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ERITREA ETIOPIA

Come aiutare l’Africa se non si conoscono gli africani?

17/2/2017

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Con questa faccia da straniero di Cleo Adrien Dioma

La mia idea è di provare a parlare di come si può “aiutare” l’Africa. So poco di economia, sono solo un africano che vive in Europa e che si confronta con situazioni abbastanza difficili da gestire. Qualche volta mi ritengo molto privilegiato, perché non sapevo che l’Africa era povera.

Sì, sapevo che c’erano persone ricche e persone povere.
Per me era una cosa normale. Forse una cosa ingiusta era vedere che c’era troppa corruzione. Questo diventava in qualche modo, per me africano, una cosa normale. Insisto molto sulla parola “normale” perché può aiutare a capire meglio come vanno certe cose in Africa.

Spesso osservo che le persone che cercano di aiutare l’Africa vogliono idealizzare tutto. “In Africa c’è ancora solidarietà, la gente è semplice e si accontenta di poco. Sorride sempre. La colpa è dell’Occidente”. Anche se non escludo la parte di responsabilità del mondo occidentale nel “disastro” africano, mi chiedo per quanto tempo ancora daremo la colpa ad altri.

Una volta, discutendo con amici, si parlava dell’uso/abuso del telefonino degli africani. Non andava bene, non era giusto per loro che avessero questi “difetti”. Ma dove è scritto che noi africani non possiamo avere gli stessi difetti del mondo occidentale? Che cosa so dell’Africa, io l’africano? Conosco il posto dove sono nato, la mia città, la città di mia madre, il villaggio di mio padre e qualche Paese vicino dove sono andato a studiare o a lavorare. Mentirei se dovessi parlare dell’Africa come di qualcosa che conosco.

Non conosco neanche bene il mio Paese, il Burkina Faso. La mia città, Ouagadougou, è una città con culture ed etnie diverse che si sono incontrate ed hanno creato un’“unica cultura”. Una cultura fatta di “melange”, di incontri, dove un dioula (etnia dell’ovest del Paese), un peul (che viene dal sud) e un mossi (che viene dal centro) si incontrano e trovano la possibilità di parlare.

A Ouagadougou ci sono dei quartieri che parlano dioula, mossi o peulh, ma alla fine tutti si incontrano attraverso il francese e il mossi, la lingua più importante. A Bobo Dioulasso è il contrario. Lì convivono dioula, mossi, peul, ma si parla francese e dioula. E quando vedi un mossi che è nato e che vive a Bobo è completamente diverso da un mossi che è nato e vive a Ouagadougou.

​E il mossi di Ouagadougou è diverso dal mossi di Zorgho (villaggio mossi). Tutto questo per dire che siamo davanti a trasformazioni che non solo sono legate all’incontro tra le diverse etnie e culture del Paese, ma tra queste etnie, culture e il mondo occidentale. Questo porta ad una contaminazione che per forza influisce sul comportamento delle persone, sulla loro cultura, sugli aspetti apparentemente banali che riguardano il loro modo di vedere le cose.

 Mia mamma, che è nata in villaggio ed ha vissuto lì fino a diciotto anni, che poi si è trasferita in città per studiare ed è diventata insegnante, ha cercato per molto tempo di dare a me e alle mie sorelle un’educazione abbastanza occidentale. Mangiavamo cucina occidentale, parlavamo francese, vestivamo all’occidentale.

Ho imparato a parlare il dialetto moore (dell’etnia di mia mamma) nel quartiere mentre giocavo con gli amici. Da grande ho cominciato a giocare a basket e cercavo di imitare persone come Michael Jordan e ascoltavo l’hip hop. Ero americano. Dopo l’esame di maturità sono andato in vacanza nel villaggio dove è nato mio padre. I primi tempi era molto difficile per me.

Senza luce, senza acqua potabile, senza televisione. Ma dopo tre mesi ero diventato del posto, conoscevo la gente, i modi di fare, certi aspetti di questa cultura che non era mia, ma che era comunque mia. Sentivo di essere un misto di bobo (l’etnia di mio padre), di mossi (quella di mia madre), di francese, di americano. Poi mi sono reso conto che non sono niente di tutte queste cose. E sono tutto.

Prima di arrivare in Italia sono passato dalla Francia. Ero sicuro di me, con la mia cultura francese, il fatto che parlavo la lingua, le persone francesi che frequentavo in “Africa”, non potevo che integrarmi facilmente in quella terra. Già in Burkina Faso mi sentivo più europeo che africano. Che delusione. Ho scoperto che ero un africano, nato in Burkina Faso, che aveva vissuto a Ouagadougou nel quartiere “1200 Logements”. Quella cultura non mi apparteneva. Sì, avevo assimilato qualcosa della cultura francese, ma questo non faceva di me uno del posto.

