Il termine Ong (Organizzazione non governativa) ha da sempre evocato nell'opinione pubblica l'immagine dei tanti volontari impegnati in ogni angolo del mondo nella difficile ed estenuante opera di aiuto e soccorso a popolazioni in difficoltà a causa di catastrofi naturali o peggio vittime degli esiti di una delle tante guerre in corso. Nel tempo però eventi che hanno coinvolto alcune Ong, dal punto di vista della trasparenza gestionale, hanno attirato con il loro clamore l'interesse generale e indirettamente rivelato a quanti credevano che tali organizzazioni contassero esclusivamente sul disinteressato lavoro volontario degli aderenti, che anche la abnegazione di questi straordinari operatori specializzati nel soccorso umanitario ha una sua ben precisa remunerazione. Naturalmente l'esistenza di una articolata struttura operativa che sia in grado di coordinare mezzi e uomini in situazioni ambientali estreme ha un suo costo, e il fatto che il personale qualificato percepisca uno stipendio per la sua disponibilità e la sua opera nulla toglie ai meriti che gli operatori delle Ong hanno saputo guadagnarsi in infinite occasioni, ma l'aver preso diffusamente coscienza del fatto che il motore del variegato mondo della assistenza su larga scala non è il "puro volontariato gratuito", ha fatto sorgere una serie di interrogativi a riguardo dei meccanismi fino ad allora meno conosciuti. Per i non addetti ai lavori, infatti, non risulta agevole tracciare una linea di collegamento tra lo stabilirsi di una grave emergenza umanitaria e l'intervento di una organizzazione non governativa, e a ben vedere non risultano note al grande pubblico neanche le modalità con le quali si stabiliscono i rapporti che intercorrono tra i responsabili ad alto livello di tali organizzazioni, il Ministero degli affari esteri e le autorità locali dei paesi destinatari degli aiuti. Evitando approfondimenti delle tematiche legate agli aspetti della gestione tecnico amministrativa delle Ong, quali reperimento delle risorse, criteri di approvvigionamento di beni tecnici e di consumo, contabilità generale di ogni missione, criteri di distribuzione dei soccorsi ecc., tutti argomenti interessanti che però richiederebbero competenze tecniche specifiche per poterne trarre delle valide valutazioni, ciò che assume un valore rilevante agli occhi degli osservatori è l'aspetto meno noto del mondo dell'aiuto umanitario organizzato. Quello del codice deontologico.
Istintivamente si sarebbe portati a ritenere una Ong super partes e neutrale nei confronti della realtà nella quale si trova a operare, partendo dal presupposto che alla base della necessità di un intervento esterno di supporto non può che esserci una circostanza straordinaria tale da sovvertire il normale corso degli eventi e di conseguenza non inquadrabile con i consueti parametri di riferimento. Soprattutto in caso di conflitti bellici, che sono caratterizzati da forti contrapposizioni ideologiche, le Ong si dovrebbero poter ritenere esenti da partigianerie di campo, interventi attivi di tipo politico propagandistico, proselitismo o altre interferenze che esulano dalla precisa vocazione umanitaria posta alla base della loro esistenza. Eppure questa tendenza con il passare del tempo è apparsa sempre più marcata, tanto da far ritenere che questi organismi si stiano evolvendo in qualcosa di più complesso, più sfuggente e per certi versi più invasivo. Effettuando una ricerca su internet, sistema emergente di libera condivisione di informazioni e idee nato proprio nel periodo storicamente più infelice della omologazione dei mezzi di informazione tradizionale, si può facilmente verificare infatti che l'attuale atteggiamento di queste organizzazioni appare sempre più politicizzato e tendente talvolta allo stabilimento di movimenti di opinione molto critici, e spesso schierati a favore o contro governi locali, politiche regionali o fedi religiose. Travalicando ogni supposta regola deontologica le Ong si fanno in alcuni casi addirittura parte attiva nei confronti di organismi istituzionali anche internazionali, come ad esempio la Comunità europea, per richiedere e promuovere specifiche attività di pressione nei confronti di apparati statali di paesi nei quali vorrebbero intervenire, raccolgono e diffondono notizie ed esprimono pareri su questioni politiche e sociali che attengono unicamente alla sfera di competenza delle autorità locali e diplomatiche dei paesi destinatari degli aiuti, con una sollecitudine che pare andare oltre l'ardore del sacro fuoco umanitario. Anche le Ong italiane non hanno mancato in varie occasioni di far sentire la loro voce e, riunite in una associazione di rappresentanza, hanno di fatto assunto delle prese di posizione tali da far ritenere che, nonostante presentino nei loro siti web degli accurati decaloghi comportamentali enfatizzanti presunte regole auree quali la trasparenza, la non interferenza, il rispetto delle diversità ecc., abbiano maturato ben precise posizioni politico-ideologiche che appaiono sempre più in contrasto con la vocazione del loro mandato. L’obbiettivo della loro azione, condotta senza esclusione di colpi, sembra essere sempre lo stesso, riuscire a ritagliarsi uno spazio di intervento e stabilire le basi per una missione, e osservando gli sviluppi della questione dell’Africa Orientale, a noi più vicina dal punto di vista storico e geografico, non si può fare a meno di notare che le Ong appaiono sempre più frequentemente come protagoniste di accese discussioni riguardanti i rapporti fra Italia e i vari paesi in crisi quali il Sudan, l’Etiopia, l’Eritrea e la Somalia. Un caso che ha fatto molto discutere, e per certi versi emblematico, è certamente quello dell’Eritrea che dopo decenni di apertura incondizionata a Ong e associazioni di volontariato di ogni genere, decise nel 2006 di porre un freno alla frenesia spesso inconcludente che tali attività comportavano, e pubblicò una nuova legge che regolamentava con norme chiare i requisiti necessari per la omologazione di tali organizzazioni. La reazione delle Ong che non furono in grado di conformarsi a tali requisiti e che quindi furono costrette ad abbandonare il paese, non fu di semplice constatazione che la loro opera aveva raggiunto un traguardo, ma del tutto inaspettatamente sfociò in un atteggiamento di rancorosa frustrazione che rappresenta certamente uno degli esempi più palesi del tipo di distorsioni che iniziano a caratterizzare le attività di tali organizzazioni. Analizzare tutte le iniziative da queste intraprese contro l’Eritrea, sia in ambito nazionale che internazionale, in seguito alla loro estromissione è probabilmente del tutto inutile e alimenterebbe discussioni infinite, ma una frase in particolare, peraltro già citata in molte altre occasioni, raccoglie in se simbolicamente tutta la arroganza e la insensibilità di chi dovrebbe essere animato da ben altre motivazioni etiche: “L’Eritrea è un paese troppo povero perché il suo governo possa permettersi di pretendere un controllo sugli aiuti o addirittura rifiutarli”. 22-12-2007 Stefano Pettini
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