Quello che è successo in Eritrea nel periodo che va fra le fasi finali dell'ultima guerra con l'Etiopia e l'emissione del verdetto della Commissione Confini è stato senza mezzi termini un tentativo di colpo di stato che, seppur condotto in maniera incruenta e mascherato da azione pseudo progressista per una Eritrea più moderna e democratica, in realtà era stato ben orchestrato e appoggiato da forze esterne miranti non al benessere del paese, ma al rovesciamento del governo legittimo ritenuto troppo intransigente. Il tentativo, che fu portato avanti da una compagine governativa minoritaria eritrea che aveva ceduto alle lusinghe e alle promesse di agenti esterni al paese vicini agli interessi del governo etiopico, si concluse come è noto con l'arresto dei maggiori responsabili del tentativo di sovvertimento delle istituzioni, la soppressione di alcuni dicasteri e un riassetto generale del governo. La crisi, non a caso indotta in un momento estremamente delicato per l’Eritrea, provocò due distinte reazioni: Gli eritrei, pur provati dalla incredibile efferatezza di un gesto così inaspettato e portato avanti da personaggi che godevano di pubblica stima per il loro valore nella guerra di liberazione, per la loro personalità e l’importanza dell’incarico rivestito, trovarono la capacità di reagire anche a quel tradimento, traendone anzi nuova forza e volontà di coesione con i suoi legittimi rappresentanti governativi. Mentre allo stesso tempo alcuni osservatori stranieri, che frequentavano, appoggiavano e stimavano i protagonisti del tentato "golpe bianco", condividendone la amicizia personale, gli interessi, i programmi politici e l’orientamento filo-etiopico, accusarono il colpo e da amici dell’Eritrea si trasformarono in nemici giurati del presidente Isaias e del suo governo il quale, grazie all’appoggio popolare incondizionato, era riuscito a stroncare i loro piani. Questi personaggi, visto il fallimento dei loro programmi, per reazione diedero vita a una guerra aperta, seppur di tipo mediatico, portata avanti con le armi della illazione e della disinformazione, soprattutto facendo leva sulla sensibilità della opinione pubblica, facilmente suggestionabile, poco informata e generalmente lontana dalle questioni eritree, che da quel momento venne investita da una vera e propria campagna diffamatoria nei confronti dell’Eritrea e dell’operato del governo.
Una improvvisa fioritura di siti web antigovernativi e la apparizione di nuove associazioni a carattere umanitario dalle sigle evocanti ogni tipo di ingiustizie e patimenti, con i loro contenuti e le loro attività, sono la dimostrazione del tipo di accanimento che è stato concertato allo scopo di screditare un governo che, pur se alle prese con altri e ben più gravi problemi, continua a rappresentare pienamente il suo popolo e a difendere l’indipendenza del paese. In realtà in Eritrea le cose vanno in maniera ben diversa da come vengono descritte con malafede attraverso questa campagna diffamatoria; il forte sentimento di coesione nazionale ha prevalso e, dopo un periodo di tempo lungo e sofferto, quell’episodio, che pure aveva rappresentato un momento fondamentale e lacerante nella recente storia del paese, è considerato dalla gente oramai superato, risolto e già distante nella memoria collettiva. Progressi enormi sono stati realizzati dagli eritrei nel corso di questi anni, in tutti i campi seguendo con costanza e capacità un preciso programma di sviluppo indirizzato unicamente al benessere della gente attraverso miglioramenti strutturali nei campi della sanità, dell’edilizia, della alimentazione e delle risorse idriche, solo per fare degli esempi, utilizzando al meglio le energie umane interne e in maniera efficace e trasparente le risorse provenienti dai partner esterni. Nonostante questa gestione virtuosa delle risorse sia economiche che umane, i protagonisti della sistematica campagna di denigrazione antigovernativa continuano in malafede a proporre un quadro catastrofico, falso e distorto dell’Eritrea che descrivono come un paese alla deriva. Una delle principali leve di queste attività diffamatoria è fornita involontariamente da chi si è allontanato dall’Eritrea per cercare fortuna altrove e poiché clandestino è costretto a inventare ragioni di estrema gravità pur di giustificare la sua richiesta di permesso di soggiorno che diversamente mai gli verrebbe accordato. I racconti di questi esuli non corrispondono alla realtà, ma, seguendo un copione studiato a tavolino nel corso dell’allontanamento dal loro paese, descrivono una serie di circostanze prefabbricate al solo scopo di suscitare sentimenti di compassione nei paesi dove vengono accolti. Spesso i richiedenti asilo non sono nemmeno veramente eritrei, ma si dichiarano tali per convenienza, e talvolta gli espatriati sono addirittura in possesso di visto di uscita dall’Eritrea ma sprovvisti del visto di ingresso in Europa. Qualunque sia la loro origine e la loro vera storia personale però quello che fa statistica sono le dichiarazioni che queste persone rendono al momento di richiedere il permesso di soggiorno, le quali raccolte da una variegata schiera di