Il 34esimo Anniversario dell'Indipendenza viene celebrato dall'Eritrea e dal suo popolo ricordando la grande Coesione che lega l'una e l'altro in una Nazione dimostratasi capace d'affrontare e vincere sfide a dir poco sbalorditive. Quella Coesione è la sua Armatura.
Di Filippo Bovo 22 Maggio 2025 Ogni Anniversario dell’Indipendenza, avvenuta de facto il 24 maggio 1991 con l’entrata delle forze dell’EPLF (Eritrean People’s Liberation Front) ad Asmara e la cacciata di quanto rimaneva dell’ormai decaduto dominio etiopico, e riaffermata de iure il 24 maggio del 1993 con l’ingresso del Paese all’ONU dopo il plebiscitario responso al referendum che questi aveva sovrinteso, viene celebrato con un nuovo slogan, diverso dai precedenti, tale da renderlo così per sempre unico ed indimenticabile. Quest’anno non poteva forse esserne scelto uno di migliore, tant’è rappresentativo e biografico della complessa e profonda storia eritrea: “Our Coesion: Our Armour!”, ovvero “La Nostra Coesione: la Nostra Armatura!”. Nell’immagine che accompagna lo slogan campeggia una grande fiaccola ardente, brandita da una mano: appare spesso, anche nelle immagini degli Anniversari già trascorsi, arricchite di volta in volta da motivi e soggetti diversi, a conferma di quanto connotante sia della storia e della culturale nazionale eritrea. Del resto, che il Paese sia sempre stato unito e coeso, trovando in queste doti parte delle ragioni della sua tanta forza e resilienza, mentre robusta e vigorosa arde la fiaccola dello spirito patrio, non ci sono dubbi: basterebbe a tal proposito guardare alla sua storia, passata e recente, per potersene abbondantemente accorgere. E’ fatto noto che fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, al pari d’ogni altra ex colonia italiana, anche l’Eritrea avesse pieno diritto all’Indipendenza. Non così però la pensavano i vincitori: il Negus d’Etiopia, Haile Selassie, tornato sul trono dopo la cacciata degli italiani ad opera degli inglesi nel 1941, la rivendicava a sé, desideroso di poter coronare un’antica ambizione etiopica come quella di raggiungere il mare; mentre i suoi più stretti alleati, Inghilterra e Stati Uniti, non disdegnavano a loro volta tale idea, ritenendo pur sempre strategico il fatto di serbarselo amico. Così, abbandonato un temporaneo piano di smembrare l’Eritrea tra Etiopia e Sudan, gli inglesi fecero fronte comune con gli americani, e anche i vinti, cominciando dagli italiani che avevano pur manifestato qualche riserbo, si dovettero adeguare: nel 1952, terminato il governo militare provvisorio inglese sull’Eritrea, questa sarebbe divenuta uno Stato federato alla Corona etiopica. L’allora Segretario di Stato americano John Foster Dulles, pur conoscendo il grande desiderio d’Indipendenza degli eritrei, con cinismo così commentò: “Dal punto di vista della giustizia, le opinioni del popolo eritreo devono essere prese in considerazione. Tuttavia, gli interessi strategici degli Stati Uniti nel bacino del Mar Rosso e le considerazioni di sicurezza e di pace nel mondo rendono necessario che il paese sia collegato al nostro alleato, l’Etiopia”. Tuttavia federare uno Stato come l’Eritrea, già dotato di tutte le sue istituzioni democratiche e parlamentari, di partiti, giornali e sindacati, ad una monarchia assoluta come l’Etiopia d’allora, priva di tali organismi e retta dalla volontà di un autocrate come il Negus, appariva già allora un esperimento destinato ad esiti infelici. E così infatti fu: se durante il loro governo militare provvisorio gli inglesi avevano provveduto a saccheggiare quante più infrastrutture e macchinari potevano dell’ex colonia italiana, fino al 1941 la più avanzata ed industrializzata di tutto il Continente Africano, gli ufficiali etiopici a loro volta iniziarono a sopprimere su ordine del loro sovrano tutte le istituzioni democratiche del Paese, allo scopo di renderlo infine del tutto omogeneo alla più arretrata e verticistica