simili e comprendono il contesto delle posizioni dell'Eritrea. Questi alleati abbracciano sia il Sud del mondo che il Nord del mondo, a seconda della questione in questione. Per garantire che la nostra voce venga ascoltata, massimizziamo la nostra presenza alle Nazioni Unite impegnandoci in discussioni su argomenti chiave come il cambiamento climatico, la sicurezza alimentare e idrica, la desertificazione, la pace e la sicurezza, l'integrità territoriale e la riforma delle Nazioni Unite. L'Eritrea non si limita a partecipare; avviamo anche conversazioni per valutare il sostegno alle nostre posizioni e per costruire coalizioni. Le piattaforme, i forum e i meccanismi esistono: utilizziamo solo approcci innovativi per garantire che le nostre preoccupazioni siano integrate nell'agenda più ampia delle Nazioni Unite. Nel promuovere la pace e la comprensione nel Corno d'Africa, quali strategie diplomatiche impiega l'Eritrea alle Nazioni Unite per favorire la stabilità regionale? L'Eritrea adotta un approccio proattivo e pragmatico alla diplomazia regionale. Ci impegniamo bilateralmente con i nostri vicini, lavorando anche attraverso quadri multilaterali come l'IGAD (Autorità intergovernativa per lo sviluppo). Alle Nazioni Unite, solleviamo costantemente questioni che interessano il Corno d'Africa e sosteniamo soluzioni che riflettano le realtà sul campo. Una delle nostre principali strategie diplomatiche è promuovere un dialogo onesto. Per troppo tempo, le narrazioni esterne hanno dipinto il Corno d'Africa come una regione dilaniata dai conflitti. Sebbene esistano delle differenze, abbiamo lavorato duramente per dissipare l'idea che le nostre nazioni siano perennemente in disaccordo. Gran parte dell'instabilità della regione in passato è stata causata da interventi esterni che hanno distorto le dinamiche locali. Oggi, sottolineiamo la cooperazione regionale, riconoscendo che, sebbene ogni paese abbia le sue priorità, i nostri interessi comuni in materia di pace, sicurezza e integrità territoriale devono avere la precedenza. Alle Nazioni Unite, l'Eritrea si impegna regolarmente con gli ambasciatori residenti nel Corno d'Africa per discutere le priorità regionali, contrastare la disinformazione e presentare una narrazione più accurata del panorama politico e di sicurezza della regione. Considerando il suo background e la sua passione per lo sviluppo dei giovani, quale messaggio ha per i giovani eritrei riguardo al loro ruolo nel plasmare l'impegno dell'Eritrea con le Nazioni Unite e la più ampia comunità internazionale? I giovani eritrei hanno un ruolo significativo da svolgere e vediamo già i loro contributi nei progetti di sviluppo nazionale. I giovani eritrei sono profondamente coinvolti nella costruzione del paese, che si tratti di ingegneria, infrastrutture, agricoltura o sicurezza. Ciò che resta da fare è garantire che le loro voci siano ascoltate anche a livello internazionale. Abbiamo iniziato a portare i giovani eritrei ai dialoghi delle Nazioni Unite, inclusi eventi collaterali e forum globali come la Commissione sullo status delle donne. I giovani rappresentano il 70% della popolazione africana, rendendo essenziale la loro integrazione nelle discussioni politiche, economiche e di sviluppo. Il programma di servizio nazionale dell'Eritrea è spesso travisato, ma svolge un ruolo fondamentale nella costruzione della nazione. I nostri giovani non sono solo nella riserva militare, ma lavorano principalmente in diversi ministeri, progetti infrastrutturali e missioni internazionali, inclusa la missione ONU dell'Eritrea. Sono in prima linea nelle installazioni di pannelli solari, nella costruzione di dighe e nelle iniziative di sviluppo. Questa è una storia che deve essere raccontata. Con l'ascesa dei social media, i giovani eritrei hanno un'opportunità senza precedenti di dare forma alla narrazione globale. Questa storia positiva deve essere condivisa in modo più efficace e dare potere ai giovani energici con contesto e piattaforme, soprattutto attraverso i social media, amplificherà