Nel Corno d'Africa, su Mar Rosso e Golfo di Aden, a chi convengono davvero certe tensioni?23/10/2023 da Le Nuove Vie del Mondo
Dopo un lungo periodo d'instabilità, dovuti ad una faticosa e talvolta bellicosa coesistenza tra governi opposti in Etiopia ed Eritrea e ad una trentennale guerra civile in Somalia, a partire dal 2018 s'è cominciata a vedere la luce in fondo al tunnel. In Etiopia il vecchio partito di governo, il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray (il TPLF, che era stato in sella per quasi trent'anni, dal 1991 al 2018, coprendosi di gravi responsabilità verso i propri cittadini e il resto della regione come testimoniato dalle pesanti repressioni delle proteste delle popolazioni Oromo ed Amhara nel 2015 e 2016, dalla guerra d'aggressione contro l'Eritrea tra il 1998 e il 2000 e dall'invasione della Somalia nel 2006) si ritrovò all'opposizione, e ciò pose le basi perché molti importanti dossier comuni ai tre paesi si potessero cominciare a sbloccare. Ben presto Etiopia ed Eritrea siglarono la pace chiudendo il lungo e doloroso capitolo di guerra iniziato nel 1998, trascinatosi fino ad allora con uno stato di “né guerra né pace” dovuto all'occupazione da parte delle forze etiopiche delle aree frontaliere eritree intorno a Badme e ad altre località in violazione agli Accordi di Algeri del 2000, che pure erano stati firmati da entrambi i governi; e ben presto i due paesi iniziarono addirittura a parlare di cooperazione ed assistenza reciproca, mentre anche per la vicina Somalia il diverso clima regionale cominciava a fornire dei benefici effetti per la sua ricomposizione statale e nazionale. Tale situazione fu tuttavia turbata a partire dal novembre 2020 dalla rivolta del TPLF che, non accettando il nuovo corso politico e mirando alla secessione dello Stato del Tigray (situato nell'Etiopia settentrionale e al confine con l'Eritrea), tenne occupato a più riprese il governo federale etiopico con tenaci azioni militari che ebbero forti ripercussioni anche sui vicini, come ad esempio testimoniato proprio dai lanci di propri razzi oltre il confine eritreo fino a lambire la capitale Asmara. Il conflitto, conclusosi nel novembre 2022, vide il lavoro congiunto delle truppe etiopiche ed eritree, concludendosi con la resa e la smilitarizzazione del TPLF sottoscritta mediante un accordo vigilato dall'Unione Africana. A questo punto, sembravano finalmente porsi tutte le premesse per poter avviare quella maggiore integrazione del Corno d'Africa da lungo tempo auspicata; ma evidentemente mai bisogna vendere la pelle dell'orso prima d'averlo catturato. Ne abbiamo avuto una prova proprio in questi giorni, con un'insolita dichiarazione da parte del primo ministro Abiy Ahmed che, in scarsa sintonia col buon clima politico che aveva stabilito coi propri partner regionali a partire dal 2018, ha avanzato delle richieste giudicate da tutti costoro come a dir poco pericolose ed esagerate. Sostenendo che il Mar Rosso e il Nilo siano "intimamente collegati all'Etiopia, fungendo da pilastri che possono provocarne lo sviluppo o il declino”, ha quindi ricordato che quando aveva “l'accesso al Mar Rosso (perso con l'Indipendenza dell'Eritrea nel 1993, NdR) era una grande potenza”, per poi concludere che per riottenere questo suo ”diritto" non si dovrebbe “giungere al prezzo del conflitto e dello spargimento di sangue”. Pur sottolineando che non vi sia un espresso interesse verso i porti eritrei di Assab e di Massawa, ha comunque insistito che per ragioni geografiche e strutturali costituiscano gli obiettivi favoriti, magari da raggiungersi attraverso un acquisto, un leasing o qualsivoglia altro mutuo accordo. Il premier etiopico non intende, comprensibilmente, rovinare i propri rapporti con un vicino essenziale come l'Eritrea, che è stato un valido alleato nei peggiori momenti del quinquennio appena trascorso, almeno fino al punto da risvegliare certe dolorose e vicine memorie di guerra. Senza poi contare che tanto l'Etiopia quanto l'Eritrea vantino le medesime alleanze e collocazioni politiche internazionali, come testimoniato dalle forti partnership con paesi come Cina e Russia; e dunque non avrebbe certo molto senso per Addis Abeba andare a dar fastidio ad un paese suo confinante e peraltro da molto più tempo e con più solidità alleato dei suoi stessi alleati. A che pro una rissa in famiglia? Tuttavia Abiy Ahmed, pur proponendo partecipazioni in importanti progetti come la GERD (Great Ethiopian Renaissance Dam), Ethiopian Airlines ed Ethiotelecom, ha anche detto che “se non troviamo un alternativa attraverso il dialogo… potrebbe essere pericoloso”. A tal proposito, dandosi la responsabilità di mantener calme le acque ed invitando