di Francesca Ronchin per Analisi Difesa
Dopo quasi due decadi di amnesie, lo scorso 12 dicembre, in occasione del 23° anniversario degli accordi di Algeri, il Dipartimento di Stato americano ha vergato un comunicato di 6 righe per ribadire l’importanza di rispettare i confini Etiopia – Eritrea. Una nota “curiosa” visto che l’Etiopia non li aveva rispettati per ben 18 anni e durante questo lungo periodo gli USA non hanno mai avuto nulla da eccepire. Apparentemente un segnale di apertura all’Eritrea ce da tempo orami immemore è uno dei target preferiti delle “preoccupazioni umanitarie” nonché delle sanzioni americane. Al contempo un monito al premier etiope Abiy Ahmed che con le ultime sortite sul diritto dell’Etiopia ad avere uno sbocco sul Mar Rosso, ha mandato in fibrillazione i paesi costieri, a partire dall’Eritrea. Per l’amministrazione di Joe Biden non è una conversione sulla via di Damasco, né un semplice omaggio di rito come conferma il repentino copia-incolla della segreteria dell’alto rappresentate UE per gli affari esteri Joseph Borrell. L’attuale politica estera americana si inserisce nel solco delle precedenti amministrazioni che hanno sempre silenziosamente appoggiato l’occupazione etiope dei confini eritrei nell’area di Badme. Una totale inosservanza degli accordi di Algeri del 2000 e delle direttive della Ethiopian Boundary Commission delle Nazioni Unite portata avanti nel disinteresse generale della comunità internazionale e conclusasi solo nel 2018 con l’arrivo di Abiy Ahmed che ritirò le truppe etiopi dall’area e distese i rapporti con l’Eritrea “guadagnandosi” il Nobel per la Pace. Evidentemente, ci volevano gli Houti, i ribelli sciiti dello Yemen che da settimane minacciano le navi sul Mar Rosso, per spingere gli americani a rivedere la propria strategia africana. Del resto lo stretto di Bab el Mandeb è canale di estremo interesse, qui vi scorre il 12% del commercio mondiale, il 10% del petrolio consegnato via mare e l’8% del gas liquido (Gnl). Sempre da qui passano i rifornimenti a Israele e l’allargamento di un fronte meridionale del conflitto a Gaza fa emergere in tutta la sua problematicità il sempre maggiore isolamento nell’area sia di Israele sia degli USA che vedono i propri storici alleati come Egitto e Arabia Saudita sempre più vicini alla sfera d’influenza cinese e ai BRICS. In questo scenario, una escalation nel Medio Oriente, oltre a destabilizzare la penisola arabica, potrebbe essere un’ottima occasione per far saltare l’accordo di pace sciiti-sunniti mediato dalla Cina, ricondurre i sauditi sotto l’influenza di Washington e così rilanciare gli accordi di Abramo. Non è infatti un mistero che l’indebolimento del BRICS e dei suoi due paesi fondamentali (Russia e Cina) siano visti dagli USA come l’elemento fondamentale della propria politica estera e in questa ottica un coinvolgimento dell’Eritrea potrebbe certo fare comodo, a partire dall’operazione navale di polizia internazionale Prosperity Guard (OPG) per proteggere i mercantili in transito dagli attacchi degli Houthi. Inoltre, oltre ad essere snodo centrale della Via della Seta, con i suoi 1,251 chilometri di costa sul Mar Rosso, l’Eritrea è prima dirimpettaia dello Yemen e, grazie ai suoi ottimi rapporti con Arabia Saudita, Egitto e Sudan, potrebbe rivelarsi cruciale per gli equilibri dell’area. Di contro, l’Etiopia, storico avamposto USA nell’Africa orientale, si sta rivelando un Paese il cui attuale assetto politico non sembra convincere del tutto Washington, disinteressata come sembra a salvarla dal baratro economico, a partire da quei 3,5 miliardi di dollari del Fondo Monetario Internazionale e altrettanti della Banca Mondiale cui l’Etiopia è ancora appesa. Con