la voce dell'Eritrea a un pubblico globale più ampio. Quindi, evviva i giovani! Di recente ha tenuto una lezione intitolata "L'Eritrea in un ambiente globale in evoluzione" ai membri del Ministero dell'informazione. Potresti spiegare i punti chiave, in particolare come l'Eritrea si sta adattando all'ordine internazionale in evoluzione? L'Eritrea ha a lungo previsto e sostenuto un cambiamento nell'ordine globale e gli attuali cambiamenti sono in linea con le sue richieste di lunga data di giustizia e uguaglianza. Il paese si sente rivendicato poiché le precedenti narrazioni contro di esso, sui diritti umani, il servizio nazionale e lo sviluppo, vengono ora riconsiderate. L'Eritrea sottolinea che la pace, la sicurezza e la proprietà del suo programma di sviluppo sono le sue priorità principali, garantendo una società stabile e autosufficiente. Sfida le idee sbagliate esterne sui diritti fondamentali e afferma che molte delle preoccupazioni che ha sollevato sono ora riecheggiate da altre nazioni africane che si oppongono all'ingiustizia e allo sfruttamento delle risorse. Con oltre 60 anni di esperienza nella gestione delle sfide globali, l'Eritrea ritiene di avere lezioni preziose da offrire e continuerà a sostenere un sistema internazionale più equo condividendo le sue intuizioni con altre nazioni. Qualche osservazione finale? Apprezzo l'opportunità di discutere di questi importanti argomenti. Gli eritrei devono riconoscere che facciamo parte dell'ONU, uno dei 194 stati membri. Mentre alcune nazioni potenti possono dominare il processo decisionale, la maggior parte dei membri dell'ONU condivide le nostre aspirazioni per la pace, lo sviluppo e la giustizia. Dobbiamo impegnarci in modo costruttivo, assicurandoci che la voce dell'Eritrea continui a essere ascoltata. Grazie! Credit Ghideon Musa Aron Il ministro degli Esteri Osman Saleh ha tenuto un briefing questa mattina, presso la sede centrale del Ministero degli Esteri di Asmara, agli ambasciatori/membri residenti del Corpo diplomatico e ai capi delle agenzie ONU accreditati presso il paese, su false accuse riguardanti:
i) i presunti preparativi dell'Eritrea per la guerra contro l'Etiopia; ii) l'accordo di Pretoria; e, iii) L'ossessione dell'Etiopia per uno sbocco al mare e le successive campagne diplomatiche e i tintinnii di sciabole. Nel suo ampio briefing, FM Osman ha sottolineato: * Il FES è stato ridistribuito ai confini riconosciuti a livello internazionale dell'Eritrea subito dopo la fine del conflitto nel novembre 2022. "Chiunque sostenga o suggerisca che il FES sia ancora in territorio etiope lo sta facendo per capro espiatorio Eritrea per i problemi interni dell'Etiopia". * Queste accuse sono rivolte da ex membri del TPLF che avevano respinto fin dall'inizio, e continuano a respingere, la decisione definitiva e vincolante della Commissione di Confine Eritrea-Etiopia (EEBC), e che avevano lavorato per il cambiamento di regime in Eritrea "inutile". * Il GOE considera l'accordo di Pretoria come un affare interno dell'Etiopia e non desidera intervenire in tale processo. *Il GOE non ha alcun ruolo nel conflitto interno in corso tra l'Amministrazione Tigray ad interim e il TPLF; respinge categoricamente qualsiasi accusa o accusa che insinuino diversamente. * L'Eritrea è perplessa dalle ambizioni miguidate e obsolete dell'Etiopia per l'accesso marittimo e la base navale "attraverso la diplomazia o la forza militare". A questo proposito, l'Eritrea esorta la comunità internazionale e i suoi organi competenti a esercitare pressioni sull'Etiopia affinché rispetti la sovranità e l'integrità territoriale dei suoi vicini. Via Yemane G. Meskel Ministro dell'Informazione credit Ghideon Musa Aron In questo lungo articolo raccontiamo un po' di aneddoti che accompagnarono la nascita della Comunità Eritrea in Italia, ma anche e soprattutto l'affermazione femminile nella Guerra d'Indipendenza condotta dal FPLE (Fronte Popolare di Liberazione Eritrea): un ruolo, quella donna, che ha davvero reso possibile l'esistenza dell'Eritrea di oggi.
