In sole 72 ore sono avvenute in Sudan delle novità di portata epocale, che lasciano ben sperare per una rapida e chiara risoluzione del doloroso conflitto civile in corso dal 2023.
Di Filippo Bovo 3 Giugno 2025 In Sudan, non appena assunto tre giorni fa il ruolo di primo ministro, Kamil Idris ha smantellato il vecchio governo, ormai un’antistorica eredità della fallita transizione inaugurata nel 2019 ed andata definitivamente in frantumi nel 2023, quando scoppiò la guerra civile con le RSF di Dagalo Hemedti (Forze di Supporto Rapido, nate dai vecchi Janjaweed dell’epoca di al-Bashir, che tristemente si fecero conoscere durante il conflitto del Darfur) che vi uscirono, ribellandosi al Consiglio Sovrano di Transizione guidato dal Generale Fattah al-Burhan; ed ha avviato una transizione del tutto nuova, che include militari e civili ma al cui interno, come già si poteva facilmente intuire, non vi sarà mai più posto alcuno per le RSF. Le milizie di Hemedti, in Sudan, hanno infatti talmente oltrepassato oltre ogni limite legale, umano e sociale da non poter più sperare in un ruolo, sia pur da perdenti, nella realtà politica e governativa nazionale. Il popolo sudanese non le vuole più. Comprendendo la portata storica del loro vasto fallimento, i primi due promotori economici e militari delle RSF, gli Emirati Arabi Uniti e l’Etiopia, hanno così tentato un nuovo approccio con le autorità sudanesi, a cominciare dal Generale al-Burhan; ma questi ha frettolosamente respinto le loro profferte, come del resto già aveva fatto con gli Stati Uniti ed Israele. Addirittura i delegati etiopici, recatisi a Port Sudan per incontrarlo, si sono visti rifiutare proprio l’udienza: giusto per la cronaca, erano il direttore dell’intelligence etiopico, Redwan Hussein, e l’ex presidente dello stato del Tigray, Getachew Reda, a capo anche della fazione G del TPLF di recente sconfitta ed estromessa da quella D, guidata da Debretsion Gebremichael, con gran dolore del primo ministro etiopico Abiy Ahmed. Questi infatti s’è così trovato a sua volta estromesso dall’importante stato settentrionale del Tigray, al confine con l’Eritrea e proprio per tale ragione essenziale nei suoi piani per una maggior militarizzazione tanto contro Asmara quanto contro Khartum; mentre la montante guerra civile nella stessa Etiopia, non soltanto nell’Amhara, sempre più gli sfugge di mano. E’ notizia delle ultime ore quella delle dimissioni di sei massimi generali dell’Esercito etiopico, in segno di ribellione ad Abiy Ahmed e alla sua repressione dell’insurrezione degli Amhara, giudicata “genocidiaria”. Il fatto che i sei dimissionari proprio a quella etnia appartengano, come altri già dimessisi o passati ai FANO, milizia auto-organizzata alla guida della rivolta, sottolinea sempre più le spaccature emergenti nel paese: in sostanza, la guerra e la destabilizzazione alimentata dal suo governo nelle regioni e nei paesi confinanti sta lentamente, ma massicciamente, ritorcendosi proprio contro Addis Abeba. Nel mentre, lo sconfitto Hemedti, a capo delle RSF, è apparso con un suo nuovo video in cui per la sua sconfitta ha nuovamente accusato l’Eritrea, “colpevole” d’aver fornito all’Esercito sudanese aiuti ed addestramenti a partire dal conflitto, ed ancor più negli ultimi mesi, rivelatisi essenziali per fargli riguadagnare terreno, di fatto scompaginando tutti i piani etiopico-emiratini e, più a monte, israelo-statunitensi. Non è la prima volta che lo fa, e nemmeno passa inosservato che nelle sue invettive se la prenda sempre col governo eritreo che, evidentemente, nel complesso conflitto civile sudanese è riuscito a metter le mani con più abilità ed efficacia degli altri alleati di al-Burhan, dall’Egitto alla Russia, dall’Arabia Saudita all’Iran fino alla Turchia, di là dal fatto che il loro aiuto sia sempre stato in ogni caso indiscutibilmente prezioso. Dopotutto, senza i loro equipaggiamenti militari, molti successi per l’Esercito sudanese, fortemente sostenuto dal grosso della popolazione, non sarebbero stati possibili. E’ curioso notare come tutti questi avvenimenti che raccontiamo siano occorsi nelle ultime 72 ore: dal lavoro di Kamil Hadris, che getta le basi di una nuova stagione politica in Sudan, alla visita a vuoto di Hussein e Reda, fino al video livoroso di Hemedti e alle dimissioni dei sei alti gradi militari etiopici. Se ne trae la sensazione di un precipitare d’eventi, in un senso complessivamente positivo, che sblocca dei meccanismi politici e militari già da molto tempo in attesa di scattare, e finora forzosamente frenati. Un altro merito dell’Eritrea, dal punto di vista umanitario, è stata anche l’accoglienza riservata a molti civili sudanesi fuggiti dal conflitto, fin dal 2023: il paese ha dato a queste persone, caso unico nella regione, la possibilità d’alloggiare in vere case con alimenti forniti dallo Stato oltre che dalla popolazione, profondamente legata ai sudanesi per ragioni storiche. Il Generale al-Burhan, nella sua ultima e recente visita in Eritrea, ha ringraziato profondamente il suo Presidente Isaias Afewerki per questo importante gesto di fratellanza. Tutti questi elementi dovrebbero farci riflettere di più sull’importanza degli attori locali nei conflitti civili come quello sudanese. In quelle poche volte che il dramma della guerra civile in Sudan trova attenzione nelle analisi di molti africanisti, infatti, vengono sempre nominati i grandi alleati extraregionali di Hemedti o di al-Burhan, ma mai di quelli locali, come l’Etiopia per il primo e l’Eritrea per il secondo; e, a dir la verità, anche degli Emirati o dell’Egitto non è che si vociferi più di tanto. Nel frattempo, Hemedti ha lasciato il Sudan con un volo che, dopo aver fatto scalo in Repubblica Centrafricana, è infine giunto in Etiopia. Ha lasciato dietro di sé un paese da ricostruire e profondamente ferito dai suoi uomini; ma certamente il Sudan di domani, senza di lui e senza di loro, potrà riprendersi con molta più più forza e facilità.
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