un’inflazione al 30% e grave mancanza di valuta estera, l’Etiopia sta affrontando una congiuntura economica difficilissima tant’è che dopo il mancato pagamento di una cedola da 33 milioni di dollari su una obbligazione da 1 miliardo di dollari emessa nel 2014, è ormai ufficialmente in default. Il terzo Paese africano dopo Zambia e Ghana a finire in insolvenza sul debito estero. Etiopia-USA: liaison ritrovata, per poco… Solo fino a qualche mese fa, tutto faceva pensare che Etiopia e Stati Uniti avessero ritrovato la liaison d’un tempo, quella costruita durante i 27 anni in cui il TPLF (Fronte popolare di liberazione del Tigray) era al potere e in cui aveva trasformato l’Etiopia in una sorta di stato satellite di Washington, un avamposto prezioso in una zona strategica come il Corno d’Africa. Complicità che si era interrotta nel 2018 quando le prime mosse di Abiy Ahmed suggerivano un nuovo corso di netta rottura con la linea americana. Non solo per la decisione di distendere i rapporti con l’Eritrea, in contrasto con la politica USA che accusava Asmara di supportare i terroristi somali di Al Shabaab salvo poi ammettere di non aver mai avuto prove, ma anche per l’iniziativa di realizzare la Diga della Rinascita (GERD) sul Nilo Azzurro, anche qui in piena rottura con gli USA che si sono sempre allineati con le preoccupazioni del Cairo sulla gestione delle acque. L’intenzione di anteporre gli interessi nazionali alle pressioni oltreoceano, Abiy l’aveva mostrata anche durante la guerra in Tigray. Una crisi innescata dal TPLF il 4 novembre 2020 contro il governo etiope ma che era stata raccontata al mondo come un genocidio portato avanti da Abiy Ahmed ai danni dell’etnia tigrina. Non c’era invece nessun genocidio, nessun blocco agli aiuti come testimoniato dai dirigenti del World Food Program i cui convogli hanno raggiunto 3 milioni di persone solo nel 2022. C’era invece una guerra di secessione scatenata dal gruppo armato tigrino contro l’esercito federale e le regioni limitrofe Amhara e Afar, sfociata in una serie di crimini di guerra commessi da entrambe le parti ma pagate in primis dall’Etiopia prontamente sanzionata dagli USA con la sospensione dalle facilitazioni all’export previste dall’Agoa (African Growth and Opportunity Act) per “motivi umanitari”. Facilitazioni che avevano permesso all’export etiope verso gli USA di crescere oltre il 50% in un anno ma che una volta sospese hanno causato la perdita di almeno 100 mila posti di lavoro. Poi qualcosa è cambiato. E’ cambiato Abiy Ahmed (il consenso è in caduta libera) e dopo la recente guerra in Tigray sono cambiati gli atteggiamenti della comunità internazionale nei confronti dell’Etiopia (“curiosamente” in meglio). Un cambio di rotta che ha il suo punto di svolta nella pace che il governo etiope ha firmato a Pretoria il 2 novembre 2022 e che concluse il conflitto con un bilancio di un milione di morti e una spesa per il Paese pari a 25 miliardi di dollari. Un danno enorme che era valso al TPLF la dicitura di “gruppo terrorista” da parte del parlamento etiope. Etichetta che, come da accordi di pace, viene fatta scomparire. Non tutti i punti dell’accordo sono stati però rispettati a partire da quello che prevedeva il completo disarmo del TPLF che ad oggi, nonostante le divisioni interne, è ancora militarmente in forze e può contare su 200 mila uomini armati. Anche i leader tigrini sono ancora ben saldi al loro posto. Dai leader del TPLF Debretsion Gebremichael all’ex portavoce Getachew Reda che guida il governo ad interim del Tigray e non disdegna strette di mano con il premier etiope Abiy Ahmed che solo 12 mesi prima definiva “leader genocida e sanguinario”. Un graduale avvicinamento al TPLF da parte del premier