da Blog di pellegatta Angelo Castiglioni non è più tra noi. Ha raggiunto il fratello Alfredo, che ci aveva lasciato il 14 febbraio 2016. Con Angelo scompare l’ultimo dei grandi esploratori italiani del Novecento. I fratelli gemelli Alfredo e Angelo Castiglioni nacquero a Milano il 18 marzo 1937, ma diventarono varesini di adozione, e con le loro esplorazioni ci hanno riportato al fascino dei primordi del romanticismo esplorativo ottocentesco proprio per quella loro particolare attitudine a superare schemi e barriere, spingendosi oltre il limen senza mai preoccuparsi troppo delle convenzioni e delle regole accademiche. I fratelli gemelli Alfredo e Angelo Castiglioni[1] sono nati a Milano il 18 marzo 1937. Nel corso di oltre sessant’anni di attività esplorativa hanno svolto numerose spedizioni e ricerche in campo antropologico, etnologico e archeologico in tutto il mondo. Laureati in economia e commercio, nell’agosto del 1957 raggiunsero con due Vespe il Marocco, il Sahara spagnolo e la Mauritania, attratti irresistibilmente dal fascino del Continente nero. L’anno successivo si imbarcarono sul mercantile General Mangin diretto verso l’Africa occidentale, e il primo scalo fu per loro il porto di Algeri, e lì conobbero momenti della lotta di liberazione algerina: forzando, con l’incoscienza giovanile, il blocco dei militari francesi entrarono nella Casbah, dove si erano asserragliati gli esponenti della lotta per la liberazione dell’Algeria dal giogo coloniale francese. Raggiunto il Camerun, da lì si spinsero con mezzi di fortuna verso il Chad. Proprio da queste prime esperienze esplorative maturarono il bisogno di documentare un mondo che stava progressivamente e inesorabilmente scomparendo. Inconsciamente anticiparono l’invito che in seguito Senghor, il grande poeta e presidente senegalese, rivolse al mondo[2]. Nacquero così i primi film e i documentari realizzati su pellicola 16 mm, 7291, della Kodak. Un’Africa ancora sconosciuta rivelava i suoi enigmi attraverso le loro immagini e i loro libri, scritti in collaborazione con Giovanna Salvioni, docente all’Istituto di Etnologia e di Antropologia all’Università Cattolica di Milano. Dopo questi primi viaggi pionieristici, i fratelli Castiglioni estesero le loro missioni etnologiche a molti altri stati dell’Africa occidentale, equatoriale e orientale[3], effettuando spedizioni con tutti i mezzi di trasporto disponibili al fine di raggiungere le etnie più isolate e lontane dalla cosiddetta “civiltà” e che, propria a causa di questa loro lontananza, avevano miracolosamente conservato la propria cultura ed identità. Davanti ai rapidi mutamenti economico-sociali africani, furono così tra gli ultimi testimoni della decadenza di un mondo arcaico. Sempre alla ricerca del mondo africano delle origini, affrontarono negli anni tra il 1960 e il 1965 alcune difficili missioni lungo l’Alto Nilo Bianco, e in particolare la regione di Equatoria e il Sudan meridionale. Vollero intenzionalmente ripercorrere gli itinerari battuti nell’Ottocento da Carlo Piaggia tra le tribù antropofaghe dei Niam-Niam, da Romolo Gessi lungo il Bahr el-Ghazal, il mitico Fiume delle Gazzelle, da Gaetano Casati in Equatoria e da Giovanni Miani (chiamato il Leone bianco dagli indigeni, per via della sua lunga barba canuta). Con loro profonda meraviglia, i fratelli Castiglioni si accorsero che tra le popolazioni nilotiche dei Dinka, Mundari, Nuer e Shilluk non era cambiato molto rispetto alle descrizioni degli esploratori italiani dell’Ottocento. Nel 1963 i fratelli Castiglioni risalirono con un battello fatiscente il corso dell’alto Nilo Bianco, soggiornando per tre mesi presso i Mundari, un’etnia isolata tra gli immensi acquitrini del Sudd alla confluenza del citato Bahr el-Ghazal; questo popolo, per difendersi dalle zanzare, utilizzava gli stessi mezzi descritti da Miani e da Gessi, bagnandosi con l’orina dei bovidi e utilizzando la cenere dello sterco bruciato dei loro animali. I Castiglioni documentarono scene di caccia senza tempo, e in particolare quella alle giraffe, documentando tecniche che circa vent’anni dopo ritroveranno nei graffiti delle pareti dell’Uadi Mathendush nel deserto libico. L’uomo da lì a breve sarebbe sbarcato sulla Luna, ma in quei territori isolati e pressoché privi di vie di comunicazione la vita di queste etnie era rimasta praticamente immutata. Presto le guerre e i conflitti tribali avrebbero sconvolto il Sud Sudan e il Darfur, minando profondamente quella realtà bucolica, portando morte, fame e carestia e generando il dramma dei profughi che a migliaia cercarono rifugio nei paesi confinanti (specialmente in