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ERITREA ETIOPIA

Amnesty International e Human Rights Watch denunciano una  strage fatta dai militari eritrei con centinaia di vittime ad Axum, in Etiopia. Mancano però i riscontri, in una regione da cui arrivano molti migranti che approdano in Italia.

24/3/2021

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di Francesca Ronchin

La notizia dell’eccidio di centinaia di civili per mano di militari eritrei nella città santa di Axum, in Etiopia, è sempre più un giallo. Secondo Amnesty international e Human Rights Watch, il fatto sarebbe avvenuto attorno allo scorso 29 novembre, nel pieno della guerra tra l’Etiopia e il Tplf, il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai alla guida dell’omonima regione nel nord del Paese. A oggi però non ci sono foto, né «prove documentali», solo tanti punti interrogativi. Perché la notizia arriva dopo 3 mesi, proprio quando la crisi regionale stava iniziando a ricomporsi con l’arresto di buona parte del vertice del Tplf e il progressivo ripristino della pace? Immediata la presa di distanza dei governi di Addis Abeba e Asmara secondo cui si tratta di materiale buono per la propaganda.

Se è vero che le loro versioni possono essere considerate «di parte», stupisce che in un contesto di guerra - dove le informazioni sono poche e le contro-verifiche richiedono tempo - un’accusa così pesante che per di più coinvolge uno stato terzo, l’Eritrea, dal 2018 in solidi rapporti di pace con l’Etiopia, venga lanciata senza che le prove siano state verificate sul campo.

«Non sono certo indagini esaustive» ammette la referente per il Corno d’Africa di Human rights watch Laetitia Bader, i report però sono già sui tavoli della comunità internazionale con il segretario di Stato americano Antony J. Blinkin pronto a chiedere l’immediato ritiro delle truppe militari dalla regione e l’Eu Council gravemente preoccupato.

Ma come sono state raccolte le testimonianze? Una quarantina sono quelle di residenti di Axum, raggiunti per telefono; un’ulteriore ventina sono state raccolte a 600 chilometri di distanza, nel campo profughi di Hamdayet, in Sudan, dove in questi mesi avrebbero trovato rifugio molti miliziani dell’ormai sconfitto Tplf. Non certo voci imparziali quindi, visto che come riconosciuto dagli stessi leader, sono stati loro ad aver acceso la miccia del conflitto lo scorso 4 novembre attaccando una base militare federale di stanza nella regione del Tigrai.

Un’internazionalizzazione della crisi con l’apertura di canali umanitari potrebbe garantire la fuga e la sopravvivenza del partito. Dopo tutto il Tplf vanta ottime introduzioni nei luoghi che contano. Il direttore dell’Organizzazione mondiale della Sanità Tedros Adhanom, alla ribalta per le comunicazioni tutt’altro che lineari sul Covid è membro di vecchia data del direttivo e Susan Rice, storica amica dell’ex premier Meles Zenawi, secondo i bene informati è tra le eminenze grigie della politica estera Usa.

Quali verifiche sono state fatte per escludere eventuali conflitti d’interesse? Non è dato saperlo. Difficile anche capire come sia possibile che in una città di 40 mila abitanti non ci sia una foto del presunto massacro. «Non c’era corrente elettrica, i cellulari erano scarichi» spiega a Panorama Fisseha Tekle, il ricercatore di Amnesty a Nairobi che ha curato il report. Durante la guerra la regione ha subito vari blackout, ma qualche batteria deve essere stata carica se nel report di Human Rights Watch una foto del 30 novembre immortala una signora in cura all’ospedale. «I militari controllano i telefoni e fanno cancellare le foto» spiegano.

Ma non si era detto che erano scarichi? Un’ulteriore complicazione la introduce Human Rights Watch secondo cui molti corpi non sarebbero stati raccolti perché divorati dalle iene. Possibile che animali selvatici siano in grado di far sparire ossa e vestiti o che ostacolino la documentazione di un massacro?

Il mistero si infittisce quando ci si imbatte nei filmati girati dalle tv etiopi, il 30 novembre presso la chiesa di St. Maria di Sion. Una giornata di festa che ogni anno chiama a raccolta la comunità ortodossa con migliaia di pellegrini. Le strade forse sono meno gremite del solito ma il clima è pacifico. «Il governo ha costretto le persone a mentire» spiega Bader mentre per l’americana Associated Press vi sarebbero stati addirittura 800 morti con tanto di saccheggio della preziosa Arca dell’Alleanza. Tutte falsità secondo Bahtawi Gebremeskel, sacerdote di St. Mary of Zion che lancia un appello: «Se avete dubbi chiamateci, siamo qui».

Strano inoltre che il massacro commesso dal Tplf a Mai Kadra contro 750 civili non sia stato seguito da denunce tanto plateali. Human Rights Watch sceglie addirittura (sceglie) di non occuparsene. E riavvolgendo la pellicola ai 27 anni in cui il Tplf è stato alla guida dell’Etiopia, nulla è stato mai detto neanche sul mancato rispetto dei confini con l’Eritrea. «Ci occupiamo solo di diritti umani» risponde Tekle, «non di questioni di confine».

Eppure è un fatto che il conseguente clima da guerra fredda terminato solo nel 2018 con l’accordo di pace tra il premio Nobel Abiy Ahmed e il presidente dell’Eritrea Isaias Afewerki - intesa mai accettata dal TPLF - abbia trasformato l’intera regione nel principale punto di partenza dei flussi migratori (in Italia). Spesso peraltro con migliaia di etiopici del Tigrai mescolati agli oltre 150 mila «rifugiati eritrei» sbarcati in Italia dal 2013 grazie alla somiglianza somatica e linguistica.

Il tutto senza che l’Unhcr, l’ente dell’Onu che si occupa di rifugiati, si sia mai accorta di nulla. In rete ormai regna il caos e ci sono siti di news che per raccontare le presunte vittime di Axum utilizzano quelle di Boko Haram in Nigeria. Una situazione che non aiuta il lavoro di chi - le Ong stesse - con tali report ispira le scelte dell’Occidente sui Paesi da considerare «non sicuri» e quali migranti ritenere titolati all’asilo. Materia da trattare con cautela. E perciò viene da chiedersi che partita sia in gioco. 

​credit Panorama.it
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