etiope vissuto come un vero e proprio tradimento dalla quasi totalità del Paese che è ancora memore di come la vecchia leadership si fosse macchiata di sanguinose repressioni delle proteste delle popolazioni Oromo ed Amhara nel 2015 e 2016 fino alla guerra d’aggressione contro l’Eritrea tra il 1998 e il 2000. Un senso di tradimento pervade anche quanti avevano dato vita a #nomore, il movimento di orgoglio africano che durante il conflitto in Tigray aveva eletto Abiy a simbolo di una resistenza contro le ingerenze occidentali. In quel momento l’Etiopia era vittima di una pesante campagna mediatica, con il Segretario di Stato americano Anthony Blinken e Joseph Borrell schierati in sostegno del TPLF. Un allineamento che non stupisce visto che molti dei vecchi amici dell’ex primo ministro etiope e uomo forte del TPLF Meles Zenawi sono entrati nell’entourage di Biden, dall’ex consigliera politica Susan Rice all’ambasciatrice all’ONU Linda Thomas Greenfield fino alla Direttrice di USAID Samantha Power. Per non parlare del numero uno dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus, dirigente di lungo corso del TPLF. In linea dunque con i propri storici rapporti con la dirigenza tigrina, gli USA hanno da subito guardato alla crisi in Tigray come ad una opportunità per poter riportare al potere i vecchi amici come aveva spiegato senza mezzi termini l’ex Vice Segretario di Stato americano per l’Africa Vicki Huddleston durante un meeting con il dirigente del TPLF Berhane Gebre Christos. Le mancate promesse dell’uomo nuovo Se dopo gli accordi di Pretoria i toni di Washington si ammorbidiscono, il feeling con gli USA non è certo paragonabile a quello di un tempo come è emerso lo scorso 30 novembre durante l’audizione della Commissione per gli Affari Esteri al parlamento americano: “Etiopia: promesse o pericoli, la situazione della politica americana”. Qui il deputato repubblicano John James non ha usato mezzi termini, spiegando come <<un’Etiopia stabile è utile al Corno d’Africa e un asset importante per portare avanti gli interessi strategici americani nella regione, tuttavia la direzione che sta prendendo l’Etiopia è preoccupante>>. Per quanto l’Etiopia avrebbe tutto il diritto, ma evidentemente non la possibilità, di sganciarsi da Washington, è un fatto che la politica di Abiy si stia sempre più rivelando come autoritaria e inaffidabile. La decisione della Banca Africana di Sviluppo (AfDB) di lasciare l’Etiopia dopo la mancata promessa del Primo Ministro di effettuare un’indagine su un mancato trasferimento di 5,2 milioni di dollari (forse dirottati a Panama) e il conseguente arresto di due diplomatici in contravvenzione della Convenzione di Vienna, è solo l’ultimo caso di una leadership sempre più vulnerabile ad accuse di corruzione e dall’arresto facile, soprattutto nei confronti di giornalisti, attivisti e oppositori. Dopo un inizio di belle promesse e dai toni panafricani, il governo di Abiy sta inoltre alimentando profonde divisioni etniche. La modifica alla Costituzione promessa nel 2018 non è mai arrivata e la specifica etnica è ancora nero su bianco sui documenti d’identità. Dopo aver accusato il TPLF di “tigrinizzare” del paese, Abiy Ahmed, di etnia oromo, sta a sua volta “oromizzando” i principali gangli del potere e in violazione della carta costituzionale, ha messo in piedi una guardia repubblicana di soli militari oromo che risponde direttamente al suo gabinetto. Un leader dalla personalità narcisista che già a inizio mandato nel 2018 amava raccontare di come sua madre gli avesse predetto che sarebbe diventato il settimo re d’Etiopia, che ama sfoggiare un atteggiamento fatalista e provvidenziale tipico del movimento evangelico Prosperity