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ERITREA ETIOPIA

Africa-Europa: chi è il malato e chi il dottore?

22/1/2019

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da Vadoinafrica
Posted by Martino Ghielmi | Set 1, 2018 | Opinioni |

L’estate è stata rovente. La polemica politica non si è fermata sotto l’ombrellone riproponendo il tema, alla fine bipartisan:

Come sviluppare l’Africa?
Sono sorti come funghi svariati “esperti d’Africa”. Tutti pronti a proporre soluzioni più o meno fantasiose:
  • Aumentare gli aiuti, rilanciando un fantomatico Piano Marshall per l’Africa
  • Restituire la sovranità monetaria ai 14 Paesi del franco CFA
  • Arrestare l’odioso land grabbing
  • Fregarsene perchè tanto, a quelle latitudini, “non hanno la cultura del lavoro“

Tranquillo, non entro in nessuna di queste complesse questioni. Non perchè non abbia un parere in merito ma perchè ritengo più proficuo adottare un’altra prospettiva. Pur da svariate matrici ideologiche, tutti questi discorsi ritengono infatti che l’Africa sia il “malato” e l’Europa l’eventuale “dottore”.

Ma l’Africa è davvero malata? E l’Europa se la passa così bene da poter pensare di ‘curare’ 54 Paesi? E l’Africa è interessata a queste cure?

Sono già in atto tre grandi fenomeni che, nel corso della prossima generazione, renderanno più difficile di quel che si creda identificare paziente e medico tra i due continenti.
​
Prima di iniziare ti invito nella nostra community Facebook, vera intelligenza collettiva per creare valore con il continente del futuro.
1. Demografia

A costo di essere ripetitivo: l’Africa è il continente più giovane del mondo. Oltre 650 milioni di africani (uno su due) sono teenager. L’Europa è il più anziano: metà dei suoi abitanti ha più di 42 anni.
Le piramidi demografiche sono eloquenti:

Di fatto, l’Africa sta riprendendosi il peso demografico globale che aveva prima della tratta degli schiavi e del colonialismo, come ricorda il prof. Mario Giro:

L’Africa è stata un continente sotto-popolato per molto tempo e lo è ancora. Per tornare ad avere il quinto della popolazione mondiale che aveva nel 1500, dovrà attendere circa il 2050.

Tra una generazione, per ogni giovane europeo ce ne saranno dieci africani.

Quale dei due, nonostante le incertezze, si avvia a incassare un “dividendo demografico“? Cosa rischia l’Europa, dove si vendono ormai più pannolini per anziani che per neonati?

Non esistono risposte facili, ma la Storia insegna che è più semplice resistere alla forza di gravità che alla demografia.

2. Rivoluzione digitale

La quarta rivoluzione industriale (big data, intelligenza artificiale, IoT, produzione on demand) sta travolgendo ogni settore economico. Nelle economie avanzate si parla di 7 milioni di posti di lavoro distrutti.

L’Africa, di per sè, ha poco da perdere. La disoccupazione è già una piaga nota nelle sue città dove oltre il 60% dei posti di lavoro sono informali.

Il continente ha il tasso di imprenditorialità più elevato al mondo poichè, quando il lavoro non si trova, non resta che inventarselo. Un miliardo di millennials, rapidi e pragmatici, sono meglio predisposti a usare il digitale per risolvere i propri problemi rispetto a società canute spaventate dalla possibilità di perdere il lavoro a tempo indeterminato.

Da qui la possibilità del leapfrogging (“salto della rana”, adozione di tecnologie più avanzate senza passare dagli stadi di sviluppo intermedi) già avvenuto nel continente con i telefoni cellulari e con il mobile money.
Jeremy Johnson, CEO e fondatore di Andela afferma:

Il futuro della tecnologia sarà scritto a Lagos, Nairobi e Kampala. Crediamo che l’Africa avrà un ruolo di grandissima importanza nella scena della tecnologica mondiale.

Ne abbiamo parlato su Rai1 giovedì 30 agosto a Codice, in una puntata intitolata “erano Terzo Mondo“(clicca QUI per rivederla, il mio intervento è al minuto 60’20”):

3. Leadership e visione politica

Dopo le speranze degli anni ’60, l’Africa ha vissuto un generalizzato degrado della sua vita politica.

Istituzioni deboli e illegittime, sanguinose lotte intestine e pesanti interferenze straniere hanno portato alla morte violenta di almeno sei leader africani e al radicamento al potere di autocrati sordi agli interessi delle popolazioni.

La corruzione e la violenza politica sono ancora realtà onnipresenti in troppi Paesi africani.
Ma qualcosa sta cambiando.

Poco alla volta gli Stati africani raccolgono più tasse. Questo significa poter ridurre il supporto dei “donatori” e, viceversa, dover rendere conto a opinioni pubbliche interne.