monarchia negussita. Il malcontento tra gli eritrei e anche tra molti italiani rimasti in loco cominciò ad esprimersi, e le repressioni delle autorità etiopiche ad intensificarsi, finché alla fine degli Anni ’50 quel che restava del vecchio “Stato federato di Eritrea” non venne per decreto ridotto a mera 14esima provincia dell’Impero d’Etiopia. Nel frattempo però, al Cairo, alcuni patrioti avevano fondato l’ELF (Eritrean Liberation Front), con lo scopo di combattere per ottenere la mai vissuta Indipendenza. Tra i suoi massimi esponenti figurava colui che per primo avrebbe acceso la fiaccola della lotta armata assaltando una postazione della polizia etiopica, l’Eroe Nazionale Hamid Idris Awate. Sarà un caso che il manifesto con lo slogan di quest’anno rappresenti proprio una fiaccola? Leggendo il resto della storia eritrea, capiremo che quella fiaccola fu retta e sarebbe stata poi retta da tante altre mani ancora, quelle di un popolo intero, un popolo coeso. Alla fine degli Anni ’60, riconoscendo le contraddizioni interne che l’ELF recava con sé e che ne tarpava le capacità di portare avanti la lotta, alcuni giovani patrioti eritrei decisero di costituire una nuova formazione, che nel decennio successivo si sarebbe ancor più strutturata: era l’EPLF, con forti basi non soltanto nazionali e patriottiche ma anche socialiste e marxiste. La Guerra di Liberazione eritrea per l’EPLF era anche una Rivoluzione sociale, emancipatrice ed anticoloniale, con la paritaria partecipazione degli uomini e delle donne, destinate ben presto a divenire oltre il 35% dei Tegadelti, ovvero dei combattenti per l’Indipendenza. Quel nuovo movimento avrebbe dato nuovo ed immenso filo da torcere alle truppe etiopiche, sempre più in difficoltà, fino a favorire la caduta del Negus nel 1974. Quell’avvenimento, tuttavia, non avrebbe ancora migliorato le cose né in Eritrea né in Etiopia: caduto il vecchio regime imperiale, ad Addis Abeba s’insediò una giunta militare, il DERG, al cui interno dopo un cruento regolamento di conti si sarebbe affermata la sinistra figura del “Negus rosso” Menghistu Haile Mariam. Trovandosi ai ferri corti con la Somalia, con cui già il Negus negli Anni ’60 s’era scontrato, Menghistu proclamò la natura socialista e filosovietica del suo regime, ottenendo così l’assistenza economica e militare dei sovietici e dei cubani. Miliardi di dollari a titolo di fondi economici e di dispositivi militari, anche estremamente avanzati, giunsero in Etiopia dall’URSS, trasformandola nel più grande arsenale africano. Grazie a tali aiuti, il DERG riuscì a mantenere l’Ogaden, che la Somalia aveva occupato soccorrendo i somali di quella regione etiopica che volevano unirsi a Mogadiscio, e tentò poi di sbarazzarsi definitivamente dell’EPLF, che sempre più aveva guadagnato terreno. Con l’Operazione Stella Rossa le truppe etiopiche assalirono i capisaldi eritrei mentre la Marina Sovietica a sua volta li bombardava dal Mar Rosso. Neppure il napalm venne risparmiato, insieme ad altre armi proibite dalle convenzioni internazionali. Eppure, nonostante tutti quegli aiuti, le truppe etiopiche persero sempre contro i Tegadelti. Questi si riprendevano rapidamente e con gli interessi tutto il terreno perduto, per giunta sottraendo alle sempre più demoralizzate truppe etiopiche molto del loro armamento, che dal 1989 non godevano più né dell’assistenza sovietica, revocata, né di quella cubana, con Fidel Castro assai ricredutosi di Menghistu. Già negli Anni ’80 l’EPLF aveva ormai guadagnato, a danno dell’avversario, una potenza di fuoco tale da consentirgli di sfidarlo apertamente, tanto che coi suoi carri armati oltre che con barchini ultraveloci tra l’8 e il 10 febbraio 1990 poté liberare con l’Operazione Fenkil la città di Massawa, assestando un durissimo colpo al regime, e nel corso dell’anno successivo completare passando di successo in successo la liberazione dell’intero territorio eritreo. Non solo, ma sempre coi