Gospel cui Abiy, di fede protestante, sarebbe affiliato da tempo. Non a caso nominato dopo il passo indietro di Hailemariam Desalegn, anch’egli di fede protestante. Una sorta di teologia del pensiero positivo che ha portato i fedelissimi a sostituire la parola “povertà” con “prosperità”. Un uomo “scollegato dalla realtà”, lo definiscono alcuni commentatori etiopi, che fornisce risposte laconiche a chi lo accusa di piantare alberi mentre in Etiopia si continua a morire: “serviranno a fare ombra a quanti riposano in pace”, e che nonostante un terzo dei bambini etiopi soffra di malnutrizione secondo l’indice 2020 HCI del capitale umano, e l’87 % della popolazione sia povero o prossimo alla povertà, ha pensato bene di costruirsi una residenza per un costo stimato di 10 miliardi di dollari, un decimo del prodotto interno lordo del paese. Con quali soldi il premier inalbererà la sua reggia, è uno degli argomenti di discussione più tragicomici nei caffè della capitale. Se alcuni tirano in ballo i 2,6 miliardi di dollari sottratti alle casse dello stato dai suoi predecessori del TPLF (Fronte Popolare di Liberazione del Tigray), altri propendono per la stretta amicizia con gli Emirati Arabi Uniti da cui nelle ultime settimane, continuano ad arrivare aerei militari con misteriosi carichi. Anziché portare pace e prosperità, come il nome del suo partito (Prosperity party) sembrava promettere, Abiy guida un paese dilaniato dalle guerre. Dopo quella in Tigray, da oltre un anno imperversano le violenze e discriminazioni contro l’etnia Amhara. Una crisi che peraltro, in un triste gioco dell’assurdo, sembra avvicinare ulteriormente il TPLF alle istanze degli Oromo, in particolare a quelle dell’OLF (Oromo Liberation Front) e del suo braccio armato Oromo Liberation Army OLA). Entrambi i fronti etnici condividono infatti un atavico odio contro l’etnia Amhara percepita come dominante e oppressiva. E tutti accarezzano sogni di grandezza. (nelle foto qui sopra e sotto armi delle forze governative catturate in battaglia dalle milizie dell’OLA nelle recenti battaglie del novembre 2023). Così come il TPLF, già nel suo manifesto del ’76, tratteggiava il miraggio di un “grande Tigray”, buona parte degli Oromo accarezza la visione di “una grande Oromia” o di un mitologico “Oromo empire of East Africa” che dovrebbe estendersi fino al Mar Rosso. Scenari tipici dell’ideologia Oromummaa che si ritiene preveda un’Etiopia oromiizata o, in alternativa, una repubblica Oromia indipendente motivo per cui la popolosa etnia amhara, 30 milioni di cui ben 15 vivono nella regione Oromo, è percepita come un ostacolo da eliminare. I Fano: “la spina nel fianco” di Abiy Proprio il fronte aperto con l’etnia Amhara ha rappresentato fino ad oggi il principale problema interno di Abiy alle prese con la difficile gestione di un Paese di 120 milioni di abitanti e 88 etnie. Una crisi iniziata lo scorso febbraio quando un gruppo di sacerdoti Oromo si era staccato dalla chiesa ortodossa etiope per fondare un proprio sinodo e così eseguire le proprie celebrazioni in lingua oromo. Una frattura poi rientrata ma che secondo gli Amhara sarebbe stata utilizzata dal premier per dividere la Chiesa e quindi il Paese. A peggiorare le cose è arrivata poi la decisione del governo etiope di smantellare le forze militari speciali regionali. Nonostante l’apparente afflato nazionalista, l’iniziativa si declina da subito come un’operazione “ad personam”, diretta ad indebolire la resistenza Amhara, in particolare quella dei Fano, milizie volontarie nate negli anni ’30 contro l’occupazione italiana e che durante la crisi in Tigray si erano rivelate cruciali nel contenere l’avanzata del TPLF su Addis Abeba. “Eroi nazionali” li aveva