anche gli altri attori regionali a seguire il suo esempio, affinché non s'alimentino inutili tensioni regionali, Asmara ha ribadito con un proprio laconico e risoluto comunicatol'inviolabilità della propria sovranità ed integrità territoriale. Altre lamentele, d'altronde, le ha avute pure per la vicina Gibuti, con la quale negli ultimi anni era stata sviluppata la grande ferrovia Gibuti-Addis Abeba sostenuta nel quadro degli investimenti promossi dalla Cina per la BRI (Belt and Road Initiative). Ultimamente i due paesi hanno dato il battesimo anche ad un oleodotto, del quale però Abiy Ahmed s'è lamentato visto che il costo costruttivo è ricaduto esclusivamente sulle casse etiopiche, senza che Gibuti in cambio gli fornisse un controvalore nella forma magari di un più agevole accesso al mare. Per giunta, Gibuti s'affaccerebbe proprio sullo strategico Stretto di Bab al Mandab, punto di collegamento tra Mar Rosso e Golfo di Aden; ma anche la più piccola delle repubbliche del Corno d'Africa ha preferito liquidare le richieste etiopiche respingendole al mittente. Non diversamente, del resto, poteva essere per la Somalia, ancora alle prese col pieno riconsolidamento delle sue istituzioni e della sua unità statale; nella necessità di riaffermare su tutto il suo territorio la propria sovranità, ben difficilmente potrebbe gradire qualsiasi mossa che potrebbe rappresentarne una sia pur modesta cessione o limitazione: ugualmente interpellata dal governo di Addis Abeba, non ha quindi tardato a dire di no. Intuibilmente, le dichiarazioni di Abiy Ahmed hanno suscitato grosse polemiche anche in Etiopia. Non soltanto grande ne è stato l'eco nei social, in particolari tra cittadini etiopici ed eritrei, ma anche l'effetto sugli analisti politici regionali che le hanno giudicate improprie, se non proprio sconsiderate ed irresponsabili. Fortunatamente, non sembrano aver avuto per il momento altre e peggiori conseguenze, anche se sono state fatte prima che il premier etiopico partisse per il Belt and Road Forum di Pechino del 17 e 18 ottobre: prima di un simile evento, che avrebbe visto la Cina e l'Etiopia dar vita ad un “Partenariato Strategico e Globale a tutti i livelli”, poteva indubbiamente costituire un serio “passo falso” diplomatico, visto che andava a turbare gli equilibri politici nel Corno d'Africa e ad urtare altri importanti paesi alleati o partner di Pechino come Gibuti e l'Eritrea. Oppure, poteva venir visto come una “mossa su commissione di Pechino”, ed in effetti così in Occidente qualcuno ha voluto prontamente vederla, vale a dire rovesciando completamente ogni lettura geopolitica: giacché proprio alla Cina più che mai conviene che si preservi la stabilità e s'implementi la cooperazione nel Corno d'Africa al cui raggiungimento tanto ha lavorato, ma il cui sovvertimento chiaramente troverebbe il plauso di ben altri, a cominciare da ben precisi gruppi d'interesse occidentali. Peraltro insinuare senza prove che la Cina mandi avanti l'Etiopia nel rivendicar territori dall'Eritrea, da Gibuti o dalla Somalia significherebbe dar manforte alla vulgata, tanto diffusa dai media occidentali, secondo cui Pechino calpesti la sovranità ed il diritto internazionale degli altri Stati, avvalorando così l'idea che tanto valga renderle pan per focaccia riconoscendo magari l'indipendenza di Taiwan o chissà cos'altro ancora. Nessuno d'altronde può mettere in discussione la sovranità e l'integrità territoriale altrui, e ciò vale anche per tanti altri Stati, africani in primo luogo: difficilmente potremmo immaginarci un'Unione Africana disposta ad assecondare la frammentazione di vari suoi paesi membri, per ovvie ragioni. Tuttavia, lanciando questo suo appello proprio prima di partire per il Belt and Road Forum, Abiy Ahmed ha rischiato di fare un prezioso “regalo” ad americani ed europei. Possono esserci delle chiavi di lettura: l'Etiopia è ad esempio fortemente condizionata dalle sue tante quinte colonne interne, come partiti e movimenti su basi etniche pro o contro il governo, o ancora i sussidi e gli aiuti economici dall'Occidente da cui ancora molto dipende. Tutto ciò rende il paese intuibilmente molto influenzabile e persino ricattabile: il premier etiopico doveva dunque “fare un assist” ad americani ed europei, una sorta di gesto di rassicurazione, a maggior ragione ora che il suo governo sempre più cerca un forte rapporto con la Cina per controbilanciare giustamente la loro influenza. Come dicevamo, non ha alcun senso che due seri alleati di Pechino come Etiopia ed Eritrea, entrambi inseriti nella BRI e legati alla Cina con Partenariati Strategici e Globali, si ritrovino ora in contrasto per questioni ormai antiquate ed associate a fin troppo dolorose memorie. Sono questioni che entrambi, come il loro grande alleato cinese, hanno dimostrato che si possono risolvere con gli strumenti della pace, del dialogo e della cooperazione; e che solo quanti gradirebbero vedere il caos nella regione del Corno d'Africa e nella rete d'alleanze di Pechino vorrebbero veder rispolverate. da Nova News