suoi mezzi, indispensabili per garantire la copertura anche degli altri movimenti di resistenza etiopici, nel maggio 1991 l’EPLF entrò con le sue bandiere persino ad Addis Abeba, liquidando pure là quanto ancora restava del vecchio regime ormai esaurito. Menghistu era già fuggito in Zimbabwe diversi giorni prima, il 21 maggio, dopo aver dato le dimissioni e portato via con sé molto del Tesoro nazionale, mentre il 24 maggio, come raccontavamo, l’EPLF era entrato ad Asmara, la capitale dell’Eritrea, sancendone così la definitiva Liberazione. Fu dunque un cammino di trionfi, ma anche di grandi sacrifici: molti i caduti, i Martiri, intorno alla cui memoria si forgia l’immenso spirito nazionale eritreo. Quella fiaccola arde anche e soprattutto per loro. Tanto per l’Eritrea e gli eritrei era importante la data del 24 maggio 1991, dunque, da rendere due anni dopo obbligata la scelta del 24 maggio anche per presentarsi al mondo intero come l’allora più giovane Nazione africana. I festeggiamenti che si sono tenuti in quel 1991 come negli anni successivi, da parte dei tanti eritrei andati all’estero a formare una vasta Diaspora dall’Occidente al Medio Oriente fino a parte dell’Africa, dove trovarono rifugio negli anni della Guerra di Liberazione e dove reperirono fondi e sostegni per portarla avanti e perorarne la causa, resteranno sempre memorabili. Un grande aiuto fu dato, ed è giusto ricordarlo, da paesi come la Somalia e il Sudan, con la prima che fornì visti e passaporti somali dal consolato di Khartum dove molti eritrei avevano trovato riparo dalle persecuzioni del DERG, così da poter poi viaggiare anche all’estero ed ottenervi cure e sostegni. Anche quest’immenso debito di gratitudine spiega il grande supporto che l’Eritrea dà oggi a somali e sudanesi, i cui Paesi stanno attraversando duri travagli, affinché possano un giorno tornare a vivere nella sicurezza e nella pace. E un altro grande aiuto fu dato, soprattutto in Italia, dalla città di Bologna, che dagli Anni ’70 diventò una vera e propria “capitale morale” della Diaspora e della Comunità Eritrea, per restarlo tuttora. Tant’è che proprio in questi giorni, Bologna compresa, si stanno tenendo i festeggiamenti della nutrita Comunità Eritrea in Italia; altri a Roma, Catania, Pisa, mentre altre ancora se ne terranno nei giorni a venire. Così pure in Germania, in Arabia Saudita, negli Stati Uniti, ovunque, oltre ovviamente alla Madrepatria. Quanto qui raccontiamo è ben poco del tutto; ma probabilmente adesso i lettori capiranno perché quella Coesione sia anche l’Armatura della Nazione Eritrea. Trent’anni di Guerra di Liberazione non sarebbero stati possibili senza quella Coesione, né sarebbe stato possibile concluderli con una tale vittoria, con l’Indipendenza; ed ancor meno difenderla dalle aggressioni subite in seguito, in primis quella del 1998-2000, allorché l’Etiopia guidata da Meles Zenawi tentò nuovamente la conquista dell’Eritrea; od abbellirla come i suoi primi 34 anni di vita indipendente ci stanno a testimoniare, facendo dell’Eritrea di oggi il Paese totalmente sovrano a cui molti giovani panafricanisti guardano come esempio per l’emancipazione del proprio. L’Eritrea di oggi è l’unico caso nella storia africana di un Paese sviluppatosi sin dall’Indipendenza senza indebitarsi con l’estero, in particolare con gli istituti economici occidentali responsabili del neocolonialismo nel resto del Continente, ad aver costruito contando sulle sue sole forze più di 800 tra dighe e bacini idrici che hanno reso verdi, piovose e coltivate terre un tempo aride e siccitose, a non far parte del dispositivo NATO/AFRICOM e a non aver basi militari straniere sul proprio territorio, per giunta riuscendo in tutto ciò anche a fronte di lunghi anni di sanzioni internazionali. La fiaccola di questi 34 anni d’Indipendenza è una fiaccola che arde con gioia. Filippo Bovo L'Opinione Pubblica
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