di Fulvio Grimaldi da Mondo cane Controblog - Tornare in Italia dopo un paio di settimane in giro per l’Eritrea è come sprofondare da una passeggiata a pieni polmoni nel bosco all’alba, tra canti di uccelli e rigogli di fioriture, nell’apnea dentro a uno stagno putrescente. Tutto, da limpido e trasparente, diventa torbido e opaco, nelle parole e nelle immagini. Rientriamo a Mordor, il tetro impero della menzogna e del sopruso. Ancora le gigaballe su Regeni e Al Sisi, ancora i turpi inganni su Aleppo, ancora l’Isis che o accettiamo un regime cripto nazi, o ci fa saltare per aria tutti, ancora i ciarlatani nei palazzi del potere…. Con i guerriglieri lotta armata per la liberazione C’ero già stato, in Eritrea, diverse volte. Come sempre da non-nonviolento. La prima, appena scelto di fare il corrispondente di guerra da freelance, dopo aver coperto la Guerra dei Sei Giorni in Palestina per Paese Sera. I miei territori d’elezione erano quelli dove ancora non era finita la lotta di liberazione dal colonialismo, non-nonviolenta e perciò vittoriosa: Palestina, Irlanda del Nord e, appunto, Eritrea. Eritrea che avrebbe dato vita alla più lunga lotta di liberazione di tutta la decolonizzazione: 1961-1991. Il classico Davide, tutto solo, contro il Golia etiopico che aveva alle spalle, prima, tutto l’Occidente imperialista e, poi, tutto l’Oriente “socialista” e che già aveva subito, dal 1890, l’offesa del colonialismo italiano, quello degli “italiani brava gente”, brutale, razzista e predatore, poi, dal 1941, quello britannico e, infine, l’annessione all’impero di un manigoldo genocida, ma caro all’Occidente, Hailè Selassiè, re dei re. Da qualcuno, animato da appetiti neocoloniali, incoronato “padre dell’Africa”. Maggio 1971, sul campo
Mi ero incamminato, nella primavera del 1971, con i combattenti del Fronte di Liberazione Eritreo (FLE), che più tardi, dopo sanguinosi contrasti, avrebbe ceduto il passo al Fronte Popolare (FPLE) di più netta ispirazione rivoluzionaria. Partimmo da Kassala, in Sudan, e durante una mesata percorremmo a piedi, schivando i presidi e le pattuglie degli occupanti etiopici, ma anche scorpioni, babbuini urlanti, leoni sonnecchianti, mezzo migliaio di chilometri, tra andare e ritornare. Attraversammo, prosciugati dal sole e accecati da tempeste di sabbia, il deserto e il semideserto del bassopiano occidentale, rincuorandoci nelle frescure dei fiumi Barka e Gash. Ci arrampicammo sugli aspri e aguzzi monti che ci sollevavano verso l’altopiano dalle ricche piantagioni in mano ai latifondisti italiani, i Denadai, i Barattolo, i cui aranceti ci offrivano copertura dagli occhiuti elicotteri e caccia di Addis Abeba. Incrociammo combattenti feriti, dalle bende insanguinate, reduci delle battaglie. Interrompemmo la dieta secca e monotona della dura (un cereale), resa graffiante dall’incandescente berberè, grazie a un povero dik-dik centrato dal Kalachnikov, o a un capretto offertoci dal capo villaggio solidale con la rivoluzione. Rasentammo Tesseney, Barentu, Agordat, Keren, città rifatte negli anni ’30, come soprattutto le bellissime Asmara e Massaua, nel segno del più felice stile razionalista italiano, detto anche “littorio”. Opere di nostri grandi architetti e urbanisti, uno dei pochi lasciti di cui non ci dobbiamo vergognare, anche se, beninteso, è per la piccola e tronfia borghesia coloniale che si apprestavano residenze ed edifici pubblici, mica per gli “indigeni”, relegati nell’apartheid, oltre la cinta delle case belle. 1977, Dancalia, sotto le bombe sovietiche dell’Etiopia La seconda volta fu, nel 1977, attraversando con un barchino il Mar Rosso dallo Yemen, dribblando di notte le navi da guerra etiopiche appostate in vista della Dancalia liberata dal Fronte. Sbarcammo a Barasole, poco sopra il porto di Assab, accesso al mare ambito da Addis Abeba. Non era finito il cerimoniale del ricevimento allestito dagli anziani del villaggio, che arrivarono le bombe del nuovo tiranno colonialista, il “Negus rosso”, Mengistu Hailemariam, capo del DERG, gruppo di ufficiali che aveva rovesciato il vecchio imperatore sanguisuga e, dopo qualche occhieggiamento con Washington, si era collocato tra le braccia di Brezhnev. E di