Sabrina Solomon
Domande e risposte 10 maggio 2025 Il Professor Mohammed Hassen, illustre storico etiope e studioso di studi etiopici, offre la sua prospettiva critica sulla storia e la politica del Corno d'Africa. La sua analisi, plasmata dal suo background e dalla sua esperienza diplomatica, sfida le narrazioni dominanti ed esplora prospettive marginalizzate. Come collaboratore del libro di prossima uscita "La mia lotta per l'Eritrea e l'Africa", il Professor Hassen offre uno sguardo sulla visione del Presidente Isaias Afwerki per l'Eritrea, il continente e il mondo, sottolineando il ruolo cruciale della consapevolezza storica per la comprensione da parte delle giovani generazioni del percorso dell'Eritrea verso il successo. Di seguito alcuni estratti dell'intervista che il Professor Hassen ha condotto con Eritrea Profile ed Eri-TV. * * * 1: Professor Hassen, data la sua enfasi sulla decostruzione delle narrazioni dominanti, quali aspetti specifici della prospettiva del Presidente Isaias Afwerki, così come presentata in "La mia lotta per l'Eritrea e l'Africa", ritiene particolarmente convincenti o in contrasto con le attuali interpretazioni della storia eritrea e regionale? Per oltre due decenni, una persistente campagna mediatica negativa ha preso di mira l'Eritrea. Come residente in Belgio e membro del Partito Laburista, ho assistito in prima persona a come queste narrazioni distorte ritraessero l'Eritrea, il suo Capo di Stato e il suo Governo in termini dispregiativi. I principali organi di stampa, sia grandi che di medie dimensioni, hanno diffuso questa immagine senza un'analisi critica, spinti da un programma incentrato sul "cambio di regime". Ciò ha stimolato discussioni con i colleghi, tra cui l'esperto di media Michel Collon. Nel gennaio 2010, ho visitato l'Eritrea, già a conoscenza della sua lotta di liberazione, ma desideroso di sperimentare la realtà in prima persona. La mia intervista con il Presidente Isaias Afwerki ha avuto un profondo impatto sulla mia comprensione. Poco dopo il mio ritorno, sono emersi nuovi attacchi mediatici all'Eritrea. Incoraggiato dalla mia esperienza, anche Michel ha visitato il Paese. Anche il suo primo viaggio nell'Africa subsahariana lo aveva colpito. Abbiamo interagito con diverse persone e prodotto il documentario "Eritrea: Come and See", mutuando l'espressione del Presidente Isaias. Pubblicato nel 2014, in francese e inglese, il film ha raggiunto milioni di persone, offrendo una prospettiva eritrea raramente vista sui media mainstream. Dopo il successo del documentario, abbiamo formato un comitato di solidarietà per promuovere il coinvolgimento diretto delle persone. Abbiamo portato in Eritrea circa 300 persone provenienti da Europa – Belgio, Italia, Spagna e Paesi Bassi – incoraggiando una comprensione diretta rispetto a narrazioni filtrate. Pur non disponendo delle risorse dei principali media, i nostri sforzi dal basso hanno gradualmente contrastato il discorso dominante. Abbiamo tradotto documenti eritrei in spagnolo, olandese, francese, inglese e russo e lanciato un sito web per promuovere la consapevolezza globale. Abbiamo iniziato a mettere in discussione la natura stessa della propaganda. Il primo passo, abbiamo osservato, è stata la disumanizzazione della leadership, in particolare del Presidente Isaias. Le nostre interviste hanno rivelato la necessità di documentare e condividere la sua visione a lungo termine, soprattutto con le giovani generazioni in tutta l'Africa. Il suo concetto di "buon vicinato", ad esempio, sfida l'impostazione divisiva delle relazioni regionali. Contrariamente alle rappresentazioni di un conflitto perpetuo tra Eritrea, Etiopia e Sudan, il suo approccio enfatizza la cooperazione tra gli stati confinanti. Questa visione minaccia gli interessi esterni che traggono vantaggio dalla disunione, portando a tentativi di isolare l'Eritrea e reprimere tali idee. "La mia lotta per l'Eritrea e l'Africa" nasce dalle nostre lunghe interviste con il Presidente Isaias. Esplora non solo la sua vita politica, ma anche la sua visione panafricana, la sua difesa della sovranità e il suo ruolo nella più lunga lotta di liberazione dell'Africa. Il nostro obiettivo era presentare la sua prospettiva, in particolare ai lettori più giovani di tutto il continente. Attualmente disponibile in inglese e francese, sarà presto tradotto in somalo e arabo, con la possibilità di una traduzione in amarico per il pubblico etiope. È fondamentale che i giovani africani comprendano l'eredità, le idee e il pensiero strategico di uno dei leader più esperti del continente. 2: Il libro mette in luce la visione del Presidente Afwerki per il "risveglio" dell'Africa. In che modo questa visione si allinea – o sfida – la vostra comprensione delle sfide storiche e contemporanee che il Corno d'Africa si trova ad affrontare, in particolare per quanto riguarda l'autodeterminazione e la cooperazione regionale? Nel 2013 o nel 2014, abbiamo pubblicato un articolo in tre parti, "What You Are Not Supposed to Know About Eritrea", un pezzo giornalistico strategico volto a rivelare verità trascurate. Ha ricevuto notevole attenzione sulle principali piattaforme negli Stati Uniti, in Canada e altrove. Con l'assistenza di Ruth Simon, lo abbiamo tradotto e integrato in un'iniziativa più ampia volta ad esplorare il ruolo regionale dell'Eritrea. Centrale in questo senso è stata la visione del mondo del Presidente Isaias Afwerki, la cui leadership e il cui impegno per l'indipendenza dell'Eritrea meritano una riflessione più approfondita. Il suo ruolo La liberazione dell'Eritrea, probabilmente la più lunga lotta armata in Africa, si è verificata in un contesto geopoliticamente complesso, con superpotenze e attori regionali che si opponevano alla causa eritrea. Nonostante ciò, l'Eritrea ha prevalso. Dopo l'indipendenza, la leadership eritrea ha collaborato strettamente con il governo di transizione etiope, dove ho prestato servizio come diplomatico. Questa cooperazione, il "periodo di luna di miele", è durata sette anni, fino a quando forze esterne non l'hanno indebolita, temendo forti alleanze regionali. Nel 2018, l'accordo di pace tra il Primo Ministro Abiy Ahmed e il Presidente Isaias ha riacceso la speranza, ma è stato contestato da attori esterni che hanno sfruttato le debolezze interne, in particolare in Etiopia, per invertire i progressi. Nonostante il ruolo cruciale dell'Eritrea nel prevenire una più ampia destabilizzazione regionale, sono stati fatti tentativi di distorcerne le intenzioni e marginalizzarne il contributo. Crediamo che la popolazione istruita e giovane del Tigray – e la regione in generale – meriti di ascoltare direttamente il Presidente Isaias. Un tema centrale di "La mia lotta per l'Eritrea e l'Africa" è l'interconnessione tra l'indipendenza eritrea e la stabilità regionale. Il presidente sottolinea costantemente che la liberazione dell'Eritrea è inscindibile dal più ampio contesto africano. Sostiene un'integrazione regionale basata sul rispetto reciproco e sulla cooperazione, contrastando la narrazione della disunità africana. Questa minaccia interessi stranieri che da tempo traggono profitto da divisioni e conflitti. A differenza dei movimenti che hanno ceduto al cambio di regime, l'Eritrea è rimasta resiliente, in gran parte grazie alla profondità strategica e alla visione della sua leadership. Le nostre interviste hanno anche esplorato temi come l'uguaglianza di genere nella lotta armata, dove le donne costituivano quasi la metà dei combattenti, un fatto ineguagliato persino da icone rivoluzionarie come il Vietnam. Questo libro è stato creato non solo per gli eritrei, ma per il pubblico africano, in particolare i giovani, che sono sotto costante attacco ideologico e necessitano di conoscenza storica e chiarezza politica. Il nostro obiettivo è quello di far conoscere loro la visione di un leader che sostiene la sovranità, l'unità e l'autosufficienza strategica dell'Africa. 3: Avendo collaborato con il Ministero della Giustizia eritreo e presentato un intervento alla Conferenza Internazionale sugli Studi Eritrei, in che modo ritiene che il libro contribuisca a una comprensione più articolata del ruolo dell'Eritrea nel Corno d'Africa, al di là delle narrazioni prevalenti? Sebbene l'EPLF abbia pubblicato numerosi documenti durante la lotta di liberazione, questo libro si distingue presentando non solo la prospettiva del movimento, ma anche la visione personale del Presidente Isaias Afwerki. Per raggiungere un pubblico più ampio, sia in Africa che altrove, questa visione deve essere tradotta in un linguaggio accessibile e comunicata in modo efficace. Pur non essendo conflittuali, crediamo che accrescere la consapevolezza politica richieda una comunicazione strategica e una maggiore sensibilizzazione. Il libro ha già suscitato interesse da parte di persone inaspettate; i giovani serbi, ad esempio, sono ansiosi di leggerlo. Sono curiosi di conoscere l'esperienza dell'Eritrea nella costruzione di uno stato unito in una società multietnica e multireligiosa, soprattutto ora che il loro Paese è alle prese con politiche identitarie. Il libro offre spunti su come l'Eritrea abbia gestito le differenze etniche e culturali senza soccombere alla divisione. La conferenza del Ministero della Giustizia e la Conferenza Internazionale sugli Studi Eritrei sono state concepite per mettere in luce questa narrativa eritrea sottorappresentata. Hanno offerto uno spazio agli studiosi internazionali per confrontarsi con la realtà di una nazione spesso fraintesa o travisata. Il Ministero ha evidenziato non solo il sistema giuridico formale, ma anche il modo in cui la società eritrea risolve organicamente le controversie e amministra la giustizia a livello comunitario. L'esperienza condivisa attraverso il libro rivela questa "Eritrea nascosta", fondata sulla resilienza, l'innovazione e la capacità di risolvere i problemi indigeni. 4: Lei ha costantemente sostenuto l'importanza di affrontare la "storia falsificata". A suo giudizio, il libro mette efficacemente in discussione le distorsioni storiche legate alla lotta di liberazione dell'Eritrea e alla sua successiva traiettoria politica? Sì, credo di sì. La distorsione della storia eritrea è stata affrontata e corretta, almeno in parte, attraverso il referendum del 1993, in cui gli eritrei hanno affermato a larga maggioranza la propria indipendenza. Quel voto non fu solo politico, ma una rettifica di falsità storiche. Tuttavia, correggere la storia non finisce qui. Il passo successivo è la costruzione della nazione. Questo libro esplora come l'Eritrea abbia perseguito un modello unico di formazione dello Stato in una società multilingue e multireligiosa. Offre insegnamenti preziosi, soprattutto in contrasto con l'approccio dell'Etiopia, che ha istituzionalizzato le divisioni etniche e portato il Paese sull'orlo del collasso. L'Eritrea, d'altra parte, ha promosso una politica di coesistenza pacifica, un principio di "buon vicinato", nonostante le differenze politiche. L'idea è semplice: lavorare insieme, rispettare le differenze e comprendere che non esiste alcuna contraddizione naturale.odio tra i popoli. 