definiti allora il Primo Ministro che oggi invece li combatte. Al centro della resistenza Amhara la difesa delle terre di Welkait e Raya, storicamente amhara ma rivendicate dal TPLF come proprie al punto da chiamarle “Western Tigray”. Un termine controverso che gli Amhara non riconoscono Il 4 agosto il premier proclama lo stato di emergenza nella regione Amhara arrogando a sé il potere di effettuare arresti senza mandato, imporre il coprifuoco, limitare i movimenti e vietare le riunioni pubbliche. Ne segue una escalation che ha esacerbato la guerra contro gli Amhara nel quasi totale silenzio mediatico. Per quanto non siano organizzati in una unità centrale, grazie ad una perfetta conoscenza del territorio e alla possibilità di sorprendere l’esercito federale con imboscate, i Fano ad oggi hanno dato prova di grande forza sul campo e sono arrivati a controllare anche il 60% della regione Amhara. Una superiorità militare che ha portato l’esercito federale a ricorrere ad armi pesanti e a droni di provenienza turca. Non solo, proprio il 22 dicembre, un importante carico di armi sarebbe arrivato dalla Cina, in particolare fucili d’assalto AK 47 e AF56 oltre a ulteriori droni armati Wing Loong. Una situazione di quasi guerra civile che rischia di deflagrare e che viene seguita attentamente oltreoceano. <<Mentre il governo di Abiy continua a guardare all’America per ricevere aiuti umanitari, l’Etiopia stringe legami più stretti con i concorrenti degli Stati Uniti come Cina, Emirati Arabi Uniti e Turchia, i contribuenti americani vogliono sapere dove vanno a finire i loro soldi>> ha ribadito ancora il deputato James. Il “diritto” all’accesso al Mar Rosso Con il Paese sempre più diviso e il fiato sul collo da parte degli USA, il tema dell’accesso sul Mar Rosso deve essere sembrato al premier etiope come un modo per risalire la china. Il tema era stato portato all’attenzione dell’opinione pubblica con un’intervista registrata a giugno ma trasmessa sulla TV nazionale Fana solo lo scorso 13 ottobre. In quella occasione Abiy Ahmed aveva messo sul tavolo una vecchia questione, la necessità di avere uno sbocco al mare che per gli etiopi, tocca una ferita aperta, quella del porto “ceduto” all’Eritrea nel 1991 con l’indipendenza. Una ferita non ancora rimarginata nonostante l’accesso ai porti eritrei di Assab e Massawa non fosse mai stato precluso all’Etiopia. Fu anzi l’allora primo ministro etiope Meles Zenawi, durante il tentativo di occupare l’Eritrea nel 1998, a voler spostare le attività commerciali a Gibuti nella speranza di penalizzare economicamente il nemico. Un obiettivo da raggiungere “con ogni mezzo possibile”, ha ribadito Abiy Ahmed (bella foto qui sopra) portando sulle difensive gli stati costieri Gibuti, Somalia ed Eritrea. Toni bellicosi che ricalcano il vecchio copione che investe il Corno d’Africa da oltre un secolo, lo stesso seguito dalla precedenti leadership etiopi, tutte contraddistinte da tentativi espansionistici nei confronti dell’Eritrea e permeabili alla solita logica del divide et impera molto cara oltreoceano. Nonostante i pubblici auspici di stabilità, nei fatti gli USA hanno sempre dimostrato di voler mantenere il Corno d’Africa in un cronico stato di instabilità. L’aveva detto chiaramente nel 1951 l’Ambasciatore americano John Foster Dulles agli eritrei che chiedevano l’indipendenza. Nonostante “le opinioni del popolo eritreo devono essere prese in considerazione” spiegava, “l’interesse strategico degli Stati Uniti nel bacino del Mar Rosso e le considerazioni di sicurezza e di pace mondiale rendono necessario che il Paese (l’Eritrea) sia collegato con il nostro alleato Etiopia”. Una posizione che secondo lo storico Theodore Vestal, sarebbe