Fidel. Che, fraintendendo per obnubilazione terzinternazionalista e pentendosi poi tardivamente, inviò 15mila cubani a schiacciare una lotta di liberazione nazionale condotta nel segno di Marx, Fanon, Cabral, Malcolm X, insomma del meglio su piazza. Barasole incenerita con capanne, edifici, bestiame, persone. Noi, con donne e bambini, portati in salvo nelle grotte laviche alle spalle del villaggio. Poi tutto un viaggio per spiagge sconfinate e vuote, da turismo di sogno, e su, tra le altissime rocce vulcaniche dove la guerriglia celava le sue infrastrutture: cliniche, officine, scuole, coltivazioni., tra picchi e anfratti dove i piloti russi ci cercavano e non ci beccavano più. Nel 1978 tornai con la guerriglia nel bassopiano al confine col Sudan. Stavolta le città, Tesseny, Barentu, Agordat, non le passammo al largo, strisciando tra acacie e frutteti. Ci entrammo trionfalmente: erano state liberate e già prosperavano scuole rivoluzionarie, cliniche, centri di assistenza sociale, organizzazione comunitaria. Provai a raggiungere l’armata vittoriosa nel 1989 nella sua grande offensiva, giù da Nakfa verso Asmara, travolgendo le ultime resistenze etiopiche. Ma logistica e normative strategiche non lo consentirono e dovetti seguire la liberazione della nostra prima colonia, la vittoria di una vera rivoluzione al tempo in cui altre si apprestavano a spegnersi, alla radio, in tv, sui giornali. Che allora erano tutti pieni di ammirazione e simpatia. Il negus rosso, è vero, non c’era più e dunque anche le “sinistre” poterono rivedere i propri strafalcioni da allineamento con Mosca (lo fece perfino l’Avana, ma solo nel 1989, a giochi fatti) ed entusiasmarsi per la vittoria di questa estrema battaglia al colonialismo, stavolta interafricano, ma con grossi sponsor alle spalle dell’aggressore. Libera Eritrea = Stato canaglia E siamo all’oggi. Ammirazione e simpatia si sono stravolti nel loro contrario. Nell’Africa dell’Algeria, dello Zimbabwe e dell’Egitto assediati dal revanscismo colonialista, della Libia e Somalia disintegrate, del Sudafrica in pieno tradimento di tutte le sue premesse, dei tre fantocci centroafricani che fanno da quinte colonne per la riconquista imperialista del Continente. Kenia, Uganda ed Etiopia, e di tutti gli altri regimi più o meno ammanettati ad Africom, l’Eritrea è diventata per tutti, uniti nella perversa maieutica Nato e neoliberista, la piccola grande bestia nera. Lo schema è quello classico, tanto facile, stereotipato e rozzo, quanto bene accetto all’ansia diritto-umanista degli utili idioti e amici del giaguaro: dittatura spietata, partito unico autocratico, lavori forzati, prigionieri politici incatenati e torturati, esecuzioni di chi fiata, una gioventù bruciata dalla militarizzazione perpetua, torme di disperati in fuga a rischio di insabbiarsi nel Sahara o affogare nel Mediterraneo. Tutta roba già martellata su cervelli che dovevano poi assistere, catatonici o compiaciuti, alla distruzione di Jugoslavia, Serbia, Iraq, Libia, Siria e relativi genocidi, nel nome del recupero dei diritti umani e della costruzione della democrazia. Spia o relatrice dei diritti umani: Una sguattera di operazioni del genere è tale Sheila Keetaruth, già capa in Africa dell’arnese Cia Amnesty International, incaricata dall’ONU di trovare modo di creare le premesse per l’aggressione all’Eritrea alla conferenza di Ginevra della Commissione per i Diritti Umani (presieduta dai sauditi) del prossimo giugno. Non ha mai messo piede in Eritrea e ha raccolto testimonianze tra eritrei veri e finti rastrellati in Etiopia in produttiva collaborazione con funzionari di un paese che da quasi settant’anni cerca, a forza di bombe e stermini, con pieno appoggio e su istigazione degli Usa, di mangiarsi l’ex-colonia italiana. La credibilità della signora si basa su questo retroterra, come sulla dabbenaggine o complicità dei media tutti e delle forze politiche occidentali tutte. Vale quella dei “giudici” della Corte di Giustizia Internazionale (quella che incrimina solo soggetti di pelle nera), o del Tribunale Penale per la Jugoslavia (quella che ammazza in cella chi non riesca a provare colpevole). Demonizzazioni imperialiste, verità eritree Visti gli esiti del