5: Dato il suo focus sui gruppi emarginati, quali spunti offre il libro, se ce ne sono, sulle prospettive e le esperienze di diversi segmenti della società eritrea sotto la guida del presidente Afwerki? L'Eritrea, un tempo colonia italiana, sviluppò una solida base industriale, seconda solo al Sudafrica nel continente. Tuttavia, quando gli inglesi sconfissero gli italiani, smantellarono quasi il novanta percento di quella capacità, spinti da interessi geopolitici. In seguito, potenze lontane cercarono di usare l'Eritrea come avamposto militare strategico grazie alla sua estesa costa. Gli Stati Uniti, sostenendo un regime feudale etiope, orchestrarono un'unione forzata tra Eritrea ed Etiopia sotto le mentite spoglie del federalismo, nonostante l'Etiopia non avesse una costituzione. Questo inganno scatenò una lunga lotta in Eritrea, incentrata sull'autodeterminazione attraverso un referendum. Ma oltre a ciò, c'era una visione più profonda: che tipo di stato-nazione avrebbe dovuto diventare l'Eritrea? Quale base economica l'avrebbe sostenuta? Come potrebbe costruire una società armoniosa e radicata nell'uguaglianza? Oggi, in Eritrea, tutte le lingue sono considerate nazionali e trattate con pari rispetto, rafforzando un'identità nazionale diversificata ma unita. Programmi come Sawa, spesso travisati e denigrati, fungono da strumenti cruciali per la costruzione della nazione, riunendo giovani di ogni estrazione per forgiare un'identità condivisa. Chi attacca Sawa mira a indebolire l'Eritrea, minandone l'unità e allontanandone i giovani. Prendendo di mira il Capo dello Stato con la propaganda, oscurano gli strumenti che tengono unita la nazione. Ma queste narrazioni si stanno indebolendo e l'esperienza eritrea, radicata nella resilienza e in una visione chiara, ha mantenuto il Paese su una rotta stabile. 6: Il libro presenta le prospettive del Presidente Afwerki sulla pace e la prosperità nel Corno d'Africa. Come concilia queste prospettive con le sfide in corso nella regione e quale ruolo svolge l'Eritrea nel promuovere la stabilità? Il libro è rivolto principalmente ai giovani della regione. Crescendo in Etiopia, sono stato esposto a decenni di falsa propaganda sull'Eritrea. Ma quella narrazione si sta sgretolando. Quattro anni fa, l'Eritrea ha mostrato il suo vero volto – quello della solidarietà – sostenendo l'Etiopia in un momento di crisi. Oggi, la macchina della propaganda in Etiopia è debole. Nonostante gli sforzi delle potenze esterne e di alcuni attori locali con sostegno finanziario per dipingere l'Eritrea in modo negativo, la percezione pubblica sta cambiando. I giovani iniziano a chiedersi perché l'Eritrea stia avendo successo mentre l'Etiopia sembra sull'orlo del collasso. Spesso intervengo in discussioni con i miei connazionali etiopi, usando questo libro per stimolare consapevolezza e riflessione. La visione del presidente Isaias Afwerki è solida, coerente e lungimirante. A differenza di altre nazioni della regione, l'Eritrea opera con una visione a lungo termine nonostante le sue dimensioni ridotte. Questi paesi hanno ottenuto l'indipendenza prima e mantengono eserciti di grandi dimensioni, ma mancano della chiarezza e della coerenza di intenti riflesse in questo libro. Non si tratta di una biografia personale, ma della presentazione di una visione nazionale che invita al confronto e ispira a ripensare la governance e la leadership. 7: In qualità di studioso che ha studiato i processi di formazione dello Stato, quali osservazioni può fare sull'approccio del Presidente Afwerki alla costruzione dello Stato in Eritrea, come riportato nel libro, e come si confronta con altri modelli regionali? La formazione dello Stato è intrinsecamente difficile. L'Eritrea, a soli 34 anni dalla sua indipendenza, ha compiuto passi significativi che molti stati africani più antichi non hanno ancora raggiunto. Una pietra miliare fondamentale è la creazione di un'identità nazionale condivisa. In Eritrea, le persone non si identificano principalmente per etnia – Saho, Tigrigna o altro – ma come eritrei. Questo senso di unità rimane sfuggente in molte parti dell'Africa. Non riuscire a costruire questa base apre le porte alla divisione e all'ingerenza straniera. Sebbene la diversità sia un punto di forza, può anche essere sfruttata se non gestita con saggezza. Anche nei paesi con una relativa omogeneità – dove esistono una lingua e una religione comuni – i conflitti persistono, a dimostrazione che l'unità richiede più che somiglianze superficiali. Gli sforzi di costruzione dello Stato da parte dell’Eritrea, sebbene giovani, sono notevoli per la loro enfasi sull’inclusività, la coesione e una visione nazionale chiaramente articolata.
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Addis Abeba si rinnova, ma a caro prezzo. Il nuovo corso dell'Etiopia tra sgomberi forzati, tensioni etniche e militarizzazione Amnesty denuncia il piano di modernizzazione urbana: sfratti di massa, diritti calpestati e comunità distrutte. Ma sotto c’è anche altro
di Marilena Dolce Dal 25 aprile sulla pagina dell’Ambasciata americana di Addis Abeba campeggia un’allerta rossa. L’ambasciata Usa chiede ai cittadini americani residenti in Etiopia di stare in guardia, attenti alla propria sicurezza e a quella dei familiari. Questo perché, “crime can occur anywhere and at any time”, che non è il titolo di una nuova serie noir ma la condizione della città: il crimine può accadere ovunque, in qualsiasi momento. Il comunicato prosegue invitando i cittadini americani a evitare raduni e assembramenti che possono comportare interventi della polizia. In risposta al segnale di pericolo lanciato dall’ambasciata Usa, per la città girano ora in pattugliamento veicoli blindati. Addis Abeba è una città pericolosa, ma fuori dalla capitale va anche peggio. Nella regione Amhara, dopo l’accordo di Pretoria del 2022, che ha insabbiato i problemi tra governo e Tplf (Tigray People’s Liberation Front) senza risolverli, i Fano che combattono contro l’esercito federale, hanno conquistato circa l’80 per cento del territorio. Conflitti sanguinosi con schieramenti opposti di soldati, armi e droni, ignorati dalla stampa internazionale che li considera evidentemente “minori” rispetto alle guerre in corso in altre parti del mondo. Addis, oltre che violenta, però è anche una capitale in fase di restyling. Se non cambiasse non potrebbe attirare investimenti stranieri, sostiene il premier Abiy Ahmed. È però sui motivi reali di questo cambiamento che molti scuotono la testa, pur raccontando che gli investimenti esteri sono un chiodo fisso per il premier, soggiogato dalla spettacolarità di Dubai. Il rinnovamento in Etiopia si chiama Corridor Development Project, CDP, un piano urbanistico lanciato nel dicembre 2022 per costruire nuove infrastrutture che rendano la capitale più pulita e vivibile, grazie a parchi, piste ciclabili e trasporto pubblico. Però non è tutto oro quello che luccica. A metà aprile Amnesty International ha pubblicato un rapporto in cui chiede al governo federale di sospendere il CDP, denunciandone gli sgomberi forzati e la violazione dei diritti umani. Sfratti indiscriminati, assenza di indennizzi e allontanamenti senza alternative: secondo Amnesty, il governo viola norme internazionali firmate anche dall’Etiopia. Una delle prime fasi del progetto urbano è cominciata proprio nel centro storico di Addis Abeba, nel 2023. “Piassa” è una delle zone colpite dagli sgombri. Nonostante il nome di origine italiana, per la breve occupazione dal 1936 al 1941, il quartiere è molto caro agli etiopici. Ne fanno parte le diverse culture presenti nel paese, con le chiese di molte confessioni, vecchie case, alberghi storici, come l’Itegue Taitu Hotel, costruito nel 1898 e persino la prima banca d’Abissinia. E poi numerose attività commerciali, negozi tramandati di generazione in generazione, come le macellerie e i pellettieri. Tutto questo ora è sparito, portando con sé abitudini e tradizioni. “Molti degli abitanti di Piassa”, spiega una fonte che vuole rimanere anonima, “abitavano in case costruite ai tempi di Hailè Selassiè, del Derg, (ndr, la giunta militare di Menghistu Haile Mariam) e poi di Meles, cioè edificate prima dell’arrivo, nel 2018, del premier Abiy. Queste persone sono state cacciate, senza risarcimenti e senza ricevere reali soluzioni alternative, come un affitto calmierato”. Molti sono stati sfrattati di notte. A chi viveva nella propria abitazione, magari da cinquant’anni, sono stati concessi pochissimi giorni per abbandonarla. L’Economist parla di undicimila persone evacuate. Quando arrivano i bulldozer la gente li guarda in silenzio, senza protestare, perché la polizia non lo tollererebbe. Gli sfrattati hanno detto ad Amnesty che le loro abitazioni erano registrate come “Sened Alba”. Cioè prive di certificati di proprietà, sened significa infatti documento. E questo sembrerebbe essere l’appiglio governativo per gli espropri, l’assenza di certificazione. Ma il dramma non finisce qui. In Etiopia spesso le abitazioni famigliari comprendono nuclei allargati. Le case sono in parte abitate da una famiglia che ne affitta una stanza ad altri. Quindi con l’esproprio molti cittadini hanno perso in un colpo casa e reddito. E ancora, gli espropri hanno reciso i legami sociali e il welfare di interi quartieri. Nello stesso rapporto di Amnesty si riportano le testimonianze di persone disperate per aver perso l’idr. Di che si tratta? “L’idr”, mi spiega la fonte, “è un’importante associazione di assistenza di quartiere formata dalle persone che vivono nella stessa zona”. Si fonda sulla solidarietà economica e sociale, aiutando le famiglie che ne fanno parte nei momenti difficili, per esempio quando devono affrontare un lutto. Il lutto è un rito centrale nella cultura di molti Paesi, tra questi l’Etiopia. Dura sette giorni durante i quali amici e parenti portano conforto. I soldi per l’accoglienza e la predisposizione del das, il capannone apposito, arrivano dall’Idr, che copre anche il costo del funerale. Tutte le persone che appartengono all’associazione versano una quota mensile, per garantirsene i servizi. “L’Idr è nata per promuovere l’uguaglianza, senza nessuna discriminazione”, aggiunge la fonte. Il primo ministro Abiy, lo scorso gennaio ha minimizzato questi problemi, affermando che “a Jimma (ndr, in Oromia) i 15.000 sfrattati non hanno chiesto risarcimenti”. Però, parlando con gli etiopici, si scopre che proprio il piano