Di Filippo Bovo 17 Mar 2025 In questi giorni si sono tenuti i festeggiamenti della Comunità Eritrea in Italia per l’8 Marzo, Festa della Donna. La Comunità è presente in molte città del nostro Paese, in gruppi più o meno nutriti: Bologna, Milano, Roma, e Firenze giusto per citare i più numerosi, ma guai a dimenticare anche gli altri, come ad esempio Parma, Reggio Emilia, Pisa, Genova, Torino, o ancora Catania, Bari, Pescara, Pistoia, e chi più ne ha più ne metta. Mi scuso con chi eventualmente non avessi nominato, ma la lista è tanto vasta da favorire pure qualche… “sbandamento di memoria”. Ogni gruppo, tradizionalmente, tiene i festeggiamenti di questa e di altre ricorrenze, come ad esempio l’Anniversario dell’Indipendenza o quello dell’Operazione Fenkil, o ancora la Giornata dei Martiri, secondo la data in cui è possibile riunirsi tutti quanti: solitamente le domeniche e i festivi sono i giorni prediletti, proprio perché vedono tutti svincolati dai propri doveri lavorativi. Per questo motivo alcune Comunità cittadine hanno tenuto la celebrazione dell’8 marzo domenica scorsa, e altre nella domenica precedente: per praticità e rispetto di tutti era la cosa più giusta che si potesse fare. Così quella che è un’importante giornata comune, oltre che un evento di comunità diventa anche un grande evento di famiglia: donne e uomini, anziani e bambini, tutti si ritrovano insieme accompagnati dal ricordo, dalla musica e dalla cucina nazionali, non ultimo dalle tante occasioni di ballo che, davvero, non risparmiano nessuno: impossibile restarne fuori, anche i meno “abili” in una simile arte non possono a quel punto non scendere in pista e dire la loro. Mi piace ricordare tutto questo, a distanza di qualche giorno, per far capire ai tanti amici italiani che ci leggono quanto profonda sia l’importanza della Giornata della Donna per l’Eritrea e per gli eritrei, molti dei quali da decenni parti attive del nostro paese, cittadini modello di famiglie storicamente radicate nella loro città, già alla seconda e terza generazione, talvolta anche di più. Sebbene la maggior parte degli eritrei d’Italia sia giunta nella Penisola negli Anni ‘70, quando la Guerra d’Indipendenza tra il governo etiopico d’allora e il FPLE (Fronte Popolare di Liberazione Eritreo) infuriava più che mai, non pochi di loro erano già approdati negli anni precedenti: alcuni nel Dopoguerra, quando l’Eritrea aveva cominciato a scontare le prime drammatiche traversie legate al Secondo Conflitto Mondiale e alla sua successiva annessione, dopo l’intermezzo del governo militare inglese, da parte dell’Etiopia a quel tempo ancora dominata dal Negus Haile Selassie. Non era mancato neppure qualche eritreo giunto in Italia tra le due Guerre Mondiali, per ragioni casuali o anche parentali, ma parliamo davvero di pochissime personalità, che tuttavia anticiparono pur sempre quella che un giorno sarebbe stata una ben più ampia presenza. Ebbene, il contributo che il FPLE seppe dare alla condizione femminile eritrea, nel pieno del conflitto, in un momento dei più drammatici della storia di quella terra, fu tale da potersi dire ben oltre il rivoluzionario. La donna, per il FPLE, era ben più che alla pari rispetto all’uomo: si potrebbe quasi parlare, si spera non impropriamente, di un’emancipazione femminile che dinanzi alle urgenze di un conflitto di liberazione nazionale si faceva anche guerriera. Rispetto al precedente FLE (Fronte di Liberazione Eritreo), da una cui costola il FPLE tra la fine degli Anni ‘60 e l’inizio degli Anni ‘70 era sorto, il nuovo movimento seguendo valori socialisti, marxisti e patriottici adattati alle specificità storico-nazionali eritree aveva subito individuato nella piena eguaglianza tra uomini e donne e nella centralità di quest’ultime nella nuova visione della società eritrea uno dei cardini essenziali perché una vera guerra d’emancipazione ed autodeterminazione vi potesse essere e, soprattutto, potesse trionfare. Ben presto oltre il 30% delle donne andarono a comporre le fila dei cosiddetti Tegadelti, i combattenti per la Liberazione, ricoprendosi di grandi atti d’eroismo e coraggio guerriero. In verità la percentuale andrebbe persino rivista verso l’alto, giacché molte donne collaboravano alla causa e al movimento anche dall’esterno, e nelle forme più disparate: dalle cure ai feriti e ai bambini, alla custodia e al trasporto di documenti e consegne, o ancora nella ricerca di fondi, come del resto facevano anche altri uomini. Una delle ragioni per cui negli Anni ‘70 si formò una così grande Diaspora eritrea in vari paesi del mondo, Italia per prima, risiede infatti proprio in questa ragione: le donne in tutto ciò ebbero un ruolo importante anche nel favorire il trionfo della Liberazione dall’estero, e non solo in patria. Contro il nemico si poneva così un vero e proprio “popolo in armi”, non un semplice gruppo politico o militare, e quando intendiamo “armi” esse potevano essere anche quelle sociali, familiari e culturali, o altre ancora: armi femminili, potenti, che il