multipartitismo come adottato dai ceti compradori del neocolonialismo (senza neanche parlare di quello in uso da noi, dove ogni diversità si omologa in larghe intese), l’Eritrea ha organizzato lo Stato e la partecipazione della popolazione nel Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia (FPDG), erede diretto del Fronte guerrigliero (FPLE) che ha portato il paese alla liberazione e all’indipendenza. Isaias Afeworki, vero padre della patria ed espressione dell’unità e del destino comune di un popolo composto da nove etnie e tre religioni, comandante del FPLE dalla sua creazione, ne è il segretario. Nell’immaginario del popolo corrisponde a Fidel, a Chavez, a Gheddafi. Di Isaias (in Eritrea tutti si rivolgono tra loro con il primo nome, essendo il secondo quello del padre) per le strade, nelle vetrine e negli uffici non si vedono immagini, tanto che sono dovuto andare su google per vedere quanto l’uomo di oggi differisse da quello, giovanissimo, che vidi a Khartum nel 1978. Né si vedono – consentitemi il passo di lato - per i grandi viali alberati dell’Asmara o di Keren, nei gruppi di giovani dello struscio, o nei crocchi di anziani agli innumerevoli caffè “Impero”, “Tre Stelle”, “Maria”, nelle code per i cinema “Roma”, “Verdi”, “Impero”, le facce piatte di chi s’è perso e ha perso il mondo nei tecno-intrugli deficienti degli smartphone. Il cellulare ce l’hanno e a volte telefonano. Ma perlopiù guardano, sentono e si parlano. E neppure sono inciampato, alle fermate degli autobus, sotto gli edifici pubblici, intorno a ministri o dirigenti politici, nei vicoli che serpeggiano per i villaggi di tucul, tra i sicomori nel bassopiano, alla cui ombra si riuniscono le assemblee di paese, nei mercati-formicai abbaglianti di colori, né i militari con mitraglia imbracciata, né guardie del corpo, nei poliziotti robocop, da noi fatti passare per custodi delle sicurezza ed effettivo strumento di intimidazione. Clinica del Fronte in Dancalia Per scoprire un vigile – disarmato – ho dovuto correre all’arrivo, ad Asmara, del Giro Ciclistico d’Eritrea (con partecipazione di squadra toscana “Amore e Vita”), sotto le tribune che il colonello Mengistu aveva allestito per assistere alle parate delle sue armate e che, bastonato e cacciato il negus rosso, ora tracimano di tumultuante folla in delirio per i suoi pedalatori connazionali, primi otto all’arrivo e in classifica su otto nazioni partecipanti. In tribuna tre dei ministri che ho intervistato: Informazione, Agricoltura, Sanità. Neanche l’ombra di una body guard. Gira così per il paese anche Isaias. Chissà se è perchè non gliene fotte niente di esibirsi con un esercito personale, o perché quiggiù nessun notabile rischia il lancio di oggetti, o improperi. Ne ho incontrato parecchi di studenti, contadini, mercanti, bariste, tecnici, scienziate. E ministri e dirigenti del Fronte. Dagli uni agli altri non c’era soluzione di continuità umana. Ne venivo via, in ogni caso, con la sensazione di aver incontrato persone perbene, autentiche, prese da quel che fanno, che ci credono. Se poi penso alle facce e ai modi dei nostri potentati è come passare da un romanzo di Calvino all’Isola dei Famosi. Una luce nel Corno d'Africa Il paese è povero, ma in piedi. Nel 2009 l’ONU ha decretato sanzioni, poi rinnovate nel 2011 e via via, Cina e Russia piratescamente astenuti. Quell’ONU, foglia di fico su tutte le nefandezze Usa e UE, che, da sempre, all’Eritrea ha voluto male. Negli anni ’50, partiti gli italiani e poi i britannici, l’ha voluta federare all’Etiopia e poi non ha detto niente quando il monarca più sanguinario e ottuso dell’intero continente se l’è incorporata. Né s’è sognata di fornire solidarietà e sostegno, almeno politico, a una lotta di liberazione costata agli eritrei decine di migliaia di vittime, tra civili e combattenti e infinite distruzioni. Lotta dei poveri, in sandali fatti dai copertoni, contro i tank, i Mig, i Phantom, forniti ai lacchè etiopici dalle superpotenze. Forse al Palazzo di Vetro, che comunque sta inesorabilmente all’orecchio della Casa Bianca, si presentiva che con quell’Eritrea di un Fronte impermeabile a ogni condizionamento esterno, arabo, africano, o occidentale che fosse, non