stata ribadita nel 1972 anche da Henry Kissinger che in un report confidenziale sottolineava come gli USA dovessero “mantenere l’Etiopia in un conflitto perenne e usare le divisioni etniche, religiose e di altro tipo per destabilizzare il Paese”. Raccomandazione cui l’alleanza con il TPLF, interessato a costituire un “grande Tigray” che inglobi parte della regione etiope Amhara nonché dello stato eritreo, è stata sempre funzionale. Se non fosse per i toni poco diplomatici usati dal premier etiope, il tema avrebbe potuto essere oggetto di discussione costruttiva e trattativa economica con i Paesi confinanti. Un’occasione di collaborazione interregionale necessaria in un continente dove solo il 15% dell’export è destinato ai paesi africani. Un modello che l’Etiopia peraltro, sta già cercando di portare avanti con la Diga sul Nilo Azzurro che fornisce energia elettrica a Sudan, Kenia e Gibuti. Del resto, già nel 2018, l’accordo di pace con l’Eritrea, tratteggiava la possibilità per l’Etiopia di utilizzare i porti eritrei in regime tax free. Da allora però, nessun accordo è stato raggiunto e l’Etiopia continua ad appoggiarsi su Gibuti per un costo di quasi 2 miliardi di dollari all’anno. Una cifra enorme se si pensa che per le proprie basi navali nella ex colonia francese, USA e Cina non spendono più di 100 milioni di dollari. Non solo, il mancato sbocco sul mare ridurrebbe lo sviluppo dell’Etiopia di almeno il 20% rispetto al proprio potenziale a causa di un balzo dei costi di commercio e trasporto dal 50% al 262%. Dopo le prime dichiarazioni tranchant, Abiy ha messo sul tavolo la possibilità di cedere quote dei principali asset del Paese come Ethio Telecom o Ethiopian Airlines in cambio dell’accesso al mare. Le mire di Abiy: spunto per un’altra guerra? “Un pazzo”. Hanno commentato alti ufficiali della Somalia ribadendo come “sacrosanta” la propria integrità territoriale. Più compassata invece la risposta del Ministro dell’Informazione eritreo che ha invitato a non cedere a provocazioni. Dietro i toni asciutti degli eritrei, tutto però lascia pensare che dopo le strette di mano profuse ai media durante la pace, oggi Eritrea ed Etiopia siano ormai molto distanti, anche come proiezione internazionale. Mentre l’Etiopia sembra voler alimentare le tensioni interne ed esterne, per Isaias Afewerki e i suoi 30 anni di guida ininterrotta dell’Eritrea, il 2023 è stato l’anno di una fine tessitura diplomatica. Dopo essere stato ricevuto con tutti gli onori a Pechino, a Mosca, e al summit dei Brics in Sud Africa, anche a quello Arabia-Africa di Riad dello scorso novembre, il presidente Afewerki non ha perso occasione per rimarcare la distanza da Addis Abeba intrattenendo almeno il triplo degli incontri rispetto al premier etiope. Mentre quest’ultimo continuava ad alimentare lo spettro della guerra tratteggiando l’antico regno di Axum che dalle terre dell’Etiopia si estendeva all’Arabia abbracciando il Mar Rosso, Afewerki preferiva rimarcare la necessità di aumentare la cooperazione tra paesi africani in nome della stabilità regionale e della pace. Proprio la sicurezza del Mar Rosso è stata al centro dell’incontro con il Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, uno dei primi antagonisti della politica di Abiy. A rendere ancora più profonda la distanza tra i leader eritreo ed etiope, sono state inoltre le accuse rivolte da quest’ultimo all’Eritrea, ritenuta responsabile di aiutare militarmente la resistenza Amhara e frange di quella Oromo che comunque stanno dando del filo da torcere ad Abiy per indebolirlo ulteriormente. Un atteggiamento percepito dall’Eritrea come ingrato, visto l’aiuto di quest’ultima in Tigray, nonché pretestuoso dato che ad oggi non vi