Etiopia) per fuggire alle devastazioni dei conflitti. Prima di scrivere le proprie esperienze, i fratelli Castiglioni dovettero viverle. E nel viverle dovevano realizzare e praticare quella ricerca etno-antropologica che fu all’origine lo scopo principale del loro viaggiare. Il loro percorso di avvicinamento alla diversità culturale non fu lineare; fu originato da piccoli avanzamenti, fermate e arretramenti. Il cammino si presentava tutt’altro che agevole, vista la grande diversità della cultura africana e la complessità dei suoi riti, ma furono gli sprazzi nella comprensione che li fecero avanzare giorno per giorno, superando ostacoli, rischi e fatiche. Lo spirito che animava i fratelli Castiglioni non era tuttavia quello di fondare stazioni commerciali, bensì essi erano spinti da quella stessa curiosità e attenzione che aveva portato il Piaggia a testimoniare la positività di questi uomini primitivi, in netta controtendenza rispetto alle teorie razzistiche e civilizzatrici che avrebbero costituito l’alibi per lo scramble for Africa e la colonizzazione politica del Continente nero[4]. Come disse infatti Piaggia, “[…] l’uomo nasce buono e questi poveri negri primitivi non hanno guasto il sangue dai vizi della nostra civiltà. Sono migliori di noi. Le loro idee di morale sono bellissime perché naturali”. Questo atteggiamento di profonda conoscenza e rispetto per la diversità africana, negli anni Sessanta divenne peraltro anche il leit motiv di Pier Paolo Pasolini, che nel 1962 avvertiva nel progresso occidentale la distruzione del patrimonio ancestrale dell’umanità. “[…] Noi ci troviamo – scriveva Pasolini nel 1962 – alle origini di quella che sarà probabilmente la più brutta epoca della storia dell’uomo: l’epoca della alienazione industriale”[5]. Così come in Pasolini, anche nei fratelli Castiglioni nasce così e si sviluppa la consapevolezza della ineludibile distruzione del vecchio mondo africano davanti all’inarrestabile avanzata di un neocapitalismo sempre più feroce e aggressivo, nonché di un neocolonialismo economico e culturale che, sostituendosi al vecchio colonialismo politico dell’Ottocento, avrebbe presto riportato i giovani stati indipendenti africani sotto il giogo delle multinazionali occidentali. Col trascorrere dei decenni, le popolazioni indigene perdevano progressivamente il loro tradizionale modus vivendi e i loro costumi fermi da millenni sotto la progressiva avanzata della modernità. Stava nascendo una nuova Africa, e la ricerca etnologica stava progressivamente perdendo di significato. Fu allora che a partire dagli anni Settanta i fratelli Castiglioni passarono dall’etnologia all’archeologia. Nel 1974 i fratelli Castiglioni si recarono addirittura in Amazzonia, nell’Alto Orinoco venezuelano, dove furono ospiti per qualche mese di una Comunità degli Yanohama (i Mahekooto-teri o Makekoto-teri), stanziati nei pressi di El Platanal, dove erano riusciti a sopravvivere, scegliendo di vivere nei loro villaggi a stretto contatto con queste tribù, la cui identità culturale non era stata ancora intaccata, e che li accolsero e li ospitarono. Il loro fu un approccio molto produttivo dal punto vista antropologico e che permise loro di penetrare efficacemente nel significato del culto dei morti e dell’endocannibalismo, pervenendo ad osservazioni sviluppate mettendole in rapporto con la più significativa letteratura scientifica sull’argomento, con particolare riguardo ad uno dei rituali più sconvolgenti per la mentalità occidentale della cultura Yanohama, la frantumazione e polverizzazione delle ossa dei defunti, e alla diffusione dei riti sciamanici ed all’ampio ricorso agli allucinogeni. Dalla vita dell’uomo vivente i fratelli Castiglioni si dedicarono così alla storia dell’uomo del passato. La prima grande loro ri-scoperta archeologica avvenne nel febbraio del 1989 nel deserto nubiano sudanese, quando riportarono alla luce l’antica città di Berenice Pancrisia citata da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, l’antica città d’oro degli Egizi di cui si era persa la memoria. Seguì la scoperta sotto la sabbia del deserto egiziano della mitica armata di re Cambise, un mistero citato da Erodoto che oggi richiede ulteriori ricerche archeologiche per essere definitivamente svelato. Forti della loro conoscenza del Sudan e del Corno d’Africa, nel 2010 i fratelli Castiglioni ebbero dal Presidente eritreo un ulteriore incarico prestigioso: alla veneranda età di 74 anni tornarono stoicamente nelle tende, come nel loro primo viaggio nel deserto del Marocco, per avviare lo scavo archeologico di Adulis, la Pompei africana che costituì la porta di