Addis Abeba 19 Ott. 2023 È tornata in auge nelle ultime settimane l’annosa questione relativa alle rivendicazioni dell’Etiopia per ottenere uno sbocco al mar Rosso, obiettivo precluso dal 1993, anno dell’indipendenza dell’Eritrea. Da allora la vicenda ha conosciuto alterne vicende, ed è tornata prepotentemente alla ribalta dopo durante una sessione parlamentare che si è tenuta lo scorso 13 ottobre. In quell’occasione è stata infatti presentata una bozza di documento, redatta dal ministero della Pace, nella quale si propone di riaffermare gli interessi nazionali strategici ed economici dell’Etiopia nel mar Rosso. Intitolato “Interesse nazionale dell’Etiopia: principi e contenuti”, il documento sottolinea “l’urgenza” per il Paese del Corno d’Africa di esercitare il proprio diritto a costruire ed utilizzare i porti, di avere accesso al mar Rosso nonché alle regioni dell’Eden e della penisola del Golfo. Il Corno d’Africa e la regione del mar Rosso sono diventati “una calamita” per gli interessi delle superpotenze in competizione, si legge nel documento, pertanto l’Etiopia “dovrebbe impegnarsi con le altre nazioni dell’area per garantire il proprio accesso ai porti ed essere in grado di superare gli ostacoli geostrategici a questo riguardo, osserva la bozza di documento, prima che tali azioni inizino a impedire lo sviluppo della regione”. Il documento fornisce quindi un elenco di priorità, tra cui la preservazione dell’integrità territoriale del Paese, il rafforzamento dell’influenza regionale, la promozione della pace e della sicurezza, l’avanzamento efficace degli interessi dell’Etiopia nell’area del mar Rosso e della penisola del Golfo e la promozione dello sviluppo panafricano. Tra le priorità figurano anche la creazione di relazioni bilaterali e multilaterali basate su “solidi principi”, la garanzia del diritto dell’Etiopia all’uso del fiume Nilo, l’accesso ai porti e l’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse naturali non sfruttate. Il documento afferma inoltre che l’Unione africana dovrebbe avere la massima autorità sulle risorse idriche, sui mari e sulle coste oceaniche dell’Africa. Intervenendo in parlamento, il primo ministro Abiy Ahmed ha ribadito il diritto dell’Etiopia ad avere uno sbocco al mare. “Il mar Rosso e il fiume Nilo definiscono l’Etiopia; sono le basi per il suo sviluppo o la sua scomparsa”, ha detto il premier, ripetendo i medesimi concetti in un’intervista diffusa dall’emittente statale “Fana”. “Il Nilo e il Mar Rosso determinano il futuro dell’Etiopia. Contribuiranno al suo sviluppo o alla sua scomparsa”, ha aggiunto il premier, rivendicando i presunti “diritti naturali” etiopi circa un accesso diretto al mar Rosso, e affermando che se questo gli fosse negato “non ci saranno equità e giustizia”. “È una questione di tempo, combatteremo”, ha quindi minacciato. Le dichiarazioni non sono chiaramente piaciute alla vicina Eritrea che, pur avendo siglato – per motivi essenzialmente tattici – uno storico accordo di pace con il Paese rivale nel luglio 2018, negli ultimi tempi ha visto nuovamente peggiorare le relazioni con Addis Abeba, specialmente dopo la fine della guerra nel Tigrè che ha visto i due Paesi combattere insieme contro il Fronte di liberazione del popolo del Tigrè (Tplf). L’Eritrea “non è stata coinvolta” nei colloqui auspicati dal premier etiope sull’accesso al mar Rosso, ha tenuto a precisare il portavoce del governo eritreo, Yemane Meskel, aggiungendo che la questione “ha lasciato perplessi tutti gli osservatori interessati”. Il portavoce ha quindi definito “eccessivi” i “discorsi” sull’accesso al mare ed altri argomenti correlati “emersi negli ultimi tempi”. La vicenda ha coinvolto negli ultimi giorni anche la vicina Somalia, che ha respinto la richiesta da parte etiope di avviare dei colloqui per ottenere un accesso al mare. Alla richiesta di imbastire un dialogo sul tema, il ministro degli Esteri somalo Ali Omar ha risposto senza mezzi termini che “la sovranità e l’integrità territoriale della Somalia – terra, mare e aria – come sancite dalla nostra Costituzione, sono sacrosante e non sono oggetto di discussione”, e questo sebbene il suo Paese “sia impegnato a rafforzare la pace, la sicurezza, il commercio e l’integrazione”. Mogadiscio, insomma, non sembra interessata a fornire l’accesso ad una risorsa strategica come un porto, e non