Il ministro eritreo Saleh Meki recentemente scomparso prematuramente (2 ott. 2009) può simbolicamente rappresentare un esempio di impegno civile che ripropone la necessità di uno studio approfondito da parte degli osservatori sulle fondamentali differenze fra il modo profondamente democratico di concepire l’assolvimento di un incarico istituzionale nella cultura eritrea rispetto al decadente modello morale occidentale. La biografia di Saleh Meki dimostra come egli non abbia esitato a lasciare una brillante e avviata carriera professionale negli Usa per rientrare in patria secondo il principio condiviso con tutti i suoi connazionali che gli interessi personali vanno subordinati a quelli collettivi e che la assunzione di una carica istituzionale è un preciso onere etico e non un privilegio materiale. In Eritrea ogni incarico governativo è concepito come un dovere sociale al quale nessuno che abbia le capacità specifiche per poterlo svolgere si sottrae. Ogni ministro, ogni funzionario e ogni addetto di una qualunque delle strutture e sottostrutture del paese assolve al suo compito come a un dovere nei confronti della collettività, senza alcun privilegio, rinunciando alla propria carriera professionale e percependo uno stipendio assolutamente irrisorio. Questo modello sociale è la conseguenza della piena consapevolezza degli eritrei che una volta ottenuta l’indipendenza sarebbe stato necessario costruire dal nulla l’intera struttura statale contando unicamente sulle capacità acquisite nel corso dei lunghi anni di guerra attraverso lo studio e il duro lavoro sul campo. Da allora nulla è cambiato nel modo di pensare degli eritrei i quali con incrollabile determinazione continuano nei giorni nostri a perseguire quegli obiettivi stabiliti fin dai primissimi anni della lotta armata mantenendo identica la struttura dirigenziale, identiche le finalità, identiche le modalità di attuazione e soprattutto identiche le profonde motivazioni etiche, indipendentemente dalle differenze religiose, etniche o sociali che caratterizzano la loro società. Tuttavia come è nella natura umana un tale carico di responsabilità può alla lunga produrre dei cedimenti in individui che del tutto imprevedibilmente nei momenti critici perdono il controllo delle loro normali capacità e assumono scelte sbagliate come nel caso dei giovani che lasciano illegalmente il paese o altre estremamente più gravi come nel caso dei cosiddetti G15 avvenuto nel momento più critico del post indipendenza mentre il paese rischiava di essere nuovamente invaso dall’Etiopia.
E' importante notare che buona parte delle responsabilità morali di quel tentativo di sovvertimento del governo ricade su alcuni paesi stranieri che in quel periodo mediavano la tregua fra gli etiopici e gli eritrei tentando di convincere quest’ultimi a cambiare atteggiamento e abbandonare la linea della intransigenza a favore di una linea più accomodante e favorevole all’accoglimento delle istanze territoriali etiopiche. Tuttavia anche in quel momento di massima emergenza gli eritrei rimasero uniti e prevalse la linea rigida del presidente Isaias che seppe tamponare la falla e salvaguardare l’integrità territoriale e l’indipendenza del paese, evitando all’Eritrea la sorte che pochi anni dopo sarebbe toccata alla Somalia. Con molta superficialità e dimostrando una scarsa capacità di approfondimento, per non voler dire strumentalizzazione, alcuni giornalisti occidentali propongono continuamente quel momento come “una svolta dittatoriale” che evidentemente è una interpretazione della realtà sociale e politica dell’Eritrea totalmente distorta e asservita a logiche di demonizzazione utili, più che a una rispettosa analisi, a specifici e occulti fini di strategia politica internazionale. Il meccanismo stesso utilizzato per la diffusione di tali notizie prive di ogni benché minimo fondamento svela la vera natura degli scopi di alcuni gruppi di potere che innescando una perversa spirale mediatica, sfruttando gli interessi che gravitano intorno al fiorente fenomeno degli aiuti umanitari, diffondono attraverso le Ong e le cosiddette associazioni per i diritti umani, illazioni che vengono poi riportate come vere e amplificate dai media per poi essere riprese dalle stesse Ong e associazioni per suonare la grancassa dell’interventismo. Un mostro simile a quello che ha prodotto il movimento di opinione globale sulle presunte armi di distruzioni di massa di Saddam o sulla folle politica estera americana scatenata da Bush dopo l’undici settembre. Della reale coerenza e specificità dell’Eritrea le cui vicende storiche e sociali non hanno eguali, in tutti quei rapporti non vi è alcuna traccia nonostante la abbondanza di testimonianze che da molti anni raccontano la storia di un popolo che della assoluta e disinteressata condivisione dei compiti ha fatto la sua strategia vincente, e anche negli ambienti politici occidentali più progressisti e attenti ai valori sociali si va consolidando l’errato convincimento diffuso dai media che l’Eritrea sia entrata nella spirale della dittatura e della sopraffazione dei diritti umani. Purtroppo il mancato studio del fenomeno eritreo rappresenta per tutti una importante occasione perduta; per le sinistre quella di ritrovare il filo di una propria identità da troppo tempo smarrita, e per la nostra società quella di un confronto civile con una realtà sociale di sani principi. La passiva accettazione della presentazione del modello politico eritreo come dittatoriale e antidemocratico mette in mostra quello che probabilmente è il vero nocciolo del decadimento intellettuale occidentale, l’incapacità cioè di svolgere una analisi critica, indipendente e libera da laccioli, di un fenomeno unico e virtuoso che dovrebbe essere preso a modello da molti altri paesi africani emergenti devastati dalle interessate influenze esterne, dal malgoverno e dalla corruzione. Stefano Pettini
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Settembre 2024
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