sono prove di aiuti militari (politici forse) da parte dell’Eritrea, contrariamente invece alla presenza dell’esercito federale etiope nelle terre Amhara che rende quasi impossibile per l’Eritrea fornire supporto ai Fano. La questione del porto rappresenta dunque l’ennesimo elemento di frattura tra Eritrea ed Etiopia e sibilline in questo contesto suonano le parole di Seyoum Teshome, membro del partito di Abiy Ahmed. A detta del politico, un nuovo conflitto sarebbe imminente e potrebbe iniziare con un’operazione sotto falsa bandiera del Tigray diretta a provocare l’Eritrea. Se a quel punto, l’Eritrea dovesse iniziare la guerra, Abiy potrebbe sfruttare questa opportunità per prendere il controllo del porto eritreo di Assab. Uno scenario che potrebbe essere facilitato anche dalle diverse posizioni di Etiopia ed Eritrea rispetto alle fazioni che si contendono il Sudan e che l’avanzata delle RSF (Rapid Support Force) verso Sud potrebbe complicare. In quest’ottica, accusare preventivamente il governo eritreo per “interferenze” in Etiopia o in Sudan, potrebbe rimettere sul tavolo gli antichi piani di regime change in Eritrea, garantendo all’Etiopia il sostegno finanziario dell’Occidente e quella legittimità di leader che ultimamente Abiy sembra aver perduto. Una nuova guerra sarebbe anche l’occasione per portare avanti quanto richiesto dai ribelli tigrini nonché dai report della Commissione delle Nazioni Unite sui diritti umani e dal Dipartimento di Stato americano e quindi consegnare ai tigrini il cosiddetto “Western Tigray”. Un punto sul quale Abiy sta ricevendo non poche pressioni. Non è un caso infatti che nonostante questa dicitura sia contestata dagli Amhara e buona parte degli etiopi, sui tavoli internazionali si parli sempre di “Western Tigray”. Anche quando Mike Hammer, durante l’audizione della Commissione per gli Affari Esteri al parlamento americano, cercava rassicurava i deputati USA sulle intenzioni non bellicose di Abiy, il democratico Brad Sherman, da sempre grande portavoce delle istanze tigrine, ribadiva la necessità di concedere i fondi del Fondo Monetario Internazionale (IMF) all’Etiopia solo dopo la soluzione del “Western Tigray”. Un linguaggio che la dice lunga su quanto il Tigray sia importante per le manovre politiche di Washington nella regione. Non a caso, ancora oggi, il tema della “fame in Tigray” continua ad oscurare altre emergenze come le violenze a danno degli Amhara e a tenere banco sui tavoli internazionali. Gli ex ribelli tigrini lo sanno bene, come dimostra l’ultimo comunicato di Getachew Reda che è tornato ad accusare Addis Abeba di non fare abbastanza per la fame che affliggerebbe la regione. I segni di complicità tra Washington e la leadership etiope non mancano. Non ultima la scelta da parte dell’ambasciata americana ad Addis Abeba di definire la capitale etiope “Finfiné”, un termine controverso ma molto caro agli estremisti Oromo. Giochi di equilibrismo anche per Abiy che oltre che della Cina (che a differenza degli USA ha recentemente annullato il debito etiope), degli Emirati Arabi Uniti che continuano a rifornire le esangui casse etiopi di valuta estera e a rimpolpare l’esercito federale di armi, non può certo permettersi di fare a meno degli Stati Uniti. Questi, dalla loro, sembrano consapevoli di come in questo momento di grande instabilità nella regione, l’Eritrea possa essere determinante per gli equilibri del Corno d’Africa. L’apertura suggerita dal comunicato del 12 novembre è però durata poco. Solo dopo alcuni giorni, gli USA sono tornati al solito registro di accuse contro Asmara, ritenuta responsabile di non aver ancora ritirato le proprie truppe dal Tigray e di interferire con gli affari interni del Sudan. Di