lo sarebbe neppure in cambio di una partecipazione ad altri progetti infrastrutturali: è il caso, ad esempio, della Grande diga della Rinascita etiope (Gerd), della quale – secondo alcune fonti stampa – il premier Ahmed avrebbe addirittura proposto di cedere alcune quote a Mogadiscio in cambio dell’anelato accesso al mare. Dalla chiusura dell’accesso al mare seguita all’indipendenza dell’Eritrea, nel 1993, l’Etiopia dipende dal vicino Gibuti per oltre l’85 per cento delle sue importazioni ed esportazioni. Per Addis Abeba l’accesso al mare diventa tanto più urgente se inquadrato nel rilancio dell’Iniziativa Nuova via della Seta (Belt and road Initiative – Bri), il maxi progetto infrastrutturale promosso dalla Cina, solido partner dell’Etiopia. Senza porti di sua competenza, Addis Abeba rischia infatti di rimanere tagliata fuori da un progetto strategico e, più in generale, di veder indebolita l’influenza da esercitare sulla regione in campo infrastrutturale. Non a caso, in occasione della visita che ha compiuto questa settimana a Pechino per partecipare al terzo Forum sulla Bri, il premier Ahmed è riuscito ad ottenere la promessa cinese di investire maggiormente nei parchi industriali etiopi, oltre ad un incontro con il presidente Xi Jinping nel quale i due leader hanno annunciato l’elevazione del partenariato tra i due Paesi ad una “cooperazione strategica per tutte le stagioni”. Nel colloquio tra Ahmed e il premier cinese Li Qiang la discussione si è invece concentrata sulle modalità per rafforzare la cooperazione economica tra Etiopia e Cina. A margine del Forum, il primo ministro ha avuto anche una serie di colloqui bilaterali con il presidente cinese Xi Jinping, il primo ministro Li Qiang, la presidente della Nuova Banca per lo sviluppo, Dilma Rousseff, e altri funzionari di Pechino. Nova News su Facebook, Twitter, LinkedIn, Instagram, Telegram I discorsi, reali e presunti, sull’acqua, sull’accesso al mare e su temi affini emersi negli ultimi tempi sono numerosi ed eccessivi.
La vicenda ha lasciato perplessi tutti gli osservatori interessati. A tale riguardo il governo dell’Eritrea ribadisce ulteriormente che non si lascerà, come di consueto, coinvolgere in tali ragionamenti pretestuosi. Il GoE esorta inoltre tutti gli interessati a non lasciarsi provocare da questi eventi. Ministero dell'Informazione Asmara 16 ottobre 2023 da Shabait credit Ghideon Musa Aron 29 sett 2023
I rapporti culturale ed economici che testimoniano la presenza degli italiani in Africa dalla seconda metà del 1800, andrebbero recuperati! Purtroppo da alcuni anni i paesi africani si rivolgono a Cina, Russia, USA e paesi arabi per i loro progetti di sviluppo sociale, ambientale, agricolo e industriale mentre proprio l’Italia potrebbe valorizzare al meglio il patrimonio comune italo-africano di storia e di cultura costruito nel tempo anche per questioni di vicinanza mediterranea. Infatti la struttura geografica dell’Italia e la sua posizione sembrano destinarla ad un ruolo centrale non solo come terra d’arrivo ma anche come osservatorio naturale sul bacino del mediterraneo così denso di opportunità. Anche l’Europa considera l’Africa sempre più centrale e indica la Sicilia come porta d’accesso strategica per l’Energia del continente africano o meglio:”l’hub energetico verde di riferimento”. Il viceministro degli esteri, l’onorevole Edmondo Cirielli, ha detto recentemente che bisogna investire più sugli accordi bilaterali che multilaterali verso Africa; è questa una strada da percorrere che potrebbe permettere all’Italia di stringere delle partnership con questi paesi africani, alcuni dei quali ex italiani? Può la politica tracciare una road map per costruire un ponte verso il Corno d’Africa e la Libia? Di questo e molto altro si è parlato ieri sera al Cubo di Parma nel Convegno:” Africa, dove si traccia il nostro destino” alla presenza del sottosegretario di stato al ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale Onorevole Giorgio Silli. La giornalista d’inchiesta Dottoressa Francesca Ronchin, moderatrice del Convegno, ha introdotto gli obiettivi dell’incontro e presentato gli ospiti. Infatti, oltre all’Onorevole Silli, erano presenti quattro testimoni, quattro autentiche voci di esperienza italiana in Africa vissuta personalmente con le proprie famiglie in Eritrea, Etiopia, Somalia e Libia. La giornalista Ronchin, in una sorta di tavola rotonda circolare tra passato e presente, ha moderato la narrazione del vissuto degli ospiti nati in Africa – e che per la prima volta parlavano pubblicamente della loro “nostalgia” ma anche dei fatti drammatici degli anni 70 e 90 del secolo scorso – trasformando le esperienze di vita degli ospiti in un ponte virtuale per comunicare le strategie di cooperazione descritte nel PNRR e nel Piano Mattei. Il lungo, attento e prezioso intervento dell’Onorevole Silli ha stigmatizzato le proposte contenute nel Piano Mattei e ha confermato l’intenzione di stabilire sempre più intense relazioni diplomatiche e operative con le nazioni africane – soprattutto nei paesi dove la presenza italiana è stata fonte di cultura e innovazione tecnologica – tese a costruire e ricostruire cooperazioni economiche e commerciali di sapore antico e contemporaneo. da Parma daily Vostra Eccellenza