nemico non prevedeva e non sapeva esattamente come contrastare. Un altro fattore importante in cui le donne svolsero un ruolo a dir poco insostituibile fu quello della cura e del controllo dei prigionieri: contro i Tegadelti, non di rado, le truppe etiopiche giocarono sulla quantità, ricorrendo a contingenti massicci ma anche scarsamente motivati, spesso composti di uomini che quella guerra non la volevano o non sapevano esattamente perché dovessero combatterla. I tanti armamenti le resero comunque capaci di lasciare gravissime ferite sul campo e a danno della popolazione, tanto che neanche il Napalm o bombe non consentite dalle convenzione internazionali vennero escluse dall’impiego dal regime di Menghistu Haile Mariam, che a metà Anni ‘70 aveva rimpiazzato il Negus alla guida del DERG. Tuttavia, numerosi soldati etiopici cadevano nelle imboscate o, sconfitti nei combattenti ed accerchiati, finivano prigionieri dei temuti Tegadelti: non pochi di loro erano feriti, affamati, certo disperati. Dai nemici s’aspettavano la morte o comunque il peggio, anche perché così certamente i Comandi gli avevano fatto credere. Invece, contrariamente alle loro più nefaste previsioni, i Tegadelti li curavano e li rifocillavano, e quando erano tornati sani li riaccompagnavano, intuibilmente con non pochi rischi, oltre il fronte. Là, tornati tra i loro commilitoni, raccontavano una realtà diversa da quella che il regime gli aveva fatto credere: dall’altra parte c’era un nemico “umano”, fatto di donne materne, che li avevano curati e nutriti con la pietà che avrebbero avuto delle madri o delle sorelle. Il passaparola, diffondendosi in Etiopia, contribuì non poco nel tempo a scardinare molta della propaganda del DERG e a demotivare ancor più un esercito a cui non bastavano più solo i potenti arsenali ricevuti dall’estero per poter rimediare alle crescenti falle, sia interne che sul fronte. Le donne furono davvero “l’arma nell’arma” del FPLE e della causa di Liberazione Eritrea. Non è un caso che tra gli eritrei sempre si ricordi, col massimo orgoglio, che “senza le donne l’Eritrea di oggi non sarebbe mai stata possibile”. Anche in Eritrea la Giornata dell’8 Marzo ha ricevuto pertanto delle enormi attenzioni, con varie ricorrenze e festeggiamenti; ma non è mancato neppure l’aspetto politico e formativo. Non è casuale, ad esempio, che proprio lo scorso 12 marzo ad Asmara si sia tenuto anche il Sesto Congresso dell’Associazione di Agro-Business delle Donne, presieduto dalla Sig.ra Letekidan Kahsai: è anche attraverso la promozione del credito alle coltivatrici, seguendole nel miglioramento delle tecniche agronomiche e nello sviluppo degli affari, della gestione del marchio e della promozione imprenditoriale, che si porta avanti l’emancipazione femminile in uno Stato progressista e moderno, che mira a porsi anche in questo campo come avanguardia di tutto il Continente. Ne è un esempio anche quanto dichiarato, guarda caso, dalla Sig.ra Takea Tesfamichael alla 69esima Sessione della Commissione per lo Statuto delle Donne, a New York, lo scorso 13 marzo, che ricordando proprio l’enorme contributo dato dalla donna eritrea nella causa della Liberazione Nazionale, proprio per mezzo di quel suo valore aggiunto dato da un approccio di femminilità e resilienza, ha poi ricordato come appena divenuto indipendente il paese abbia aderito alla Dichiarazione di Pechino e alla Piattaforma per l’Azione tese proprio ad assicurare, nei paesi firmatari, la piena eguaglianza di genere e la partecipazione delle donne ad ogni settore nazionale, economico e sociale. Ricordando il drammatico livello in cui l’Eritrea si trovava a guerra per l’Indipendenza appena conclusa, la Sig.ra Tesfamichael ha a quel punto ricordato come un enorme lavoro sia stato condotto dallo Stato in questo senso, garantendo alla donna pieni diritti nella Pubblica Amministrazione e nel diritto di proprietà, nel potere decisionale e nei diritti di successione, così come in ogni altro campo ancora. Basti pensare che in Eritrea è possibile trovare donne nell’Esercito, nella Sanità, nell’Istruzione, nel Governo, e così via: non è scontato in tutto il Continente, e nemmeno altrove, soprattutto in quelle percentuali sociali. Come paese fortemente progressista, l’Eritrea in poco più di trent’anni d’Indipendenza ha così ridotto di oltre il 70% la mortalità infantile e materna, garantito alla donna il parto nelle condizioni più sicure possibili e lottato accanitamente contro le mutilazioni genitali femminili, aspetti parimenti tutt’altro che scontati in altre parti del mondo. Con tutto ciò, questi per la leadership eritrea non sono un punto d’arrivo, ma solo un punto di partenza: per la donna e per la parità di genere ancora lungo e molto più luminoso è destinato ad essere il percorso futuro. A tutte le donne eritree in particolare, ci sentiamo dunque di dover fare i nostri più cari e sinceri auguri! |
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Settembre 2024
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