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Amete Debretzion: “Io 30 anni fa come Rosa Parks: sul bus mi gridarono di lasciare il posto ai bianchi”

20/5/2018

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lastampa.it

ADRIANO STABILE ROMA

Qualcuno, trent’anni fa, l’ha paragonata a Rosa Parks, la donna afroamericana che nel 1955 si rifiutò di cedere il posto a un bianco su un autobus dell’Alabama. È Amete Debretzion, originaria dell’Eritrea, che nel maggio del 1988, a Roma, fu vittima di un caso di razzismo che fece scalpore: «Basta con i negri, lasciate il posto ai bianchi» le disse un quarantenne, mentre, seduta sull’autobus 495 tornava verso casa, al quartiere Tuscolano, con un sacco della spesa e il figlio di quattro anni in braccio. Lei si ribellò, aveva pagato il biglietto e aveva diritto a quel posto. Poi, però, con l’aumentare della tensione, preferì scendere dal mezzo pubblico per evitare il peggio, accompagnata da una coppia di ragazzi che l’avevano subito difesa.
 
La signora Debretzion, oggi 67enne e in Italia dal 1973, all’epoca era la domestica di Carlo Mazzarella, attore e giornalista della Rai. Gli disse della sua disavventura e Mazzarella si convinse che andava assolutamente raccontata: così una domenica pomeriggio, il 15 maggio 1988, un servizio del Tg2 dello stesso giornalista svelò la storia della donna, che in poche ore finì su tutti i giornali arrivando fino in Inghilterra, alla Bbc. «Ricordo quel giorno con rabbia e paura – ci racconta oggi Amete Debretzion, che vive ancora a Roma ed è pensionata - sull’autobus si formarono due fazioni, c’era chi mi sosteneva e chi era contro di me. Sono scesa e ho preso un altro autobus, su consiglio dei due ragazzi che mi hanno difeso. Non so chi fossero, ma sono sempre nel mio cuore».

Il sindaco Nicola Signorello, qualche giorno più tardi, incontrò Amete davanti alle telecamere: «A nome della città, le porgo le mie scuse – le parole del primo cittadino della Capitale - signora, mi creda, Roma non è razzista».La realtà, nei trent’anni successivi, sembra raccontare altro: la donna è stata nuovamente vittima di episodi spiacevoli e quel figlio di quattro anni che aveva in braccio sull’autobus ha preferito emigrare in Inghilterra, a Londra, dove ha trovato una città senza pregiudizi. «Mio figlio era piccolo, quel giorno si è davvero spaventato – dice l’ex domestica eritrea - quando è cresciuto gli ho raccontato tutto».
 
Il giovane, di cui preferisce non svelarci il nome, ora ha 34 anni e da oltre dieci vive in Inghilterra. Ha vissuto una sorta di percorso al contrario, convinto da vessazioni e ingiustizie ad abbandonare il nostro Paese, pur essendo nato e cresciuto a Roma: «Mi ha sempre detto di sentirsi italiano, poi ha iniziato a lavorare, faceva un part-time all’Aci, e ha dovuto subire molti dispetti e battute per il colore della sua pelle».  

Finché un giorno, a 22 anni, il giovane è tornato a casa e ha detto alla madre: «Ora ho capito quello che mi raccontavi, avevi ragione: ho il passaporto italiano, ma io non sono italiano perché non esistono i neri italiani». Una frase che riprende uno slogan razzista tuttora in voga, e che ha lasciato di sasso la donna.  

«Inizialmente non volevo che andasse a Londra – prosegue la signora Debretzion - ma quegli episodi l’hanno offeso. In Inghilterra ha la sensazione che tutti siano uguali, che sia sufficiente essere capaci per emergere nel lavoro. Si trova bene là. Ha un ruolo di responsabilità in una grande azienda che si occupa di farmaci e profumi». 
​
Anche Amete, dopo quel maggio del 1988, ha masticato amaro tante volte: «Mi sento italiana, ho il passaporto italiano, ma in questi trent’anni non sono mancati episodi antipatici. Mi dicevano “tu sei nera, perché non te ne torni nel tuo paese?” oppure il classico “rubate il lavoro agli italiani”. Ogni tanto mi arrabbio, altre volte cerco di non pensarci. E poi esistono tante persone perbene che non la pensano così». 

La situazione le sembra peggiorata: «Vedo tanto razzismo. Quello che è accaduto a me è niente rispetto a quanto accade oggi. Tutti dicono di non essere razzisti, a parlare son tutti bravi, ma nel profondo tanti italiani sono razzisti, pur senza voler generalizzare». E la mente torna a quel doloroso giorno del 1988: «Chissà cosa direbbe quella persona che se la prese con me trent’anni fa; oggi, quando sali in metro, vedi cinque italiani e trenta stranieri». Poi, con sconforto, sospira: «Non ti accettano mai. Sono 45 anni che vivo qui e alcune persone non mi hanno mai accettata». 
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