Presidente dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite Eccellenze, Capi di Stato e di Governo Illustri delegati Signore e signori Permettetemi innanzitutto di esprimere le mie più sentite congratulazioni a Vostra Eccellenza per la vostra elezione a Presidente dell'attuale sessione dell'UNGA. Sono davvero onorato di trasmettere il seguente messaggio del presidente Isaias Afwerki a questa augusta assemblea. Eccellenze, Sono trascorsi settantotto anni dalla storica istituzione delle Nazioni Unite il 24 ottobre 1945. Questo evento storico si è verificato sulle ceneri e sulle conseguenze della Seconda Guerra Mondiale che aveva causato perdite di vite umane e devastazione senza precedenti per l’umanità. Sfortunatamente, le toccanti lezioni tratte da questa feroce guerra non hanno inaugurato un’era di pace duratura fondata sulla legalità, sulla giustizia e sull’equilibrio sostenibile in termini globali. La Guerra Fredda, durata i successivi 45 anni, ha incubato una spirale di conflitti incessanti e di instabilità in molte parti del mondo, con tutte le sue conseguenze dannose per una prosperità duratura e inclusiva. Ancora più minacciosamente, i futili tentativi di imporre un ordine mondiale unipolare negli ultimi trent’anni circa, e in particolare, le crisi generate in questi tempi volte a far rivivere alleanze e blocchi militari defunti, stanno spingendo sempre più la nostra comunità globale nel precipizio. di una catastrofe molto più pericolosa. All’interno di questa calamitosa realtà globale, il continente africano è stato, e rimane, emarginato; costretto, com’è, a farsi carico del peso di queste politiche distruttive. In questa prospettiva, bisogna riconoscere che i movimenti di resistenza che si stanno sviluppando in Africa – manifestati in diverse varianti – sono espressione e continuazione della lotta contro il colonialismo. Sono reazioni di sfida alla “schiavitù moderna”, al saccheggio incessante e al dominio. Un’altra dimensione spesso trascurata è il fatto che “Al-Qaeda”; “Daish”; “al-Shebaab”; così come altre propaggini e gruppi terroristici in franchising, sono imprese criminali sostenute e finanziate dalle stesse forze di dominio per fini politici. Sono spietatamente strumentalizzati per fomentare crisi e fornire pretesti plausibili per l’intervento militare. Eccellenze, Mi sono soffermato a lungo sull’eredità degli atti di destabilizzazione scatenati dalle forze egemoniche perché anche il mio Paese non è stato risparmiato dalle sue ricadute nel contesto globale globale. Non mi riferisco al lontano passato, o agli anni ’50, in cui il diritto inalienabile dell’Eritrea alla decolonizzazione fu sacrificato sull’altare degli interessi geostrategici di queste potenze. Dobbiamo riconoscere che le sanzioni imposte all’Eritrea dal 2009 al 2018 sono state un altro recente atto di trasgressione e inganno che richiede piena riparazione e responsabilità. Eccellenze, La resistenza vigorosa e persistente – anche se amorfa – da parte dei popoli del mondo ha scoraggiato l’emergere e la prevalenza dell’ordine mondiale unipolare previsto per il dominio e l’egemonia globale. La vibrante tendenza – le rinvigorite resistenze che stanno proliferando in diverse parti del mondo – indicano che siamo sull’apice o sulla soglia di una nuova realtà; un crocevia storico che sarà di buon auspicio per un nuovo ordine mondiale. Ovviamente, questo non accadrà domani. Per quanto inesorabile, il percorso non sarà facile o raggiungibile in un breve lasso di tempo. Ma non vi è alcun dubbio che il destino alla fine verrà raggiunto. Il nuovo, auspicato, ordine globale dovrà essere accompagnato e cementato da cambiamenti strutturali di vasta portata nell’architettura della governance globale e nelle varie organizzazioni internazionali e regionali. Una trappola evitabile in questo indispensabile sforzo collettivo sarebbe la tendenza a “misure cosmetiche e nominali” che genererebbero solo false speranze e apatia nei popoli e nei paesi del mondo che cercano e aspirano a cambiamenti autentici per una pace duratura, stabilità e prosperità. Parallelamente a ciò, le Nazioni Unite saranno