Aksum e che oggi sta venendo progressivamente alla luce. Ci volevano proprio delle menti visionarie come quelle dei fratelli Castiglioni per questa nuova impresa eroica: una città sepolta da secoli sotto metri di limo del wadi Haddas sta finalmente mostrando al mondo, dopo oltre dieci anni di scavi e ricerche, la bellezza e la ricchezza del patrimonio eritreo, e tutto il significato della rinascita umana e culturale dell’intero Corno d’Africa dopo decenni di guerre e di conflitti. Un patrimonio che può e deve diventare anche un volano di crescita economica sostenibile. I gemelli in Africa, pur non essendo una rarità, non sono considerati dei bambini normali ma una sorta di unità speciale, e che va oltre i destini mortali. Nel Benin lo scolaro porta la bambola del suo gemello morto nel taschino della camicia perché quest’ultimo possa continuare a condividere la sua vita. Quando lo scolaro pranza, posa la bambola sul tavolo accanto a sé e le offre parte del proprio cibo. Alfredo ci ha lasciato nel 2016 ma Angelo Castiglioni ha portato con sé ancora la bambola di Alfredo e non l’ha mai abbandonata per sei lunghi anni. Così come nei gemelli degli Yoruba (Nigeria), degli Ewe (Congo) e dei Fon (Benin), la grande affinità tra Alfredo e Angelo è restata immutata. L’anima di Angelo, dopo aver oscillato pericolosamente tra il mondo dei vivi e l’aldilà e affrontato il grande dolore della perdita del fratello gemello, con cui aveva condiviso una vita di avventure, ora ha raggiunto Alfredo, e da lassù vigilano sui nostri destini. Alfredo e Angelo, insieme, continueranno a essere presenti col loro esempio e a sostenere tutte le persone di buona volontà che hanno a cuore la cultura esplorativa, la conoscenza e il rispetto per la diversità dei popoli, e soprattutto coloro che raccogliendo il loro testimone dovranno affrontare ancora l’ultima grande sfida della loro lunga e appassionata esistenza in Africa e per l’Africa: lo scavo archeologico della Pompei africana, di quella citata e mitica cittadina portuale di Adulis che diede vanto e gloria al grande impero di Aksum. In questa impresa improba, visionaria e difficile i fratelli Castiglioni hanno dovuto affrontare difficoltà di ogni genere, ma non si sono mai arresi. Spetta a noi oggi realizzare pienamente questo loro ultimo sogno insieme agli Amici Eritrei. [1] Tra la ricca bibliografia dei fratelli Castiglioni voglio ricordare, in particolare, il loro Quarantanove racconti d’Africa, Nomos Edizioni, Varese, 2011, che ha il grande pregio di tracciare una sintesi dell’attività vulcanica di questi due grandi esploratori e cittadini, milanesi di nascita ma varesini di adozione, che hanno fin dalla giovinezza legato la propria esistenza alla scoperta e alla conoscenza dell’Africa. Il volume affronta cronologicamente la loro attività esplorativa e il loro continuo per testimoniare la storia dell’uomo africano e della sua civiltà. [2] “[…] Uomini bianchi, andate negli sperduti villaggi della mia terra con macchine fotografiche e registratori, raccogliete e documentate la vita, le voci dei cantastorie, degli anziani, di tutti i depositari di una lunga storia legata soltanto alle loro parole, perché, quando essi moriranno, sarà come se per voi occidentali bruciassero tutte le biblioteche”. Leopold Sédar Senghor fu il vate e l’ideologo della negritudine. [3] Tra i paesi visitati segnaliamo Camerun, Chad, Niger, Nigeria, Togo, Benin, Senegal, Burkina Faso, Sudan, ed Etiopia. [4] Insieme al Piaggia operò Georg Schweinfurth, che descrisse in modo dispregiativo le popolazioni del Basso Nilo. Sfruttando le esperienze esplorative di Piaggia, notando l’abitudine dei popoli di quell’area di restare a lungo immobili su una gamba, tenendo l’altra appoggiata al ginocchio, e di camminare a passi lunghi e lentamente tra le canne, li paragonò ai fenicotteri e alle cicogne. Si soffermò inoltre sui loro lineamenti, che descrisse in termini razzistici, parlando di “[…] orride contorsioni, accresciute da smorfie, sopracciglia corte, fronte bassa”, che davano alla maggioranza delle facce umane “un aspetto che non val meglio di quello delle scimmie”. In Georg Schweinfurth, Nel Centro dell’Africa. Tre anni di viaggi e d’avventure nelle regioni inesplorate dell’Africa Centrale, in Alla ricerca delle sorgenti del Nilo e nel Centro dell’Africa. Viaggi celebri, Fratelli Treves, Milano, 1878. [5] Pier Paolo Pasolini, Le belle bandiere, a cura di G. Ferretti, Editori Riuniti, Roma, 1966, p.204. PUBBLICATO DA PELLEGATTA Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore Mostra altri articoli
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