Dopo sono arrivato in Italia e forse qui mi sono creato un’identità che è un po’ una cosa mia, che ho cercato di creare dentro di me, che fa sì che mi sento molto vicino alla cultura italiana, che è la cultura che credo di avere scelto. Ma alla fine non sono italiano, sono afro-parmigiano. E dentro la parola “afro” c’e il mio passato francoburkinabé-bobo-mossi-peul…Sono un misto, un mulatto atipico.

Un mulatto di culture. Credo che tutti gli africani siano un misto di tradizione e modernità; tuttavia non esistono gli “africani”, alla fine ogni africano è diverso dall’altro, come ogni persona è diversa dall’altra. Aiutare l’Africa senza conoscere la sua complessità vuole dire gettare acqua nel mare. Poi non credo che si possa aiutare l’Africa, ma penso che si debba conoscerla, che possiamo e dobbiamo cercare di capirla, fare piccole cose per cambiare la sua quotidianità, ma non credo che ci sia la possibilità di tornare indietro o di riportare quello che crediamo siano cultura o valori.

La cultura è qualcosa che cambia con il tempo e con il contatto con altre culture e civiltà. “Le culture africane” attraverso il contatto con il mondo arabo prima, con quello occidentale dopo, e adesso con quello asiatico, si evolvono e si trasformano. All’interno di queste trasformazioni ogni individuo si adatta o sceglie quella parte di cambiamento che a lui può andare bene.

Uno diventa cristiano, uno musulmano, qualcuno rimane con le sue credenze ancestrali, poi nascono i comunisti, i capitalisti, si fa politica per cambiare le cose o per cambiare se stessi. Mi ricordo di questo aneddoto che spiega tante cose. In Burkina si dice che c’è un 25% di musulmani, un 10 % di cristiani, ma il 100 % di animisti. Mia mamma che dice di essere cristiana, che va ogni domenica mattina in chiesa, che prega sempre per me e per le mie sorelle, quando dovevo venire in Europa non mi ha portato soltanto dal prete, ma anche dal marabou perché facesse dei sacrifici per fare andare bene il mio viaggio.

Si può aiutare l’Africa senza conoscerla veramente? L’Africa avrà veramente bisogno di aiuto? Aminata Traoré, ex ministro del Mali, diceva che “l’Africa non ha veramente bisogno di aiuto, deve prima di tutto essere conosciuta e rispettata”.

L’anno scorso c’è stata un’epidemia di meningite in Niger. Il presidente disse che se per far arrivare gli aiuti c’era bisogno della presenza dei giornalisti e dei fotografi occidentali per documentare la povertà e la miseria dei bambini che morivano, allora era meglio che non arrivassero né aiuti né giornalisti. Non è possibile che si debbano sempre far vedere le immagini dei bambini malati, morti, mostrare i drammi africani, prima di portare aiuto. Quando vedo le pubblicità o i documentari che parlano dell’Africa, ho l’impressione che ci sia un bisogno enorme di far vedere solo le cose che non vanno bene.

Le immagini sono brutte e drammatiche. Immagini estreme che non spiegano tutto. Immagini che riassumono velocemente cose molto complesse. Credo che dobbiamo chiederci cosa vuol dire per un africano essere povero, qual è la sua nozione di ricchezza. Certo è più semplice costruire un ospedale in un villaggio camerunese o una scuola nel profondo del Burkina Faso.

Ma io mi chiedo a cosa serva un ospedale in Camerun quando ci sono pochi medici, a cosa serva una scuola in Burkina Faso quando non ci sono soldi per pagare gli insegnanti. Non possiamo non farci queste domande. E’ giusto che si costruiscano scuole e ospedali, ma forse è più utile formare persone in certi ambiti professionali (infermieri, insegnanti...) nel luogo dove vivono. Non dico che le strutture associative e le Ong non facciano tante cose, ma credo che forse la prima cosa da fare adesso è riportare quella che io chiamerei la “verità”.

I problemi non sono soltanto in Africa. Quando vedo certe immagini del Sud America mi vengono i brividi, l’assistenza sanitaria negli Stati Uniti mi spaventa un po’. Questa è diventata una cosa normale per tutti, l’africano che muore di fame no. Non è una cosa giusta, sono d’accordo, ma deve essere una cosa normale, non deve portare la gente a scriverne dei libri o i fotografi a farne un progetto di lavoro.

Lo scrittore svedese Henning Mankell diceva, “con le immagini dei giornalisti e della televisione sappiamo come muoiono gli africani, ma non in che modo vivono”. Un cerchio si chiude.

​
Era lui.


Cleophas Adrien Dioma è president de l’association Le Réseau, direttore du Festival Ottobre Africano, membre du Conseil National pour la Coopération au Développement Coordinateur du groupe “Migration et Développement” .
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