urbanistico messo sotto accusa da Amnesty è la punta dell’iceberg di un problema ben più grande. Gli sfollati, obbligati a abbandonare le case e la capitale, sono per lo più di etnia amhara. E questo non è casuale ma fa parte di un processo iniziato nel 2022, quando la sindaca oromo di Addis Abeba ha deciso di impedire agli amhara l’ingresso, facendo controllare la carta d’identità da cui risulta l’appartenenza etnica. "Da quando c’è il premier Abiy”, spiega la fonte, “si lavora nell’amministrazione pubblica solo se si è oromo. Oromo è la lingua della polizia e del commercio. Buttare giù le case del centro vuol dire eliminare dalla città le persone che appartengono a etnie poco “gradite” e in conflitto con il governo, come gli amhara e i guraghi. È un tentativo di ethnic engineering, un rimpasto forzato per aumentare il numero di persone oromo nella capitale, escludendo gli altri”. Una politica di sostituzione etnica, il lato oscuro del federalismo, per “oromizzare” la capitale nella quale i cittadini amhara sono circa il 60 per cento. Una situazione che si nota anche nelle insegne non più in amarico ma in oromo. Se questo è il reale scopo del CDP finanziato con fondi pubblici, non sarà un rapporto sui diritti umani che potrà fermarlo. L’Etiopia, terza economia africana con un Pil da 111 miliardi di dollari e 120 milioni di abitanti, ha subìto un arresto dopo la guerra nel Tigray. La crescita si è fermata, l’inflazione è salita al 40 per cento e il governo è stato costretto a varare un piano di ricostruzione da 380 milioni di dollari, in parte finanziato dalla Banca Mondiale. Inoltre i lavoratori stanno pagando una nuova tassa per colmare il vuoto lasciato dai tagli degli aiuti americani. Stretti in questa morsa, ai cittadini non resta che sperare in un cambiamento: una vera pacificazione tra i gruppi etnici, che restituisca sicurezza e stabilità all’Etiopia e all’intera regione del Corno d’Africa. "Il mio primo istinto è stato quello di dire... ሹሽ! Ma a volte è meglio dire ciò che ho veramente in mente... e solo perché questa volta ha oltrepassato il limite." https://x.com/hawelti/status/1915398876481147114 L'incessante disprezzo di Tibor Nagy per l'Eritrea non tradisce una posizione geopolitica informata, ma una profonda inquietudine interiore. La sua fissazione per l'Eritrea, in particolare per la sua leadership, rivela meno del Paese in sé e più del suo disagio nei confronti delle nazioni che si rifiutano di cedere alle pressioni esterne. L'impegno dell'Eritrea per la sovranità, l'autosufficienza e la resistenza basata sui principi è l'antitesi di tutto ciò che Nagy ha cercato, senza successo, di minare nel corso della sua carriera. Non sono uno psichiatra, ma i continui attacchi di Nagy all'Eritrea e al presidente Isaias Afwerki non sono espressione di diplomazia; sono manifestazioni di risentimento personale. Gli eritrei, un popolo coraggioso e dignitoso, si erge a testa alta di fronte alle avversità, indifferenti a sanzioni, calunnie o sabotaggi. La loro libertà non è stata un dono, ma una conquista, la loro unità non è stata imposta, ma una scelta. Queste sono virtù che i piccoli uomini trovano minacciose. L'eredità dell'Eritrea, forgiata nel sangue e in un'incrollabile resilienza, non può essere cancellata da coloro che trafficano con amarezza e revisionismo storico. Queste insicurezze furono più evidenti durante il mandato di Nagy come ambasciatore degli Stati Uniti in Etiopia dal 1999 al 2002, al culmine della guerra tra Eritrea e Etiopia. In quel momento critico, nutriva una silenziosa ambizione: vedere l'Eritrea inginocchiata: isolata politicamente, indebolita economicamente e diplomaticamente annientata. Il suo allineamento con il regime cleptocratico minoritario del TPLF non fu casuale. Fu deliberato. Il loro complesso di inferiorità si sposava perfettamente con la sua superiorità da salvatore bianco. Insieme, scambiarono la posizione di principio dell'Eritrea per ostinazione e il suo silenzio per debolezza. Ma l'Eritrea non si piegò. Si rifiutò di cedere alle prepotenze geopolitiche o ai burattini regionali. Rimase, come sempre, guidata dalla chiarezza d'intenti e dalla fedeltà al suo popolo. Quel rifiuto di conformarsi, di tradire i propri valori in cambio di aiuti, applausi o allineamento, è ciò che continua a tormentare Nagy. La sua amarezza oggi non è quella di uno stratega, ma di un uomo il cui piano d'azione non è riuscito a minare la determinazione di una nazione sovrana. Non c'è da stupirsi che non ci fosse posto per Tibor Nagy e i suoi simili nell'amministrazione Trump. Il suo approccio, radicato nel paternalismo, nella condiscendenza e nei postumi della Guerra Fredda, non aveva posto in un mondo in evoluzione che iniziava a mettere in discussione gli stessi presupposti che avevano plasmato uomini come lui. Mentre la politica statunitense cercava di staccarsi da alcuni dei suoi impulsi più interventisti, il copione obsoleto e le narrazioni stantie di Nagy sono diventati irrilevanti. La sua incapacità di adattarsi lo ha reso obsoleto, una figura relegata a gridare dall'esterno, unendosi al coro di ex agenti e analisti diventati opinionisti. E ora, con il ritorno della stagione dell'EriFluenza, il periodo dell'anno in cui tutti gli elementi anti-eritree si affannano per attirare l'attenzione sui social media, disperati per rimanere al passo con i tempi, anche Nagy torna sotto i riflettori. I loro sintomi sono fin troppo familiari: argomentazioni riciclate, indignazione performativa e un bisogno compulsivo di parlare sopra gli eritrei piuttosto che interagire con loro. Ma il mondo sta cambiando. La voce dell'Eritrea non viene più sussurrata per procura. Si sente chiaramente e parla con convinzione. Contrariamente a quanto si crede, l'America rispetta chi rispetta se stesso. Non ha mai avuto molto bisogno dei collaborazionisti, di coloro che svendono il proprio popolo per l'illusione di una vicinanza al potere. Nel lungo arco dell'impegno degli Stati Uniti, la storia favorisce i risoluti rispetto agli accondiscendenti. L'Eritrea, scegliendo la dignità anziché la dipendenza, ha dimostrato che il rispetto non si elemosina, ma si impone. Oggi, mentre l'ordine globale si sposta verso il multipolarismo e una rinnovata enfasi sulla sovranità nazionale, figure come Nagy vengono sempre più emarginate. Non c'è spazio nella nuova era della diplomazia per coloro che guardano all'Africa attraverso la lente del dominio e del clientelismo. La sua rilevanza è venuta meno, eclissata da una generazione che si rifiuta di scusarsi per aver difeso la propria dignità. Per Tibor Nagy, l'odio è diventato la sua unica stampella, un sostegno vuoto a cui si appoggia per rimanere parte di conversazioni che ormai lo hanno superato. I suoi attacchi all'Eritrea non sono critiche, sono proiezioni. Scambia la forza dell'Eritrea per arroganza perché non riesce a comprendere una dignità che non derivi dalla sottomissione. L'Eritrea, nel frattempo, rimane salda, non con le stampelle, ma con chiarezza. Il suo popolo non ha ereditato la libertà; ha combattuto per essa. Non ha bisogno di conferme da parte di chi non l'ha mai capito. La strada dell'Eritrea non è per i deboli di cuore, e certamente non per coloro la cui unica eredità è la lamentela, non il coraggio. Il presidente Donald Trump sta facendo pulizia, e giustamente. Le nazioni africane meritano un impegno diplomatico di alto livello, competente e rispettoso, proprio come qualsiasi altra regione. L'Africa non dovrebbe essere trattata come un luogo in cui diplomatici più giovani o meno competenti vengono inviati a "farsi le ossa" o a praticare la diplomazia, come se la posta in gioco e le persone coinvolte fossero in qualche modo meno importanti. credit Ghideon Musa Aron Post del Ministro dell'Informazione
Gli avvoltoi sono tornati. Cacciato dal Dipartimento di Stato a malapena a metà del suo contratto temporaneo di sei mesi, l'incapace Tibor Nagy sta freneticamente cercando compensi per i lobbisti e sembra essersi già assicurato un pagamento anticipato da alcune fonti. Motivo per cui ripete maliziosamente le diatribe del RASDO, un oscuro e insignificante gruppo sovversivo creato e incubato dai precedenti regimi etiopi decenni fa. (Aspettatevi di più dalla Lega Eritrea nelle prossime settimane di Eri-Influenza, le storiche settimane del 34° anniversario dell'indipendenza dell'Eritrea. Al Jazeera darà ampio spazio a questi blog sovversivi sul suo sito web, seppur con l'improbabile nota di esclusione di responsabilità, per i propri secondi fini) Yemane G. Meskel Ministro dell'Informazione dello Stato dell'Eritrea New York, 21 aprile 2025
*"...Tuttavia, oggi il multilateralismo è seriamente minacciato. La crescente tendenza a eludere o indebolire il sistema multilaterale attraverso l'unilateralismo, la politicizzazione, le pratiche coercitive e le sanzioni ha eroso la fiducia tra le nazioni. Queste azioni non solo diminuiscono la rilevanza della diplomazia multilaterale, ma violano anche i diritti sovrani degli Stati, in particolare quelli dei Paesi in via di sviluppo del Sud del mondo". *"...Nonostante queste sfide, l'Eritrea continua a credere fermamente nel multilateralismo basato sui principi, inclusivo, rappresentativo e radicato nel rispetto reciproco e nell'uguaglianza sovrana di tutte le nazioni. La sua partecipazione attiva alle piattaforme multilaterali testimonia il suo impegno costruttivo e la sua dedizione a promuovere il benessere delle comunità a livello globale. È impegnata in modo costruttivo nel promuovere la pace e la stabilità in Sudan, Sud Sudan e Somalia, nazioni che continuano ad affrontare sfide complesse. I nostri sforzi si basano sulla convinzione che le soluzioni regionali, fondate sul rispetto reciproco e sulla titolarità nazionale, siano essenziali per raggiungere una pace e una stabilità durature. Tale approccio dà priorità al dialogo autentico, alla non interferenza e alla solidarietà tra gli Stati confinanti, riconoscendo che una pace sostenibile deve essere guidata dal popolo e dalla leadership della regione stessa". *"...Il multilateralismo deve evolversi per riflettere le attuali realtà multipolari. Deve dare centralità alle voci dei paesi in via di sviluppo e dare priorità alle loro aspirazioni. Non possiamo parlare di "diplomazia e pace" tollerando doppi standard, responsabilità selettive e la continua emarginazione dell'Africa e di altre regioni. Corno d’Africa: non la conflittualità, ma una piena sovranità può fare l’interesse dei suoi popoli14/4/2025 Dell'insorgenza delle milizie FANO nello stato etiopico dell'Amhara, a livello internazionale, non si parla ancora a sufficienza; ma la gravità della situazione è tale da richiedere la nostra attenzione, perché testimoniano dinamiche di cui il Corno d'Africa davvero non sente alcuna necessità.