sarebbe finita come con l’India, o il Sudafrica, subito rientrati, tramite Commonwealth, nell’orbita capitalista. Hanno vinto, gli eritrei, armandosi con le armi sottratte al nemico. Quelle al nemico distrutte costeggiano ancora le grandi via tra est e ovest, nord e sud e, ai margini della capitale, ne hanno fatto una collina che è memoriale e monito. Parola d’ordine di sempre: Resilienza E oggi vincono grazie allo stesso criterio: resilienza e autosufficienza, senza dover dire grazie a nessuno, né fare inchini. E funziona. Nella lotta hanno imparato a darsi da fare da soli, inventandosi tutto, dalle lamiere dei camion trasformate in lanciarazzi, ai sandali dei guerriglieri, appunto, riciclati dai pneumatici. Un sobborgo della capitale è tutto un’immensa officina del riciclaggio. E’ uno degli spettacoli di trasformazione e ricupero di quanto da noi si butta più impressionanti che abbia mai visto. Non c’è rifiuto di metallo, plastica, legno, carta, stoffa, che non torni in vita tra le mani di questa immensa industria spontanea e artigiana. Del resto quella dell’Eritrea è una vera ossessione ecologica. Banditi i safari che, negli altri stati, avvicinano l’estinzione di tutte le specie autoctone. I babbuini ci salutano dal ciglio delle strade, gli struzzi competono con il fuoristrada, gazzelle, elefanti e leoni stanno tornando sulle rive del Gash e del Barka, da dove i combattimenti e le bombe li avevano allontanati. L’intera Eritrea è una riserva naturale. E così il Mar Rosso, i suoi coralli, la sua fauna ittica e le sue sconfinate spiagge e isole bianche. L’industria mineraria si va scoprendo remunerativa – oro, argento, rame, zinco, potassio – e si va allargando con l’intervento di società estere in consorzio con quelle nazionali. A Bisha, nell’estremo sud-ovest del paese, dove si estraggono rame e zinco, il responsabile alla sicurezza ambientale e sanitaria ci ha messo un’ora ad elencarci le norme e misure dettate dal legislatore per impedire che gli investitori strafacciano come in Romania o Perù.(incominciano ad essercene parecchi, a dispetto delle sanzioni e delle minacce del Dipartimento di Stato, attratti da un’economia mista e da risorse che rendono accettabili le stringenti normative statali). La grande quantità d’acqua necessaria per le estrazioni viene riciclata all’80%. E il problema della scarsità d’acqua, dei fiumi torrentizi e solo stagionali, viene affrontato con la costruzione di dighe che raccolgano l’acqua piovana. E grazie a queste che le ricorrenti siccità hanno colpito Etiopia e altri paesi con vaste estensioni aride, ma hanno potuto essere superate in Eritrea. Dove il fervore verde si incontra a ogni tornante delle vie “imperiali”, tra lo zero sul livello del mare di Massaua ai 2.400 di Asmara, costruite dai colonizzatori tra il 1890 e il 1941, e ora ben mantenute e prolungate. Lungo una di queste c’è Dogali, dove un imbecille di tenente colonello nel 1987 ha sacrificato alla sua imperizia e alla fregola colonialista di De Pretis 500 giovani contadini e operai italiani. Poco dopo c’è il sacrario di Adua, dove 9 anni dopo, altri poveri coscritti vennero fatti a pezzi dagli abissini. Dalle parti di Keren c’è il cimitero italiano. Il custode, con una paga misera misera di Roma, non nota la mia vergogna alla scritta sull’entrata: “EROI” e poi alla vista di un cimitero diviso in due. Da una parte centinaia di lapidi con nomi, cognomi, date e grado dei caduti italiani. E tante piante fiorite di Bouganville. Dall’altra, altrettante lapidi, secche, con una sola scritta ciascuna: “Ascaro ignoto”. “Ascaro ignoto”. Montagne a gradinate, con le terrazze che si moltiplicano su ogni pendenza, a frenare l’erosione e a rimboschire. L’afforestazione è forse l’impegno ecologico principale per Stato e popolazione. Vi si impegnano le comunità locali, con tutti i componenti maggiorenni. Lo rinforzano i militari impiegati nel servizio civile. Già, quei militari su cui imperversa il cliché di una coscrizione senza fine, vessatoria, che cancella opportunità e libertà. Senza contare che dal giorno dell’indipendenza conquistata l’Eritrea rimane sotto schiaffo di chi utilizza gli etiopi per ricondurre il paese ribelle all’obbedienza