costrette a intraprendere i necessari cambiamenti strutturali e profonde riforme. Si spera che i cambiamenti auspicati siano commisurati alle aspirazioni alla giustizia e allo stato di diritto; il rispetto dell'indipendenza e della sovranità nazionale; l’avvento di una nuova epoca di vera partnership e prosperità condivisa. In quanto principale piattaforma internazionale, le Nazioni Unite devono infatti essere elevate – in termini di struttura e mandato – a un’apprezzata organizzazione ombrello in grado di adempiere al suo mandato storico con efficacia e potenza. In questa prospettiva, la tanto decantata riforma del Consiglio di Sicurezza dell’ONU non dovrebbe essere percepita come una manomissione nominale, limitata meramente ad aumentare il numero e la rappresentanza geografica dei nuovi membri. L’architettura del potere di veto e le altre distorsioni istituzionali che impediscono al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di esercitare le proprie responsabilità sulla base del diritto internazionale con imparzialità e obiettività devono essere esaminate prendendo come modello guida il track record storico. Come Vostre Eccellenze concorderanno con me, il mercanteggiamento politico e l'uso improprio dell'appartenenza al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per promuovere interessi nazionali ristretti non sono compatibili con la responsabilità solenne che è loro affidata e che è espressamente stipulata nella Carta delle Nazioni Unite. Il criterio di adesione non dovrebbe essere limitato e determinato dal mero peso politico ed economico; dimensione della popolazione, ecc. L’appartenenza al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite deve riflettere l’ampio spettro degli Stati membri dell’ONU. In questo spirito, speriamo che le deliberazioni dell’UNGA quest’anno, e nel periodo a venire, esamineranno questi e altri parametri complessi associati in tutte le loro dimensioni e profondità. Grazie da Shabait credit Ghideon Musa Aron Ministro degli Affari Esteri dello Stato di Eritrea alla riunione ministeriale preparatoria per il Vertice sul futuro
New York, 21 settembre 2023 Signor Presidente, Illustri Ministri, Il futuro dell’umanità e del nostro pianeta in generale è infatti modellato dalle sfide passate e attuali. A quanto pare, l’umanità si trova ad affrontare crisi multidimensionali, tra cui il cambiamento climatico, i disastri ambientali, le tensioni geopolitiche, i conflitti e le instabilità, le crisi sanitarie e le diffuse disuguaglianze. A metà dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, sembra che il raggiungimento degli obiettivi e degli impegni di sviluppo previsti rimanga arduo e che i paesi del Sud del mondo siano visibilmente lasciati indietro nonostante la nostra dichiarazione collettiva secondo cui “nessuno è lasciato indietro”. In questo contesto, la necessità di convocare un “vertice del futuro” è imperativa. Tuttavia, mentre riflettiamo su come salvare e accelerare l’Agenda 2030 per gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, è necessario correggere le ingiustizie e le disuguaglianze sottostanti tra le società e le nazioni. Signor Presidente, L’applicazione illecita e arbitraria di misure coercitive unilaterali da parte di alcune potenze contro gli Stati membri in via di sviluppo stanno ulteriormente esacerbando le ingiustizie e gli squilibri esistenti. Pertanto, il Summit del Futuro o qualsiasi altro processo intergovernativo deve vietare categoricamente tali misure in quanto contrarie alla Carta delle Nazioni Unite, ai principi del diritto internazionale e alla nozione di multilateralismo. Oltre a ciò, tali pratiche scorrette stanno privando i paesi in via di sviluppo del diritto intrinseco allo sviluppo socioeconomico e devono essere annullate. Signor Presidente, Il Summit del Futuro potrebbe offrirci una rara opportunità per mobilitare risorse non sfruttate e coordinare azioni multilaterali. Gli impegni normativi sembrano aver creato false speranze, minando al tempo stesso le prospettive di risorse nazionali e di sane partnership. Cerchiamo di essere realistici e di definire priorità comuni e programmi d’azione realizzabili. Ci auguriamo che le nostre deliberazioni di oggi e le successive discussioni contribuiscano a un “Patto del futuro” conciso e orientato all’azione, basato su un processo consensuale. Da parte nostra, rimaniamo impegnati a impegnarci in modo costruttivo per un ordine internazionale giusto. Grazie! da shabait credit Ghideon Musa Aron 1961 - Alcuni esuli eritrei, fra i quali l’ex presidente del parlamento eritreo, Idris Mohammed Adem, fondano il Fronte di liberazione dell’Eritrea (F.L.E.) e decidono di dare inizio alla lotta armata.