Di Filippo Bovo 14 Aprile 2025 In Etiopia, nello stato del Tigray, le conflittualità tra le fazioni di Debretsion Gebremichael (TPLF-D) e di Getachew Reda (TPLF-G) dentro il TPLF (Tigray People’s Liberation Front) sembrerebbero aver trovato un momentaneo tampone con la sostituzione del secondo, ormai esautorato dal primo, con un nuovo presidente ad interim, il Generale Tedesse Warede scelto dal primo ministro etiopico Abiy Ahmed; ma è solo un risanamento di facciata. Reda, allontanatosi dal Tigray, è probabilmente coinvolto insieme al Governo Federale nell’insorgere di una nuova, inedita rivolta armata nel Tigray contro le autorità del TPLF, ma in tal merito le notizie sono ancora troppo fresche per potersi lanciare in giudizi certi. Certo, solo la fazione di Debretsion dispone nel TPLF di una reale forza militare, e quindi a potervisi opporre non può essere che qualche altro elemento, assistito dall’esterno; e che tra il Governo Federale e quella fazione, la TPLF-D, ci siano al momento vari problemi ad andar d’accordo, non è un mistero. Dopotutto, per ragioni di convenienza politica e tattica, la fazione TPLF-D non ha oggi interesse a farsi cavalcare dal Governo Federale in una guerra contro la vicina Eritrea, per guadagnare uno sbocco sul mare che nessuno, a livello internazionale, sarebbe peraltro disposto legalmente ad avallare. Come avevamo raccontato anche in un precedente articolo, le conflittualità diplomatiche (potenzialmente in grado di sfociare in più aperte conflittualità d’altro genere, e proprio per tale motivo per nulla giustificabili) che oggi Addis Abeba sta manifestando coi suoi vicini, dall’Eritrea alla Somalia fino alla stessa Gibuti, a tacer poi del ruolo di supporto alle RSF (Rapid Support Forces) in Sudan, sono espressione di una volontà della sua leadership di scaricare verso l’esterno le non poche e crescenti contraddizioni interne, dalla crisi economica e valutaria ai tanti conflitti etno-militari che ne scuotono, oltre al Tigray, anche gli stati dell’Oromia, addirittura dell’Ogaden, o ancora dell’Amhara. Proprio nell’Amhara, secondo stato del paese per dimensioni ed importanza, vi è una ribellione armata che dura dal 2023 e sempre più sta incidendo come un vero e proprio maglio sulle fibre del Governo e dell’Esercito Federale: con la loro avanzata le milizie FANO hanno ormai sotto il loro controllo più di metà dei distretti, oltre ad altre aree esterne, e sono inoltre riuscite a catturare, con relativo e non poco armamento, molti militari etiopici che avrebbero dovuto contrastarli, a tacer di quelli addirittura passati di propria sponte dalla loro parte. Le condizioni umanitarie nella regione sono molto gravi, stando a vari osservatori persino più gravi che nel Tigray dove, in modo discontinuo e disordinato, e lontano dalla sufficienza, un po’ d’aiuti nel tempo sono comunque arrivati (e qui sorvoliamo sul tenore, e spesso sulle reali motivazioni, che si celano dietro a certi aiuti, perché s’aprirebbe un capitolo infinito: si pensi a cosa spesso giunge, spacciato per aiuto umanitario ma ben lontano dall’esserlo, come armi o munizioni, o a chi vanno a finire in mano, e all’uso clientelare che poi ne va a fare); non sono mancati neppure, tra i vari scontri avvenuti, dei fatti piuttosto sanguinosi, come a Bakrat nel marzo scorso, con le truppe federali che hanno colpito i civili, donne per prime, in base al principio per cui “se la guerriglia è il pesce e il popolo la sua acqua, allora togliendo l’acqua il pesce muore”. Così diceva infatti Mao, parlando del rapporto essenziale tra popolo e movimenti di guerriglia; e così gli replicava il famigerato Efrain Rios Montt, ex presidente guatemalteco, su come spezzare quel rapporto, semplicemente togliendo al pesce l’acqua che gli era necessaria per vivere. Tuttavia, malgrado le gravi responsabilità di cui si sono coperte le truppe federali, con un bilancio tra i civili ben più grave di quanto visto altrove, tanto da far gridare vari osservatori ad una vera e propria strage degli Amhara da parte del Governo Federale, i FANO continuano ad avanzare; ancor più se pensiamo che per reazione proprio tali continui episodi contribuiscono, e non poco, alla loro popolarità di liberatori e patrioti. Il loro obiettivo, e non lo nascondono, è d’abbattere il Governo Federale e certamente, se consideriamo anche la contemporanea azione d’altri gruppi militari attivi nel resto del paese, impegnati nella lotta contro il potere centrale, le possibilità che gli assestino un duro logoramento non sono certo così remote. Intorno allo scorso anno vi erano stati contatti tra emissari di Addis Abeba e dei FANO, ad un certo punto arenatisi senza aver risolto la grave situazione regionale; che da allora è persino peggiorata, estendendosi anche ad altre aree, probabilmente alimentando anche lo spirito di lotta degli altri movimenti in lotta col potere centrale, come l’ONLF in Oromia. Anche in questo caso, e soprattutto riguardo a certi ultimi clamorosi successi riportati dai FANO, da Addis Abeba sono state lanciate accuse su una mano esterna che li avrebbe alimentati; e l’indice è stato puntato, neanche a farlo apposta, su Asmara, ormai adottata a facile capro espiatorio degli annosi problemi interni etiopici. Tuttavia questo approccio, come già abbiamo raccontato in precedenza, è da considerarsi irresponsabile e potenzialmente foriero di più gravi conflittualità, a cui probabilmente è proprio quanto Addis Abeba e certi particolari gruppi d’interesse dalla forte e notoria influenza sulla sua linea politica mirano ad ottenere. Tale approccio, indubbiamente autolesionista per l’Etiopia e per l’intera regione, non fa l’interesse di nessuno dei popoli che vi abita e risponde unicamente alle ambizioni di quei gruppi, comodamente ubicati all’estero, dall’Europa al Nord America e non solo, che fin troppo spesso son soliti avvalersi di un paese per cavalcarlo come ariete in Africa e in altre parti del “Sud del Mondo”. L’Africa non ha bisogno di questi gruppi d’interesse, politici ed economici, per i quali le vite degli africani servono unicamente ad arricchire il proprio potere e i propri guadagni. L’Eritrea, che della nociva influenza neocoloniale di questi gruppi s’è sbarazzata fin dal primo giorno della sua Indipendenza, di cui presto ricorrerà l’Anniversario, e che in tutti questi anni ha continuato efficacemente a combatterli, ne è il più chiaro esempio: un paese africano può essere veramente libero e svilupparsi soltanto con una piena sovranità, pieno diritto dei suoi cittadini. Proprio per questo, però, sempre per quei gruppi d’interesse, e per la politica di quei paesi su cui hanno ancora un’influenza, paesi come l’Eritrea diventano il puntuale capro espiatorio da punire, diffamare, sanzionare e bandire internazionalmente: proprio come sta avvenendo, e forse continuerà ad avvenire, per gli odierni contrasti che oggi dilaniano l’Etiopia, di cui tuttavia Asmara non ha alcuna responsabilità. Semmai, Asmara avrebbe interesse a coltivare, con un’Etiopia finalmente in pace al suo interno e coi suoi vicini, un rapporto fruttuoso come già altre volte tentò in passato; e, sempre come dimostrato dalle esperienze passate, sarebbe lieta pure di darle un aiuto per sanare molte delle sue ormai croniche difficoltà. E’ un momento, quello, che prima o poi arriverà. E’ nato ad Asmara il sodalizio artistico tra il sottoscritto e l'amico Yonas.