Qualche esempio dell’aria nuova che inizia a circolare ai quattro angoli del continente:
  • ci sono resistenze alla corruzione che ha portato, finora, alla depredazione delle materie prime africane
  • il Corno d’Africa sembra entrare in una nuova fase con il cambio di guardia in Etiopia: il nuovo primo ministro Abiy e la neo-presidente Sahle-Work Zewde promettono bene
  • anche in un contesto bloccato come quello congolese il dinosauro Kabila rinuncia a candidarsi alle prossime elezioni
  • si levano voci sempre più franche contro il sistema degli aiuti, ad esempio il discorso pronunciato dal ghanese Nana Akufo-Addo di fronte a Macron

E ancora, in un’Africa spesso gerontocratica:
  • il Botswana nomina la trentenne Bogolo Joy Kenewendo ministro dell’industria e del commercio
  • la Sierra Leone conia la carica di Chief Innovation Officer per David Moinina Sengeh, trentunenne con dottorato al MIT
  • la Nigeria abbassa a 35 anni l’età per candidarsi alle prossime presidenziali
Sono solo alcuni esempi per farti capire che c’è un’effervescenza che non si limita ad un solo Paese.

Sul piano economico i Paesi africani appaiono tutti diretti, a diverse velocità, verso un sensibile aumento della trasformazione in loco delle proprie materie prime.

Partendo dall’agricoltura, come sottolineato dal presidente di African Development Bank, Akinwumi Adesina:

L’Africa rappresenta il 75% della produzione mondiale di cacao, ma il continente riceve solo il 2% dei $ 100 miliardi di entrate annuali dai cioccolatini a livello globale. Il motivo è che esporta solo fave di cacao crude.

Questo trend si nota addirittura in un campo spinoso come quello petrolifero dove, in pochi mesi:
  • Aliko Dangote (uomo più ricco d’Africa) ha annunciato l’apertura di una raffineria di petrolio in Nigeria
  • L’Uganda ha chiuso i contratti per la prima raffineria in loco
  • Sono stati siglati accordi per un oleodotto Nigeria-Marocco
  • È nata la prima azienda ghanese di esplorazioni petrolifere
Insomma, la lunga fase del puro sfruttamento dell’Africa da parte del resto del mondo sembra avviarsi verso una, quantomeno parziale, discontinuità.

L’occasione per cambiare passo potrebbe avvenire, nel 2020, con il rinnovo degli accordi di Cotonou. Strappare politiche commerciali più favorevoli al “Made in Africa” nel negoziato con la UE imprimerebbe un’ulteriore accelerazione a un trend già in atto.

Culture politiche e istituzioni non si cambiano in un batter d’occhio. Ma nel continente si scorge uno sguardo prospettico. Emerge la volontà di formare un blocco continentale, partendo dalla libertà di circolazione per merci e persone siglata a Marzo 2018 da ben 44 Paesi su 54.

Piuttosto, quale futuro attende un’Europa che rischia di frantumarsi in un mondo di giganti (Cina, India, USA)? E quale Paese europeo ha il coraggio di proiettarsi all’orizzonte del 2063?

L’Africa, con tutte le sue contraddizioni, sta provando a farlo.

Il 1947 è passato da un pezzoIn questi ultimi tempi, nelle capitali europee, si evoca spesso un Piano Marshall per l’Africa.

Il principale quotidiano italiano ha addirittura avuto il coraggio di evocare (in prima pagina) la necessità di un “colonialismo solidale“.

Forse, anzichè giocare a rubamazzetto con le quattro paroline “aiutiamoli a casa loro“, i leader europei dimostrerebbero più lungimiranza sforzandosi per cambiare toni e linguaggio abbandonando le lenti post-coloniali e paternaliste.

L’Africa, per quanto impegnata in sfide epocali, non è un continente distrutto nè un universo di mendicanti. E i giovani africani non hanno tutti in mente la fuga verso l’Europa.

Avvertono piuttosto la possibilità di essere protagonisti delle proprie vite, pretendono rispetto, e sono consapevoli che la ruota della storia gioca oggi a loro favore.

Per interagire con questo magma bisogna instaurare reali rapporti paritari. Lasciando al secolo scorso la divisione tra chi aiuta e chi è aiutato. Tra chi insegna e chi impara.

Senza il coraggio di esplorare il potere della bidirezionalità (tanto sul piano economico quanto su quello culturale) non emergeranno mai le tante complementarietà che potrebbero aprire una nuova fase per due continenti contigui e accomunati dalla storia.

Occorre quindi ascoltare gli africani anzichè lanciarsi in roboanti discorsi sul Piano Marshall per l’Africa che tradiscono il terrore europeo di essere travolti da milioni di migranti disposti a tutto.

Agire non per “aiutare” ma per costruire un futuro. Il nostro.

Un ponte naturale sono le diaspore: le comunità che vivono da lungo tempo nell’altro continente, incluse le seconde o terze generazioni. Per limitarci all’Italia parliamo di almeno un milione di persone di origine africana, sinora ignorate o strumentalizzate nella lotta politica interna. Allo stesso tempo, ci sono 53.000 italiani residenti in Africa (iscritti AIRE, probabilmente sono il doppio).

Discorsi di altra natura serviranno solo ad affrettare il declino italiano (europeo). Che non sarà indolore ma diventerà inevitabile.

Ma forse, a quel punto, sarà tempo di fare le valige per Dakar, Gaborone o Addis Abeba.
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