Il 1° settembre, un gruppo di guerriglieri, guidati da Hamed Idris Awate, attacca una stazione di polizia nella provincia eritrea occidentale del Barka dando vita a quello che viene considerato l'inizio della trentennale lotta armata del popolo eritreo per la Liberazione e l'Indipendenza del proprio paese. La Commissione elenca, in gran parte sulla base di interviste remote e prive di fondamento, storie dell'orrore difficili da leggere e comprendere; presunti crimini di esecuzioni extragiudiziali arbitrarie e su larga scala; atti sfrenati di stupro estensivo che non risparmia nemmeno i bambini di 9 anni e le donne anziane sopra i 60 anni!
In poche parole, descrive l’EDF come un esercito barbaro e predatore senza bussola morale e/o regole di ingaggio. Queste sono accuse e accuse gravi. Non possono essere livellati gratuitamente senza una verifica assoluta. La Commissione non può, infatti, incriminare un paese e le sue istituzioni sulla base di insinuazioni e ricerche a distanza. La Commissione non può eludere il suo mandato di professionalità, neutralità e obiettività attraverso l’implausibile avvertimento di “ragionevoli motivi per ritenere” standard inferiori. Poiché le grossolane generalizzazioni e le gravi accuse della Commissione derivano in gran parte da aneddoti e insinuazioni non verificate, vorrei tornare su alcuni aneddoti che abbiamo già sentito in precedenza per chiarire il punto. L’accusa del “massacro di Axum” è stata lanciata per la prima volta da un noto agente dell’intelligence con sede nel Regno Unito e acerrimo nemico dell’Eritrea. Amnesty International ha successivamente prodotto un altro resoconto – con cifre e narrazioni diverse – attraverso interviste a distanza di circa 36 milizie del TPLF nei campi di insediamento in Sudan. Successivamente, le organizzazioni con sede in Etiopia hanno prodotto almeno tre versioni diverse. La storia di Monaliza: questa storia è diventata virale praticamente in tutti i media globali. La storia originale era che un gruppo di soldati dell'EDF violentò in gruppo la bella diciottenne e poi le sparò al braccio. La foto e alcuni spezzoni sono stati scattati quando era ricoverata in un ospedale di Mekelle. Pochi giorni dopo, suo padre testimoniò che tutta la storia era pura invenzione. Faceva parte della milizia del TPLF e fu ferita nei primi giorni di battaglia quando il TPLF scatenò la sua guerra di insurrezione. Il Daily Telegraph e il New York Times hanno pubblicato un articolo, con testimonianze di presunte vittime (sempre attraverso interviste a distanza) in cui affermano che i soldati dell'EDF violentano le donne tigreane su ordine espresso degli alti comandanti per infettarle con l'HIV-AIDS e renderle sterile. Il problema con questa storia è che l’incidenza dell’AIDS è 20 volte più alta nel Tigray (4% nel Tigray rispetto allo 0,22% in Eritrea). Da allora la storia è svanita. Potrei andare avanti all'infinito. Ma un fatto deve essere chiaro. Ci sono video clip in cui i quadri del TPLF vengono ripresi dalle telecamere mentre istruiscono presunte "vittime" su come narrare trame strazianti. La menzogna e l'inganno diabolico del TPLF includevano il lancio di una campagna coordinata sui social media con l'hashtag #TigrayGenocide proprio nel momento in cui ha lanciato il suo Guerra d'insurrezione. Il succo del messaggio che emerge da questi aneddoti è che il compito e il mandato della Commissione non è quello di raccogliere allusioni, impacchettarle in termini grafici e sottoporle al Consiglio. Ciò equivale a una grave violazione del dovere che giustifica una seria responsabilità. È vero, la guerra è brutale e possono verificarsi dei crimini. Ma ciò non dovrebbe eclissare la capacità di una commissione d’inchiesta di accettare ingenuamente tutte le allusioni. A meno che non sia guidato da sinistri obiettivi politici sui quali ritornerò più avanti. Ma vorrei innanzitutto sottolineare un punto. L’Eritrea è stata coinvolta in una guerra difensiva per molti decenni. L’Eritrea e l’EDF hanno una comprovata adesione alle leggi umanitarie di guerra. L’Eritrea ha trattato umanamente i prigionieri di guerra etiopi nel periodo della lotta di liberazione e ne ha rimpatriati più di 100.000, compresi generali anziani, alla fine della guerra. Sia l’EPLF che l’EDF hanno anche un’enorme percentuale di donne soldato. L’uguaglianza di genere è abbastanza sviluppata nella società eritrea. I nove gruppi etnici dell’Eritrea e le fedi cristiana e musulmana vivono in armonia. Alcuni degli abusi sessuali citati nel rapporto sono estranei alla nostra cultura. Le leggi consuetudinarie dell’Eritrea, che risalgono al XIV secolo, e i moderni codici civile e penale contengono disposizioni rigorose contro la violenza di genere. Un ultimo punto. La Commissione parla dello “scoppio del conflitto” nella regione del Tigray in modo spaventosamente neutrale ed evasivo per minimizzare la guerra di insurrezione non