Insieme, con mini documentari autoprodotti, vi racconteremo la nostra Eritrea in attesa di un vero e proprio documentario sul "fenomeno immigrazione" che arriverà a breve. Sarà un progetto importante per sottolineare ancora una volta che non è proprio come ce l'hanno sempre raccontata ma, soprattutto, che non esiste affatto nessuna "accoglienza umanitaria". Ecco, semmai nutriste qualche dubbio sulla narrativa dei media mainstream, il nostro documentario ve ne fornirà molti altri. Ad majora! di Marilena Dolce
Un caso “anomalo”: l’Eritrea, unico paese in Africa da sempre senza Usaid. Che per l’Africa l’aiuto occidentale non funzionasse era cosa nota da tempo. Tuttavia la scossa forte è arrivata dal presidente americano Donald Trump che, all’inizio del mandato, ha detto di voler far pulizia nel mondo degli aiuti. E così è stato. Prima vittima eccellente Usaid, organizzazione americana per la cooperazione internazionale, fondata nel 1961 da John F. Kennedy, presente in più di cento Paesi. Nel 2024 Usaid, aveva un budget preventivato di circa 42,8 miliardi di dollari. Lunedì 10 marzo il segretario di stato Marco Rubio ha dichiarato che in sei settimane l’amministrazione Trump ha tagliato l’83 per cento di Usaid, passando la restante quota al dipartimento di Stato. “Eliminati 5.200 contratti costati miliardi di dollari, che non hanno servito, e in alcuni casi hanno persino danneggiato gli interessi nazionali degli Stati Uniti”, ha scritto su X il Segretario di Stato. Le motivazioni ufficiali fornite dall’amministrazione riguardano l’eliminazione di sprechi e l’obiettivo di utilizzare in modo più efficiente i fondi pubblici, per promuovere gli interessi americani. In termini di occupazione, benché non ci siano dati certi, si ritiene che negli Stati Uniti siano stati licenziati a Washington 1.600 funzionari Usaid, più altri 8.000 nell’indotto e 5.000 all’estero. Altri tagli di fondi americani per organizzazioni attive in Africa, coinvolgono l’International Development Association (IDA), l’African Development Found (AfDf) e il World Food Program (WFP). Così, mentre il terremoto che ha travolto Usaid è ancora in corso, il Financial Times pubblica un articolo sul “paese che ha cacciato Usaid vent’anni fa”, ovvero l’Eritrea. Due decenni dopo sono altre infatti le nazioni africane a dover fare i conti con il taglio degli aiuti. Ma come se l’è cavata l’Eritrea che l’anno scorso è stata l’unica nazione africana a non ricevere aiuti dagli Stati Uniti? Nello stesso articolo il Financial Times riporta stralci di un’intervista rilasciata dal presidente Isaias Afwerki prima dell’espulsione, nel 2005, di molte ong e agenzie UN “Se hai bisogno di qualcosa e nessuno te lo dà”, dice il presidente, “ti sforzi ancora di più per farcela da solo”. E proprio questo sforzo per far da sé, è la via indicata adesso da molti intellettuali e politici africani, dopo il taglio degli aiuti. Dice Arikana Chihombori-Quao, ex ambasciatrice dell’Unione Africa negli Stati Uniti, riferendosi al lavoro di Usaid e in generale delle Ong in Africa, che sono “lupi travestiti da agnelli”. Sulla carta, spiega, tutto sembra buono, poi però, a distanza di tempo, quali sono i risultati? Se si guardano i due campi dove maggiormente operano, sanità e istruzione, in nessuno dei due si sono visti miglioramenti. Nel marzo 1998, poco prima dello scontro con l’Etiopia, il Los Angeles Times intervista il presidente dell’Eritrea, allora considerato dall’America un esempio di eroe combattente, un politico visionario, “l’onda del futuro” per la “storia di successo”, del suo Paese. Così si legge nell’articolo che ricapitola come l’Eritrea, avesse combattuto da sola, unita e solidale, cementando etnie e religioni nell’ideale di nazione. Fin dall’inizio l’Eritrea si pone su un piano diverso, cominciando proprio dal rifiuto degli aiuti. Nonostante il paese dopo trenta lunghi anni di combattimenti, dal 1961 al 1991, sia distrutto, Isaias dice subito che l’aiuto non deve far parte nel loro vocabolario. “Le elemosine della comunità internazionale per avere cibo e quant’altro, ti paralizzano”, spiega nell’intervista, “costringendoti a vivere per sempre di aiuto, pensando che la comunità internazionale sia responsabile per te”. La strada “anomala” che l’Eritrea imbocca fin dall’inizio è quella della self reliance, del far da sé, come ricordato ora dal FT. L’aiuto, ripete Isaias, è una droga che alla fine ti blocca. Al massimo dovrebbe essere un’aspirina, un farmaco temporaneo di cui non abusare. “Meglio prendere una medicina amara per curare la malattia piuttosto che sviluppare una dipendenza”, concludeva il presidente Isaias già nel 1998. Parole che tanti anni dopo ritornano nei commenti sulla chiusura di Usaid, “che l’Africa non riceva più aiuti in un colpo solo o abbia il metadone, questo è ora il problema”, dice al FT il funzionario di un istituto finanziario. Mentre Ngozi Okonjo-Iweala, direttrice dell’Organizzazione generale del commercio ed ex direttrice generale della Banca Mondiale, lancia un appello perché i paesi coinvolti ricevano finanziamenti ad interim, per evitare il vuoto soprattutto nell’assistenza sanitaria. Sollecitando comunque i paesi africani ad assumersi le proprie responsabilità. L’aiuto esportato finora in Africa è l’opposto della partnership, delle relazioni win-win, degli accordi tra pari.E alla partnership l’Eritrea ha sempre creduto. Ora, infatti, è in prima linea con i progetti del Piano Mattei lanciato a Roma, durante Italia-Africa nel 2024. Se da un lato non spetta ad altri, disse a suo tempo il presidente Isaias, dettare gli obiettivi per il nostro Paese, allo stesso tempo siamo pronti a sederci a un tavolo per stabilire con i partner, capacità, risorse e competenze necessarie per la crescita del Paese.Nel 2010, durante una lunga intervista al settimanale italiano Panorama, sempre il presidente Isaias, spiegò ancora una volta il punto di vista eritreo sugli aiuti. “Noi vogliamo costruire una nazione, un’economia, un governo. Se vogliamo costruire scuole, strade, servizi, dobbiamo avere un piano per ogni settore e per ogni regione del Paese. Nessuno può dirci di abbandonare i nostri programmi per seguire i loro…molte Ong hanno detto che dovevano realizzare i loro programmi a prescindere dai nostri. Per questo se ne sono andate”. Sulle agenzie Onu, Isaias è, fin da allora, ancora più esplicito, “Quanti così detti esperti sono impiegati da queste agenzie in Africa? E quanto denaro è speso da tali agenzie? È devastante perché dove sono loro non è possibile sviluppare le capacità e le istituzioni locali. C’è bisogno di addestrare i tecnici locali ma non è possibile perché i tecnici arrivano dall’estero. Si potrebbe impiegare manodopera locale invece si assume gente da fuori…”. A pensarla così è anche l’economista Dambisa Moyo che nel 2009 scrive Dead Aid, libro in cui spiega perché gli aiuti occidentali non fanno bene all’Africa. “Perché”, chiede, “la maggior parte dei paesi dell’Africa sub sahariana non esce dal circolo vizioso corruzione, malattia, povertà e dipendenza dagli aiuti, nonostante sia l’area che ne riceve di più, almeno dal 1970”. La risposta è che la povertà dei paesi africani è causata proprio dagli aiuti. Il concetto di quid pro quod è applicato agli aiuti. I Paesi che li ricevono devono spenderli per merci e servizi provenienti dai paesi donatori. Anche il personale arriva dai paesi donatori, persino quando nel paese povero esistono persone adatte all’incarico. Il donatore può scegliere l’ambito e il progetto d’investimento, inoltre gli aiuti arrivano purché il beneficiario accetti una serie di misure politiche ed economiche che piacciono al donatore. Torniamo all’articolo del FT che si chiede come sia andata all’Eritrea che ha messo in pratica il suo “cocciuto spirito di autosufficienza”. La risposta è che “se l’è cavata bene negli ultimi due decenni, come altri Paesi che hanno beneficiato di miliardi di generosità da parte dei donatori”. Che l’Eritrea abbia percorso finora una strada in salita, ricevendo sanzioni anziché aiuti è un dato. Come un dato sono i traguardi raggiunti, cominciando da quelli indicati per il millennio. E il FT riprende tali traguardi, aspettativa di vita di circa 68 anni, uguale al Ruanda, che “riceve un miliardo” dai donatori. “Secondo la Banca Mondiale più eritrei hanno accesso all’elettricità rispetto alle persone in Uganda, che nel 2022 ha ricevuto 2,1 miliardi di dollari rispetto ai soli 55 milioni di dollari dati all’Eritrea dalle agenzie UN. Aggiungerei i dati sull’istruzione e sulla sanità.Nel 1991, prima dell’indipendenza, in tutta l’Eritrea c’erano 471 scuole frequentate da 220 mila ragazzi mentre l’unica Università era ad Asmara. Oggi ci sono 1.540 scuole frequentate da 860 mila studenti (su 4 milioni di abitanti) e 7 college nei diversi capoluoghi. La scuola è gratis per tutti, a tutti i livelli, uguale per maschi e femmine. Quanto alla sanità, le vaccinazioni sono diffuse in tutto il Paese. Nel 1991 l’incidenza dell’AIDS era del 4,5% oggi è dello 0,9%. Migliorata la salute delle donne in gravidanza, la sicurezza del parto e la mortalità infantile, risultati raggiunti grazie ai molti ambulatori sorti sul territorio. Per terminare, una riflessione sul rapporto tra aiuti e politica, così come raccontato da S.W Omamo, nel libro At the Center of The World in Ethiopia che scrive “ciò che ha visto, sentito e fatto” come direttore del programma alimentare mondiale UN, WFP dal 2018 al 2021. È lui che spiega le false narrazioni a beneficio della comunità internazionale e dei media messe in atto da politici infiltrati nella stessa organizzazione di stanza ad Addis Abeba. A loro è stato permesso, durante la prima fase di scontro in Tigray, tra governo etiopico e Tplf, di raccontare la sofferenza della gente (obiettiva) con dati falsi. In questo modo la fame e la carestia avrebbero potuto premere per un accordo tra governo e Tplf. Famoso il tweet di Samantha Power, (@PowerUSAID, account non più esistente…) in cui afferma che nel Tigray 900 mila persone sono sull’orlo della carestia, utilizzando dati provvisori del WFP. Leggendo i commenti social sulla chiusura Usaid, oltre all’inevitabile “preoccupazione” internazionale, quello che emerge è lo spirito di rivalsa dell’Africa, che forse con questa scossa seguirà la strada “anomala” eritrea che da sempre ha evitato la carità pelosa, più interessata al benessere di chi dà rispetto a quello di chi riceve. Marilena Dolce, giornalista. Da più di dieci anni viaggio verso il Corno d'Africa e da altrettanti scrivo ciò che vedo. Soprattutto per Eritrea ed Etiopia ma non solo. Dal 2012 scrivo per EritreaLive, notizie e racconti in diretta dall'Eritrea. Perchè per capire il mondo bisogna uscire dal proprio quartiere, anche solo leggendo. JEFF PEARCE