imperiale. Nel decennio successivo ha dovuto subire e vincere due guerre d’aggressione. Nonostante gli accordi di Algeri del 2000 abbiano determinato le linee di confine, del resto fedeli ai tracciati storici, Addis Abeba continua impunita ad occupare territorio eritreo. Senza che l’ONU alzi un ciglio. Ed è ancora di questi giorni l’ennesima minaccia di guerre all’Eritrea lanciata da Hailemariam Desalegn, successore del despota Meles Zenawi. Che questo comporti per un popolo di meno di 5 milioni di abitanti uno spropositato sforzo di difesa dovrebbe sembrare naturale. Oggi, tuttavia, il servizio militare è limitato ai 18 mesi, in gran parte impegnati, appunto, nel servizio alle comunità. Sta peggio Israele, dove, dopo i due anni di servizio obbligatorio, si viene richiamati fino ai 50 anni e l’impegno è tutto per lo sterminio di palestinesi, grandi o piccoli che siano. Ma nessuno fiata. L’irrigazione a caduta, a pioggia, canalizzata, amplia in continuazione la terra coltivata. Vi si dedicano aziende agricole integrate dove si persegue l’autosufficienza territoriale con l’allevamento, bovini, ovini, pollame, e le colture di cereali, legumi, verdure. Grandi complessi da 14mila polli, migliaia di capre e centinaia di vacche da latte sparsi nel paese e che costituiscono il modello per l’agricoltura famigliare, dove con un paio di mucche, i polli, le capre, gli orti, il frutteto, si copre il fabbisogno proprio e si ambisce a un 20% da vendere sul mercato di zona, o direttamente, o attraverso cooperative. L’Eritrea è un paese bellissimo, tra il tropicale e l’alpino. Un sogno di turismo ecologico e culturale. Configurazioni geologiche affascinanti e varie come neanche la fantascienza galattica le ha saputo immaginare. L’Africa nera più nera e poi la moderna urbanistica razionalista e la vita di comunità che concilia musulmani, ortodossi e cattolici, tutti con le loro grandiose cattedrali e moschee. Potrebbero avere qualche risentimento, questi figli e nipoti di una colonizzazione che li ha depredati e umiliati, oltre a farne combattere e morire i nonni, da ascari, nelle guerre dei genocidi fascisti in Libia ed Etiopia. Ci penso mentre passeggio ad Asmara, per il Viale della Liberazione, tra ragazze-fuscello in leggins e signore in vaste sottane, con il gran scialle bianco e i capelli ancora a treccine sulla nuca. Questo viale si chiamava allora “Campo Cintato” e divideva in due la città. Da un lato i signori coloni con palazzi e ville, cinema e circoli, dall’altro gli indigeni e le loro baracche. Da qui all’altra parte non si passava, se non per fare i giornalieri: camerieri, sguatteri, pulitori, spazzini. Avrebbero qualche motivo per risentirsi a incrociare questi nostri visi bianchi con le telecamere Sony puntategli addosso. E infatti le evitano, ma è per un sano sospetto di fare da folklore, come lo cercavano un tempo signori curiosi di esotismo. Ma non appena saluti, sorridi, è subito uno sconfinato biancheggiare di denti su fondo scuro. E ti pare di sentire un soffio di tempi lontani, perduti, quando eri piccolo e tutte le cose si facevano ancora insieme, quando non c’era l’ognuno per sé, più veloce, più forte, più fregone, più sprofondato nell’abisso senza fondo del suo telefonino. Qui sorridono tutti, sei avvolto in vapori di cordialità, c’è una specie di onda d’intesa sul fatto che siamo tutti umani che avvolge, rasserena, conforta, fa allegria. Dici una volta il tuo nome e tutti ti ci chiamano ogni volta che ti incontrano. Diventi parte di una memoria collettiva e, se ti fermi, di una collettiva vita. Altro che dittatura. Prima di parlare di Eritrea qui in Occidente, e soprattutto in Italia, ci si fermi. Si contemplino gli scempi politici, morali e culturali che ci siamo lasciati infliggere da una successione di bande di cialtroni, si apra un libro di storia e si noti chi abbiamo sulle spalle, se non sulla coscienza collettiva, i marescialli Graziani dei mille impiccati tra Addis Abeba e Assab, il maresciallo Badoglio dello sterminio con i gas. E poi si stia zitti. di Fulvio Grimaldi da Mondo cane Controblog
1 Comment
Dr Tecle Negash
9/5/2016 05:51:13 pm
Grazie della sua sincerita
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