provocata, premeditata e massiccia che il TPLF ha lanciato all’inizio di novembre 2020 per rovesciare il governo federale dell’Etiopia e perseguire la sua guerra di aggressione contro l’Eritrea. La Commissione sostiene inoltre le false accuse del TPLF sulla continua presenza dell'EDF nel Tigray; che si riferisce fondamentalmente a Badme e ad altri territori sovrani eritrei che il TPLF aveva occupato illegalmente per due decenni in violazione del diritto internazionale. Si abusa della riservatezza del coinvolgimento nella fase iniziale perseguita per ragioni di ambiguità strategica. In tal caso, la motivazione della Commissione necessita di essere esaminata in quanto i presunti crimini basati sul genere potrebbero essere maliziosamente pubblicizzati ai fini dell’intervento militare. Ricordiamo la falsa accusa secondo cui ai soldati di Gheddafi sarebbe stato fornito il Viagra per commettere stupri su larga scala, diffusa in modo da giustificare l’intervento militare della NATO. Ricordiamo che la Guerra d’insurrezione del TPLF ha avuto il tacito appoggio di alcuni poteri. Va notato che la politica regionale dell’Eritrea è altrimenti saldamente ancorata alla promozione della pace, della stabilità e della cooperazione economica sulla base del pieno rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale di tutti gli Stati. In effetti, l’Eritrea ha a cuore la pace regionale poiché è stata colpita dalle guerre intermittenti impostele negli ultimi decenni. (* Per motivi di tempo, una versione ridotta è stata presentata oggi dall'Ambasciatore Tesfamichael Gerhatu alla sessione dell'UNHRC mentre la presentazione dettagliata è stata distribuita a tutti gli Stati membri) da shabait Assemblea Onu: Tajani incontra i Ministri degli Esteri dei Paesi del Corno d’Africa a New York19/9/2023 fonte Aise
Il Vice Presidente del Consiglio e Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Antonio Tajani, a margine dei lavori della settimana di alto livello dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha partecipato ieri a una riunione con i Ministri degli Esteri di Eritrea, Osman Saleh; Etiopia, Demeke Mekonnen; e Somalia, Abshir Omar Jama. In questa occasione, riporta la Farnesina, Tajani ha rimarcato il ruolo strategico della partnership tra Italia e Paesi del Corno d’Africa, legati da profondi vincoli storici e culturali, e ha illustrato le prospettive di cooperazione regionale, sia in chiave economica, sia, soprattutto, in chiave di stabilizzazione regionale. La stabilità regionale, insieme agli investimenti e alla creazione di occupazione, è infatti condizione irrinunciabile per la riduzione dei flussi migratori verso l’Italia e verso l’Europa. “Il nostro governo è fortemente impegnato a sostenere misure concrete per la crescita e lo sviluppo del Mediterraneo allargato e dell’Africa e affrontare così le cause profonde dei flussi irregolari, controllati da trafficanti di esseri umani senza scrupoli” ha osservato Tajani nel corso del colloquio. Un impegno che l’Italia ha ribadito lo scorso luglio in occasione della “Conferenza internazionale su sviluppo e migrazioni”, organizzata alla Farnesina su iniziativa del Presidente del Consiglio dei Ministri, Giorgia Meloni, insieme ai leader degli Stati della sponda Sud del Mediterraneo allargato, del Medio Oriente e del Golfo, gli Stati UE di primo approdo e alcuni partner del Sahel e del Corno d’Africa. Il Vicepremier ha espresso il grande interesse dell’Italia al rafforzamento della cooperazione economica con i tre Paesi, in virtù della loro rilevanza strategica della regione. Nel periodo 2020-2022, il nostro interscambio con l’area ha superato stabilmente i 300 milioni di euro, mentre i dati relativi al primo semestre del 2023 testimoniano una crescita del 23% rispetto all’anno precedente. Al fine di mantenere carattere prioritario al coordinamento tra Italia, Eritrea, Etiopia e Somalia, il Ministro Tajani ha proposto di tenere riunioni a cadenza annuale in formato quadrilaterale. L’avvio di un meccanismo di consultazioni permanente consentirà di moltiplicare le opportunità di crescita e investimento, anche con riguardo ai settori dell’educazione e della formazione e del contrasto ai flussi migratori irregolari. Il Vicepremier ha infine sottolineato la forte attenzione che, nel 2024, la Presidenza italiana del G7 riserverà al Continente africano e, in particolare, al Corno d’Africa. In un contesto di grande sintonia e collaborazione, Tajani ha infine consegnato ai tre colleghi africani gli inviti rivolti al Presidente eritreo Afewerki, al Presidente somalo Hassan Sheikh e al Primo Ministro etiope Abiy a partecipare al prossimo Vertice Italia-Africa del 5-6 novembre a Roma. Tale appuntamento consentirà di rafforzare i partenariati paritari e solidali con i Paesi africani sulla base del “Piano Mattei”, che sarà presentato durante il Vertice. fonte (aise) |
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