27 MAR 2025 Protesta eritrea Oberuzwil, Svizzera, 2 settembre 2023 Alla Brigade Nhamedu: "Odio ciò che rappresenti, che è una vera e propria perversione dell'idea di opporsi al potere. Perché tu non ti opponi al potere. Ti sei allontanato da quel potere, hai messo radici in un bel posto accogliente in Europa o Nord America e poi hai attaccato le persone ai festival dove naturalmente non si aspettano di doversi difendere. Odio la tua falsa crociata e mi rifiuto di temere ciò che è per sua natura spregevole e codardo. E non dovrebbe farlo nessun altro". ** È giunto il momento di parlare della follia che affligge la diaspora eritrea. E della copertura positiva e cinicamente distorta che un gruppo terroristico ottiene sui siti di notizie occidentali. Quel gruppo si chiama Brigade Nhamedu e, da qualsiasi punto di vista oggettivo, è composto da psicopatici. Non lo dico alla leggera. Ma come altro chiameresti i membri di un movimento che attacca deliberatamente le persone alle feste pubbliche e ha provocato incidenti violenti in Svezia, Germania, Canada e Israele (ne parleremo più avanti). Che tratta la violenza come il suo modus operandi e la celebra. Peggio ancora, le operazioni dei media occidentali che hanno trattato il Tigray People’s Liberation Front (TPLF) come eroi durante la sua guerra con le forze federali etiopi ora considerano Brigade Nhamedu i nuovi coraggiosi sfavoriti, anche se non sempre li identificano per nome, di solito li chiamano semplicemente “manifestanti”. Ci sono due ragioni per questo spudorato sostegno. Per chi non lo sapesse, è un segreto di Pulcinella che molti dei ranghi della Brigata Nhamedu sono composti da zelanti fanatici del TPLF fuggiti dall'Etiopia e falsificati le loro richieste di asilo fingendosi eritrei. Solo di recente le autorità occidentali hanno scoperto la truffa. In parte perché i membri del TPLF non possono fare a meno di vantarsi sulle piattaforme dei social media e qualche idiota ha tradito il gioco. Il Daily Mail è stato troppo ignorante o troppo pigro per fare le dovute ricerche per confermare che la maggior parte dei falsi rifugiati erano di origine tigraya, chiamandoli semplicemente etiopi. L'altro motivo è che la narrazione della Brigata Nhamedu viene spacciata da alcuni degli stessi giornalisti senza scrupoli che per primi hanno mentito sul TPLF. Ecco come un articolo dell'Associated Press ha capovolto la sceneggiatura nel 2023 e ha praticamente trasformato una storia sui teppisti ai festival culturali nel Boston Tea Party: "Auto in fiamme, scontri violenti, decine di persone arrestate. Mentre uno dei paesi più repressivi al mondo celebra 30 anni di indipendenza, i festival organizzati dalla diaspora eritrea in Europa e Nord America sono stati attaccati da esuli che il governo eritreo liquida come "feccia dell'asilo". L'articolo è di Cara Anna. E in questo momento, gli etiopi che leggeranno questo articolo staranno roteando gli occhi e borbottando: Certo. Perché è facile riconoscere Cara Anna: è lei quella con i pantaloni costantemente in fiamme per le falsità e le distorsioni che ha scritto. Ma ora la Brigata Nhamedu ha esagerato e ha scoperto le sue carte. Un articolo dell'AP scritto da Kirsten Grieshaber nota che la polizia in sei stati tedeschi ha condotto delle incursioni e ha arrestato 17 sospettati. In Germania, non stanno scherzando. Considerano la Brigata Nhamedu un gruppo terroristico, e lo è, poiché "ha coordinato violente rivolte ai festival dell'Eritrea a Giessen il 20 agosto 2022 e il 7-8 agosto 2023, nonché il seminario di un'associazione eritrea a Stoccarda il 16 settembre 2023. Numerosi agenti di polizia sono rimasti feriti durante gli eventi, alcuni dei quali gravemente, e decine di manifestanti sono stati arrestati". Ecco cosa è davvero affascinante. Grieshaber nasconde il fulcro. Ci vuole fino al paragrafo 7 per arrivare a quella che è probabilmente la vera ragione per cui le autorità tedesche si sono abbattute sulle case in Assia, Baviera e altre località. Paragrafo 7. È lì che leggi questo: "I pubblici ministeri affermano anche che alcuni membri dell'associazione considerano legittima la violenza contro le istituzioni statali tedesche e gli agenti di polizia". Anni fa, ho previsto che alcuni esuli del TPLF si sarebbero trasformati in un sindacato del crimine organizzato o in un'organizzazione terroristica. Sembra che avessi ragione almeno in parte, ma non ne traggo alcun piacere. Ho studiato le gang, ho scritto un intero libro su di loro, che è stato persino usato come libro di testo di criminologia, e ho studiato terrorismo e insurrezioni per ottenere il mio master. Stavo già studiando alcune di queste cose comunque per il mio libro, Prevail. E posso assicurarti che la situazione diventerà ancora più brutta. Se i pazzi in Germania pensano che gli obiettivi tedeschi siano legittimi, significa che le cellule della Brigata Nhamedu ovunque potrebbero attaccare istituzioni governative e obiettivi civili ordinari, oltre a commettere omicidi. È folle perché il terrorismo nella maggior parte dei contesti è controproducente. E lasciatemi essere chiaro. Le mie convinzioni sono più vicine a quelle di Frantz Fanon, che era disgustato dalla violenza ma ne vedeva la necessità in una lotta rivoluzionaria. I gruppi di miliziani Amhara conosciuti collettivamente come “Fano” in Etiopia stanno combattendo le forze federali oggi perché la loro gente sta subendo una pulizia etnica; non puoi negoziare con un dittatore che commette un genocidio più di quanto Netanyahu non tratti in buona fede con i palestinesi: continua semplicemente a bombardarli a più non posso. E così Abiy Ahmed continua gli attacchi dei droni contro i civili. E mentre gli etiopi nella diaspora ritwittano meme e hashtag a sostegno di Fano, nessuno è così sconsiderato o irresponsabile da suggerire di attaccare gli etiopi filogovernativi nelle loro comunità in America o in Europa. La sola idea mortificherebbe qualsiasi sincero sostenitore di Fano. Proprio come gli studenti che sostenevano i palestinesi non erano violenti alla Columbia, per quanto Fox News abbia cercato di dipingerli diversamente. Le tattiche di resistenza sono sì, tecnicamente terrorismo. La Resistenza francese è iniziata un anno dopo che i nazisti si erano sistemati a Parigi; i suoi agenti hanno sparato a un membro dell'esercito tedesco in una stazione della metropolitana, e quel povero idiota non si era nemmeno meritato quell'esecuzione. Ma un colpo doveva essere sferrato. C'era una buona ragione per cui la Resistenza etiope aveva pianificato e portato a termine l'attacco con granate al maresciallo Graziani durante l'occupazione italiana dell'Etiopia, anche se si concluse con il famigerato massacro di Addis Abeba. Tali attacchi sconvolgono gli occupanti, li turbano e li fanno provare paura per una volta. Ma i terroristi della Brigata Nhamedu non stanno attaccando un regime in patria. Non vivono in Eritrea; vivono nelle città occidentali, godendo della relativa stabilità e libertà degli immigrati. È abbastanza spregevole che pensino che sia accettabile continuare con la violenza una faida politica in una nazione diversa, ma ora vogliono ricompensare l'ospitalità di quella nazione con la violenza. Sarà stupidamente tragico e controproducente. Nessuno si riversa nella supremazia bianca dopo che un maniaco ha investito con la sua auto i dimostranti e ucciso delle persone. Nessuno si è schierato dalla parte dei terroristi baschi o palestinesi negli anni '60 e '70 perché la loro distruzione ha naturalmente inorridito l'opinione pubblica europea che badava ai fatti suoi. Bisogna essere completamente squilibrati per arrivare al punto in cui si commette violenza al solo scopo di "sensibilizzare", cioè di attirare l'attenzione. Ma sì, lo psicopatico moderno di oggi può indicare un precedente. Gli americani odiano la loro assistenza sanitaria e le infrastrutture assicurative, e per una buona ragione. Da questi vaghi risentimenti, in qualche modo è diventato socialmente accettabile in alcuni circoli tifare per Luigi Mangioni, che presumibilmente passeggiava fuori da un Hilton Hotel nel centro di Manhattan a dicembre e ha sparato a morte a un dirigente assicurativo, Brian Thompson. Un fanatico ritiene che il fine giustifichi i mezzi. "Ehi", risponde il fanatico alla condanna naturale, "non importa se attacco o uccido queste persone, stai parlando di me". Di sfuggita, dico solo a Brigade Nhamedu che sì, sono pienamente consapevole che potresti provare ad uccidermi. Ho 62 anni. Non riesco più a correre veloce o lontano. Ora devo alzarmi nel cuore della notte per andare in bagno, ma a mio avviso, il tuo ego è più fragile della mia vescica. Tuttavia, non farò finta di essere un macho spavaldo del tipo "Ehi, vieni a prendermi". Dico solo che se lo facessi, potrebbe essere una grande mossa di carriera per me perché uno scrittore martirizzato spesso ottiene un aumento di lettori. Ti odio. Odio ciò che rappresenti, che è una vera e propria