associazioni di ogni tipo, vengono utilizzate strumentalmente come prova per dimostrare le presunte violazioni di quello che viene descritto come il regime del terrore. Chiunque conosca l’Eritrea sa che per tradizione il patrimonio culturale e sociale viene conservato e trasmesso quasi esclusivamente per via orale tanto da potersi affermare che l'espressione "voce di popolo voce di Dio", in riferimento alla diffusione di notizie concernenti la attualità, ma anche la storia del paese, sia in questo caso quanto mai evocativa. Parlare con la gente è una esperienza che porta ben presto a scoprirne la sua straordinaria capacità di mantenere vivi nella memoria notizie, fatti, circostanze, nomi e riferimenti anche risalenti a moltissimi anni addietro che a noi occidentali risulterebbero accessibili solo attraverso specifiche ricerche storiche. Veicolo dell'informazione, della sua elaborazione e delle sua conservazione è la gente stessa che secondo regole secolari arricchisce giorno dopo giorno attraverso una rete fittissima di interscambi personali la coscienza collettiva del paese, le sue conoscenze e in definitiva il suo senso di appartenenza e di consapevolezza condivisa grazie alla quale ogni persona singolarmente è parte cosciente e attiva della realtà del paese. Basta quindi andare in Eritrea per rendersi conto di quale sia la realtà oggettiva, per rendersi conto che qualunque cosa accada nel paese è solo il frutto della volontà popolare perché in mancanza della volontà popolare nessuna forza avrebbe la possibilità di far valere le sue regole e che ogni altra affermazione è da considerarsi falsa e strumentale. Nel corso di una visita di stato non a caso il presidente Isaias ha affermato, in riferimento a illazioni secondo le quali nel paese esistessero movimenti di contestazione al suo operato o a quello del suo governo, che in Eritrea non esiste opposizione politica. I cosiddetti oppositori eritrei e i loro amici e sostenitori infatti vivono all’estero da dove, beneficiando di non mai chiariti appoggi, lanciano proclami e diffondono scientemente la falsa immagine di un paese governato da un regime dittatoriale, salvo poi riunirsi, come accaduto di recente, ad Addis Abeba a dimostrazione della reale natura dei loro propositi. Questi sedicenti oppositori e quelli che a vario titolo li sostengono, non hanno mai presentato un programma politico concreto, che fornisse delle possibili alternative a quello governativo ufficiale, ma si sono limitati solamente a imbastire un programma di demonizzazione del loro paese basato sul tentativo di dipingere l’Eritrea come un paese stritolato dalle spire di un governo assolutista che ha in spregio il suo stesso popolo, carpendo così con la falsità e l’inganno la buona fede di quanti hanno a cuore le problematiche connesse con la salvaguardia dei diritti umani. Con questo non si intende negare che in Eritrea vi siano problemi pesanti come un servizio militare prolungato ed estenuante, carenze saltuarie di generi di prima necessità, salari bassi e una situazione di tensione e affaticamento che spinge alcuni a tentare la via dell’espatrio talvolta anche illegale, ma ciò non toglie che le cose vadano chiamate con il proprio nome e affrontate con onestà intellettuale. La vera causa delle sofferenze degli eritrei ha una sua storia ben precisa che va ricercata innanzitutto nello stato di “non guerra non pace” provocato dal rifiuto dell’Etiopia di aderire al verdetto della Commissione Confini che costringe il governo eritreo a misure temporanee eccezionali che non hanno alternative praticabili e soddisfano pienamente l’esigenza di salvaguardare l’integrità del paese, e poi al disinteresse della opinione pubblica internazionale nei confronti del rispetto delle regole e delle leggi che regolano i rapporti fra le nazioni. Queste misure speciali, contrariamente a quanto affermato dai sedicenti oppositori e i loro sostenitori, non hanno carattere vessatorio nei confronti degli eritrei, ma sono finalizzate alla difesa del paese dalle ripetute minacce portate attraverso il dispiego di truppe lungo i confini e addirittura all’interno del territorio sovrano, attraverso i rappresentanti di neo-religioni che tentano di infiltrarsi nel tessuto sociale per disgregarlo, o dalle mille iniziative spesso scoordinate che vengono presentate da Ong e associazioni varie con risultati spesso più dannosi che utili, solo per citarne alcune. In conclusione se è vero che una legittima opposizione politica si porta avanti con precisi programmi che tengano conto delle priorità del paese e con la garanzia che non esistano pericoli imminenti che ne pongano a rischio l’integrità e l’indipendenza, è altrettanto vero che agire in modo contrario agli interessi e principi fondamentali del paese, come l’indipendenza del paese o l’integrità del governo, in un momento di emergenza nazionale e con attività tese al sovvertimento delle istituzioni non si può definire opposizione, ma deve essere chiamato con il suo vero nome, alto tradimento. Stefano Pettini
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Settembre 2024
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