certo, prendere di mira l’Eritrea in questo momento non sembra la mossa migliore per permettere ad Etiopia e Stati Uniti di riposizionarsi nell’area. Mai come ora infatti, in un continente che dopo sette colpi di stato susseguitisi nell’Africa centrale, si mostra sempre più insofferente alle ingerenze occidentali, l’Eritrea gode di un’ottima reputazione anche per una questione simbolica, quella di unico paese africano indipendente da meccanismi di controllo esterni o basi militari straniere. Non a caso, quando lo scorso luglio il Consiglio sui diritti umani delle Nazioni Unite si è riunito per rinnovare il mandato allo special rapporteur per l’Eritrea, questo non è stato votato da neanche uno stato africano. L’accordo col Somaliland Una parziale distensione con Gibuti e l’Eritrea potrebbe venire determinata dall’intesa tra Etiopia e Somaliland (l’ex Somalia Britannica) annunciata ieri: l’agenzia Bloomberg ha reso noto che Addis Abeba ha firmato un memorandum d’intesa con il Somaliland, regione separatista della Somalia settentrionale di fattoi autonoma dal 1991 ma non riconosciuta dalla comunità internazionale, per ottenere l’accesso al Mar Rosso in cambio di una partecipazione azionaria nella compagnia di bandiera Ethiopian Airlines. I negoziati dettagliati per raggiungere un accordo formale saranno conclusi entro un mese, ha affermato Redwan Hussein, consigliere per la sicurezza nazionale del primo ministro Abiy Ahmed. Non ha rivelato la quota che l’Etiopia offrirà della più grande compagnia aerea africana. Il protocollo d’intesa consentirà all’Etiopia di accedere al Mar Rosso dal Somaliland per utilizzarlo come base militare e per scopi commerciali per 50 anni, ha detto Hussein in un briefing lunedì nella capitale Addis Abeba. Sarà in grado di affittare un “accesso lungo 20 chilometri (12 miglia) per la base della Marina Etiope e di essere utilizzato come uno dei suoi porti di ingresso”, ha detto il presidente del Somaliland Muse Bihi Abdi. Notizia che di fatto anticipa la ricostituzione di una Marina Etiope (a lato il suo stemma), che di fatto cessò di esistere nel 1991 con l’indipendenza dell’Eritrea ed è stata ufficialmente disciolta nel 1996. In base all’intesa con il Somaliland, l’Etiopia potrà anche costruire infrastrutture e un corridoio terrestre tra il territorio etiope e il porto, probabilmente quello di Berbera già collegato al territorio etiopico da una importante arteria stradale che nelle intenzioni etiopiche dovrebbe venire presto affiancata da una linea ferroviaria. Sul piano politico l’accordo prevede che l’Etiopia riconosca il Somaliland come stato sovrano, ha affermato Bihi Abdi; un passo importante affinché in prospettiva lo stato somalo con capitale Hargeisa possa venire riconosciuto anche da altre nazioni e dall’Unione Africana. “L’accordo firmato costituisce una seria preoccupazione per la Somalia e per l’intera Africa. Il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale è il fondamento della stabilità regionale e della cooperazione bilaterale. Il governo somalo deve rispondere in modo appropriato” ha detto l’ex presidente somalo Mohamed Farmaajo in un tweet di fuoco. Il 29 dicembre erano ripresi a Gibuti i colloqui fra il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud e il presidente del Somaliland, che dal 1991 rivendicano l’indipendenza dal Paese. Lo ha riferito il sito riferisce “Garowe online” ripreso in Italia da Agenzia Nova. Il dialogo si era interrotto alcuni mesi fa dopo che le parti non sono riuscite a concordare i termini di un’intesa che porti al riconoscimento dell’ex Somalia Britannica.
0 Comments
Leave a Reply. |
Archivi
Settembre 2024
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0 Italia. |