perversione dell'idea di opporsi al potere. Perché tu non ti opponi al potere. Ti sei allontanato da quel potere, hai messo radici in un bel posto accogliente in Europa o Nord America e poi hai attaccato le persone ai festival dove naturalmente non si aspettano di dover difendersi. Odio la tua falsa crociata e mi rifiuto di temere ciò che è per sua natura spregevole e codardo. E non dovrebbe farlo nessun altro. Quindi, esaminiamo la tua violenza, la tua codardia e come intendi continuare questa follia. Il contesto Non c'è abbastanza spazio o tempo qui per scavare a fondo nella sordida e triste storia dell'Eritrea. E non importa cosa scrivo qui, farà incazzare qualcuno. Peccato. È un fatto storico che l'imperatore Menelik II abbandonò gli abitanti dell'Eritrea dopo la battaglia di Adua. Ora, se sei un fan di Menelik come lo sono tante persone, puoi giustificarlo in vari modi. Il paese stava ancora cercando di far fronte alla carestia diffusa e alle malattie del bestiame, e il suo esercito era esausto e voleva tornare a casa. La brutta verità era che se Menelik fosse riuscito a riprendersi tutta questa terra, questo avrebbe potuto invitare giocatori coloniali più forti in futuro a provare a rubarla di nuovo. L'Etiopia non era una potenza marittima e non lo era mai stata. La sua decisione di non cacciare gli italiani dall'Eritrea non fu certamente gradita a tutti. Ras Alula voleva "cacciare gli italiani in mare". Non ebbe la sua occasione. Ma pensate a tutte quelle persone dall'altra parte della linea che si aspettavano che Menelik li liberasse. Sarebbero rimasti amaramente delusi. A nessuno piacerà nemmeno che l'imperatore Haile Selassie non faccia bella figura quando, dopo la seconda guerra mondiale, fece attivamente azione per assorbire l'Eritrea nel suo regno. Ho scritto di tutto questo nel mio libro, Prevail, e il mio defunto amico, l'ambasciatore Imru Zelleke, era lì e ha scritto nelle sue memorie, A Journey, di come la nuova costituzione per compiacere l'ONU, che avrebbe dovuto dimostrare che l'Etiopia era "degna" di prenderne il controllo, fosse una farsa completa. L'Etiopia si mise a smantellare tutti i segnali in erba di una democrazia autoctona e di una stampa libera, innescando quella che sarebbe stata una delle più brutte e lunghe insurrezioni nella storia africana. Quando il TPLF emerse come favorito della coalizione che combatté il Derg marxista, uno dei suoi alleati chiave fu, a sorpresa, un certo Isaias Afewerki. L'Eritrea seguì la sua strada dopo un referendum nel 1993, ma nel maggio del 1998 scoppiò una disputa di confine tra la milizia tigrayana e i soldati eritrei in un punto chiamato Badme. Sebbene sia durata solo un paio d'anni, la guerra è stata incredibilmente amara e sanguinosa, con migliaia di morti. Nel 2002, una commissione internazionale per i confini ha dichiarato che Badme apparteneva all'Eritrea. L'Etiopia sotto Meles ha scelto di ignorare questa sentenza e si è tenuta il villaggio. La concessione chiave che Abiy Ahmed ha fatto nel tentativo di normalizzare le relazioni con l'Eritrea nel 2018 è stata quella di rinunciare finalmente a Badme. La storia degli ultimi 30 anni è così politicizzata che troverai difficile rintracciare anche una sola storia dell'Eritrea che non sia macchiata dall'inquietante influenza del propagandista del TPLF preferito dalla Tufts University Alex de Waal e/o della sua cerchia. È praticamente in ogni libro recente. E se giornalisti e reporter diventati storici non parlano con de Waal, stanno facendo pellegrinaggi da Martin Plaut, cavalcando ancora un'onda di credibilità per aver coperto l'Africa per la BBC. Eppure persino Plaut ha dovuto riconoscere che il TPLF ha attaccato per primo Asmara, riferendo il 14 novembre 2020 che "un complesso residenziale nel complesso residenziale Sembel, che ospita circa 1.200 famiglie nel sud-ovest della città, avrebbe ricevuto un attacco missilistico. Si dice che ci sia un blackout in città, con alcune persone in fuga dall'area urbana". È interessante notare che questa storia ora manca dagli archivi di Martin, e Martin è un accumulatore seriale online che di solito conserva tutto. Anche il post aggregato che ho scritto anni fa sugli storici che sbagliano la storia etiope è ancora archiviato sul suo sito. Ma non l'attacco missilistico. Se provi anche solo a rintracciare la storia attraverso i suoi X link, ti porta a qualche strano sito di spam di gioco d'azzardo. Hmm. Ma andiamo avanti fino a oggi. Abiy è diventato un vero Idi Amin, massacrando Amhara e perseguitando Gurage, Afar e altri popoli, incarcerando giornalisti e attivisti e cancellando i quartieri storici di Addis Abeba per il sogno megalomane di ricreare la capitale con scatole di vetro luccicanti. L'Eritrea, un tempo alleata, ora è nemica perché il Re Pazzo ha deciso di volere una proprietà fronte oceano. Ma come ho appena spiegato, la pretesa "storica" dell'Etiopia su qualsiasi parte del Mar Rosso affonderà nella sabbia sotto un esame appropriato. Non importa se si sostiene Isaias o no, è assurdo. Ora, se si vuole parlare di un accordo di cooperazione per l'accesso al mare, è un'altra cosa, ma il pestaggio in stile Trump ha probabilmente guadagnato, sospetto, solo uno sbadiglio in stile canadese da Asmara. Se sei fortunato. Non è davvero una buona idea far incazzare le persone che ti hanno appena aiutato a vincere una guerra e che sanno come funziona il tuo esercito. Non ho alcun amore o interesse particolare per il regime eritreo, e ogni volta che un troll del governo mi sfida su X, il modo migliore per zittirlo è ricordargli che il loro paese non ha avuto elezioni libere da decenni. Ma non ho nemmeno intenzione di falsificare la storia e fingere che l'Eritrea non abbia ricevuto un trattamento ingiusto in passato. E qualunque sia la sua politica interna al momento, ciò non significa che i guerrafondai schiumanti alla bocca dei think tank di Washington siano giustificati nel cercare di provocare un nuovo conflitto nel Corno. Come per gli etiopi, come per i birmani, i turchi, gli iraniani, i curdi, ecc., le mie simpatie saranno sempre per le persone, non per un regime o uno stato o un'ideologia. Cosa c'entra tutto questo con la Brigata Nhamedu? Molto, a quanto pare. Perché questo gruppo terroristico è utile in un senso più ampio ai media occidentali, che non riescono a liberarsi dal ruolo di strumento per gli interessi neocoloniali europei e americani. Come ho scritto solo un paio di settimane fa, queste operazioni mediatiche hanno improvvisamente deciso collettivamente che era giunto il momento di saltare su e giù di nuovo e ricordare a tutti che i Tigrini erano in pericolo, i Tigrini erano in pericolo! Al diavolo gli Amhara che vengono assassinati ogni giorno, le loro vittime "degne" scelte avevano bisogno di attenzione. A causa del folle tintinnio di sciabole di Abiy. Ciò significa che ogni volta che la Brigata Nhamedu colpisce un festival eritreo, come le Camicie Brune che distruggono le vetrine dei negozi ebrei, un reporter dell'AP può inserire questo riassunto stereotipato: "I gruppi per i diritti umani descrivono l'Eritrea come uno dei paesi più repressivi al mondo. Da quando ha ottenuto l'indipendenza dall'Etiopia tre decenni fa, la piccola nazione del Corno d'Africa è stato guidato dal presidente Isaias Afwerki, che non ha mai tenuto elezioni". Vuoi chiarire il tuo punto di vista? Picchia un vecchio Il problema è che persino la potente AP non riesce sempre a fare un lavoro di facciata su ciò che il gruppo sta facendo. In un articolo del 2023 più diretto, David Keyton ha scritto questo sulla Brigata Nhamedu che ha attaccato un festival in un sobborgo di Stoccolma: "I manifestanti hanno incendiato stand e veicoli, facendo salire il fumo nel cielo. Il quotidiano svedese Expressen ha riferito che fino a mille manifestanti hanno marciato verso il luogo del festival, spingendo oltre i cordoni della polizia e usando bastoni e pietre come armi". Non si tratta semplicemente di terrorismo, è fascismo. I nazisti hanno fatto cose del genere. Le camicie nere di Mussolini andavano in giro a picchiare turisti, rivali politici, persino un diplomatico americano, nei primi anni '30. In un articolo piacevolmente equilibrato sull'attacco al festival di Toronto del 2023, Katherine DeClerq di CTV News ha intervistato testimoni e parenti delle persone aggredite. Il suo articolo merita di essere citato per esteso: Danait Mehreteab ha detto a CTV News Toronto che suo padre sessantenne stava aiutando a preparare il festival e stava distribuendo magliette dei volontari quando un gruppo di manifestanti "è sceso" su Earlscourt Park, vicino a Caledonia Road e St. Clair Avenue West sabato. "Le zie, come le madri, cucinavano e preparavano il cibo. (I manifestanti) hanno gettato tutto il cibo, li hanno spinti a terra, hanno minacciato di bruciare i loro vestiti, hanno buttato giù le recinzioni", ha detto. "Questo è quello che stava succedendo quando mio padre ha sentito, 'è lui, prendetelo', e poi ha detto che lo avevano colpito alla testa con una barra di metallo e avevano continuato a picchiarlo mentre era a terra". Mehreteab ha detto che suo padre ha perso conoscenza ed è stato "lasciato per morto". Ha dovuto ricevere 12 punti di sutura sulla parte superiore del cranio e ha riportato una frattura alla spina dorsale. Questo è uno dei pochi articoli che riesco a trovare in cui sentiamo effettivamente le vere vittime, non i portavoce del gruppo terroristico. Eppure i delinquenti hanno comunque ottenuto ciò che volevano. Grazie al loro attacco a persone innocenti e persino a poliziotti, le autorità hanno revocato il permesso del parco per il festival eritreo. In sostanza, premiando il caos. Devo tornare al punto sulla codardia. È un codardo che attacca le persone quando meno se lo aspettano, ascoltando musica, mangiando cibo, godendosi la loro cultura, divertendosi e facendosi i fatti propri. Non ti piace ciò che il festival "rappresenta"? Tieni duro. Ma questo non è abbastanza per la Brigata Nhamedu. Chiunque altro avrebbe semplicemente fatto un picchetto all'ambasciata o avrebbe provocato un console o un ambasciatore durante un discorso alla camera di commercio o qualcosa del genere. Questi teppisti attaccano i festival culturali proprio perché sono vulnerabili, perché la gente comune può essere terrorizzata. In Israele, quello stesso anno, si sono fatti più audaci e hanno scatenato una rivolta quando l'ambasciata eritrea ha organizzato un evento per celebrare l'indipendenza del paese... cosa che aveva pienamente il diritto di fare. Questo è il punto delle ambasciate. Il codice della diplomazia è che la tua legazione è sacrosanta, che i tuoi inviati, nel bene o nel male, dovrebbero godere delle cortesie e della protezione della nazione ospitante. Ma dopo che Al Jazeera ha finito con il familiare riassunto stereotipato dei mali dell'Eritrea, ci è stato detto nella sua copertura che i manifestanti "hanno sfondato le barriere della polizia mentre gli ufficiali sembravano impreparati a numeri così grandi, e i video hanno mostrato vetri rotti di auto della polizia e di altre persone oltre a danni ai negozi vicini. Il locale è stato anche vandalizzato con sedie e tavoli distrutti.” "Più di 100 persone, tra cui diverse decine di poliziotti, sono rimaste ferite durante gli scontri" tra gruppi rivali. Non sorprende che Al Jazeera non abbia citato nella storia sostenitori filogovernativi. E tutta questa cattiveria ha appena dato a Benjamin Netanyahu un'altra scusa per promettere che avrebbe espulso i migranti africani. Perché le fazioni eritree Questo è ciò che Martin Plaut sta difendendo. Ha scritto un profilo nauseantemente favorevole alla Brigata Nhamedu sul suo sito web ed è riuscito in qualche modo a non menzionare una volta gli attacchi dei terroristi alle persone. Il più vicino che è arrivato a questo è stato suggerire che l'organizzazione è stata formata dopo che i suoi criminali hanno iniziato una rivolta a Giessen, in Germania, nel 2022. La sua cronologia non ha importanza. Ricorda che le autorità tedesche ritengono il gruppo direttamente responsabile di ciò che è accaduto a Giessen nell'agosto del 2022. Ma credo che la sua nascita concettuale risalga a prima, e che Martin Plaut sia il patrigno spirituale e intellettuale di questo gruppo terroristico. Ad aprile del Nel 2019, ha tenuto un discorso a Londra agli attivisti eritrei, dicendo loro: "I giornalisti sono organismi unicellulari molto semplici. Cercano cose, le divorano, ma sai, devi trovare qualcosa da divorare... Dobbiamo fare notizia. E questo non è così difficile come sembra, ma è davvero importante... Una manifestazione fuori dall'ambasciata eritrea non è una notizia. Potrebbe farti sentire meglio, ma è successo centinaia di volte, ma non è una notizia [sic]". Se tutto questo fosse vero, come ho fatto notare agli indignati etiopi nel 2021 quando pensavano di aver trovato una specie di pistola fumante e avevano riempito Twitter e Facebook con questa clip video. Ho gemito e borbottato: Che problema! Mi sbagliavo, ma non per le loro ragioni. Ciò che nessuno poteva prevedere, probabilmente nemmeno lo stesso Martin, erano i risultati a lungo termine del consiglio improvvisato che ha dato dopo. Agitando il dito contro il suo pubblico, ha detto loro: "Non andate a fare un'altra manifestazione fuori dall'ambasciata eritrea a meno che non la bruciate". Il suo pubblico ha pensato che fosse esilarante. "Cosa che non ho detto", ha aggiunto rapidamente con un sorriso furbo. Sì, ah, ah, ah... messaggio ricevuto. Quando la clip circolava nel 2021, ho ancora pensato: Che problema! e non ho visto nulla di significativo in questa battuta spietata. Ma ovviamente, qualcuno stava prestando attenzione. Qualcuno ha capito "Sì, è il biglietto. Bruciare. Picchiare a morte la gente. Impazzire. Questo ci farà ottenere la copertura". Ed ecco che è successo. Sono sicuro che non era sua intenzione, ma c'è sicuramente del sangue sulle sue mani grazie a questa osservazione sciocca. E sospetto che sia il motivo per cui Martin ha scritto un intero profilo di un gruppo terroristico senza menzionare cosa fa. Quale altra scelta aveva? Questi sono i suoi figli spirituali. Anche solo accennare alla violenza significa implicare se stesso. E ora Brigade Nhamedu si sente in diritto di scatenare la sua sanguinosa violenza contro "istituzioni e poliziotti tedeschi". E senza dubbio contro istituzioni e poliziotti in altri posti d'Europa e probabilmente in Canada. Sospetto (almeno spero) che non proveranno questa merda negli Stati Uniti, non più perché nel nuovo panorama politico razzista del Trumpismo, questo è un biglietto aereo per, chiamateli come sono, campi di concentramento esternalizzati per l'America come i call center indiani. Le autorità europee hanno iniziato a rendersi conto, tuttavia, della portata del pericolo. Un tribunale olandese ha apparentemente inflitto una dura pena detentiva di "diversi anni" a un delinquente della Brigata Nhamedu "a causa della sua partecipazione agli scontri all'Aia". Ho il forte sospetto che, come al solito, le autorità canadesi, sempre stupide e lente a destreggiarsi tra le sfumature multiculturali, arriveranno tardi alla conclusione logica. Forse troppo tardi. Si perderanno delle vite perché c'è una comune escalation con i gruppi terroristici. Non ci vuole molto per "progredire" da una sbarra di metallo che colpisce un eritreo di 60 anni a Toronto al tentativo di lasciare una bomba che potrebbe esplodere all'aeroporto di Francoforte. A questi idioti non importa. Eritrei innocenti, ed etiopi e somali perché i poliziotti bianchi e persino i governi più bianchi spesso non sanno fare distinzioni, verranno spinti sul retro dei carri e subiranno prove strazianti. E agli idioti non importerà. È tempo che il mondo li denunci per il male che perpetrano. Personalmente non me ne frega niente se la vostra politica è "corretta" riguardo al regime. Vi definite Brigade Nhamedu ma il vostro ragionamento è logico TPLF. Penso che questo tizio sia un dittatore, quindi punterò la pistola alla testa di una donna che appende una bandiera eritrea fuori dalla finestra del suo appartamento. Non mi piace la mancanza di una stampa libera nel paese, quindi è naturale che vada a sparare a un poliziotto a Berlino. Dovete essere fermati. Posso capire l'esitazione degli eritrei innocenti a non parlare direttamente di voi, ma spero che inondino le linee telefoniche dell'Associated Press, della BBC, dell'AFP e della Reuters e chiariscano che questi non sono eroi, sono predatori. originale gmaron.aron credit Ghideon Musa Aron L'affermazione del primo ministro Abiy Ahmed di cercare solo "dialogo" sull'accesso al mare è palesemente falsa. Ha ripetutamente sollevato la questione con i leader regionali e le loro risposte sono state chiare e coerenti: • L'Etiopia è benvenuta ad utilizzare i porti vicini nell'ambito di accordi commerciali, promuovendo la cooperazione regionale e la prosperità condivisa. • Nessun paese cederà il proprio territorio sovrano all'Etiopia. • Nessuna nazione sosterrà qualsiasi tentativo sconsiderato di ridisegnare la mappa del Corno d'Africa. Tuttavia, Abiy continua a premere la stessa richiesta, nonostante risposte ferme e inequivocabili. A questo punto, la sua insistenza appare più una provocazione deliberata che una vera diplomazia. Il vero problema: un'economia fallimentare e un'instabilità interna. Il problema dell'Etiopia non è la mancanza di accesso al mare, è un'economia in difficoltà, un'instabilità interna e una leadership che prospera sulle crisi fabbricate piuttosto che su soluzioni reali. Abiy Ahmed sta scommettendo sconsideratamente con la pace e la stabilità del Corno d'Africa, in particolare con il futuro dell'Etiopia, quando non è necessaria alcuna scommessa del genere. Il suo ultimo atteggiamento in parlamento - chiedere colloqui sull'accesso al mare mentre dichiara che l'Etiopia non entrerà in guerra con l'Eritrea - è l'ennesimo caso di retorica e di esibizione per i media. Ma pochi gli credono, ed è evidente che non ha più opzioni. Domande alle quali Abiy deve rispondere. I media e i politici internazionali che cerca di persuadere invece di sostenere ciecamente le sue affermazioni dovrebbero chiedergli: • Cosa sta cercando di negoziare esattamente in merito all'accesso al mare con i paesi vicini? • Perché non ha tentato di negoziare quando aveva rapporti migliori con loro? • Perché fa pressioni su leader stranieri che non hanno alcun mandato sulla sovranità di altre nazioni? Le dubbie giustificazioni dell'Etiopia per l'espansione territoriale. Abiy e i suoi sostenitori utilizzano argomentazioni ingannevoli per giustificare rivendicazioni territoriali. Alcune delle loro considerazioni più stravaganti includono: • La popolazione etiopia sta crescendo esponenzialmente. • L’economia dell’Etiopia è in crescita. • Gruppi etnici a cavallo dei confini dell'Etiopia, condividendo storia e legami culturali. • L'Etiopia occupava l'Eritrea sotto Haile Selassie e Mengistu, e quindi merita i diritti dei "saccheggiatori". ’ • La domanda alimentare di pesce in Etiopia sta aumentando. Queste argomentazioni non sono altro che tentativi sottilmente velati di minare la sovranità delle nazioni vicine e giustificare la presa di terreni. La sovranità non è negoziabile Abiy Ahmed lo sa, ed è per questo che le sue richieste di negoziazione sono vuote. La sua retorica non riguarda la diplomazia, si tratta di mettere alla prova i limiti della pazienza regionale e internazionale. Ma nessuna manovra politica cambierà la verità fondamentale: la sovranità non è in discussione. da ER MEDIA credit Ghideon Musa Aron |
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Settembre 2024
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