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ERITREA ERITREA



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Risposta al rapporto di The Sentry: "Potere e saccheggio: l'intervento delle Forze di Difesa Eritree nel Tigray"

25/9/2025

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Rapporto del Consiglio Nazionale degli Eritrei Americani

Riepilogo

Il Consiglio Nazionale degli Eritrei Americani respinge categoricamente il rapporto di The Sentry del giugno 2025 intitolato "Potere e saccheggio: l'intervento delle Forze di Difesa Eritree nel Tigray".

Questo rapporto è profondamente imperfetto, politicamente motivato e basato su accuse riciclate e affermazioni infondate mascherate da difesa dei diritti umani. Privo di prove credibili, di una metodologia trasparente o di un'indagine imparziale, il rapporto non soddisfa nemmeno i più elementari standard di obiettività e neutralità attesi da una seria ricerca investigativa.

Le sue accuse sensazionalistiche si basano in gran parte su testimonianze anonime, propaganda riciclata e fonti di parte. Ignora completamente gli standard legali, etici e operativi consolidati dell'Eritrea che sono alla base della sua dottrina difensiva e della sua condotta militare.
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Maggiori informazioni sul rapporto
https://africanviews.net/response-to-the-sentrys-report...
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Etiopia: dalla GERD ad Assab, dal Nilo al Mar Rosso, un doloroso ripasso di storia

24/9/2025

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Di Filippo Bovo
 
24 Settembre 2025
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In questi giorni vari giornali italiani hanno parlato della GERD, la Grand Ethiopian Renaissance Dam. Nella maggior parte dei casi l’hanno fatto in maniera tecnica, descrivendone il potenziale in termini economici ed energetici, e ricordandone la realizzazione da parte di WeBuild, già Salini-Impregilo, colosso italiano nelle grandi infrastrutture. Sebbene in genere le rubriche di esteri in Italia lascino un po’ a desiderare, qualunque sia il giornale, non così è stato almeno in questo caso; anche parlando di molta stampa generalista, con articoli dalle considerazioni spesso assai pertinenti. Infatti nessun articolo, nonostante la “tecnicità”, ha potuto in ogni caso esimersi dal far cenno pure delle gravi contropartite geopolitiche che inevitabilmente la GERD comporta con altri paesi della Valle del Nilo, in primo luogo Sudan ed Egitto.
Tutto ciò lo dico a margine di quanti, seppur pochi, hanno invece erroneamente unito la GERD al Piano Mattei, col quale poco ha in realtà ben poco a che fare: infatti la prima è stata messa in cantiere fin dal 2011, mentre il secondo è stato ufficialmente presentato nel gennaio del 2024, dopo due anni di discussioni. Il Piano Mattei è in corso in vari paesi africani come Algeria, Egitto, Tunisia, Marocco, Costa d’Avorio, Eritrea, Kenya, Somalia, Mozambico, Repubblica Democratica del Congo, Angola, Ghana, Mauritania, Tanzania, Senegal, ecc, oltre pure alla stessa Etiopia; ma nel caso di quest’ultima i suoi interventi sono per il momento ancora piuttosto limitati, come ad esempio la bonifica Boye e la riqualificazione della filiera del caffè, oltre ad altre azioni nella sanità, nell’energia verde, nell’istruzione o ancora nel digitale. I grandi interventi si vedono infatti soprattutto in nazioni, come ad esempio Algeria, Marocco, Egitto, Kenya, Ghana, Eritrea, o ancora Costa d’Avorio o Repubblica del Congo (Brazzaville), ecc, dove bene o male si hanno buone condizioni a livello di stabilità politica e finanziaria. In Etiopia in questo momento la situazione politica ed economica appare purtroppo alquanto “volatile”, tale da non attrarre investitori, che in molti casi hanno sospeso le loro attività; mentre Fondo Monetario e Banca Mondiale, che ne controllano buona parte del debito, dopo aver favorito la sua destabilizzazione finanziaria ora si agitano gridandone all’insostenibilità.
All’epoca in cui venne avviato il lavoro della GERD, nel 2011, l’Etiopia era ancora guidata dal TPLF (Tigray People’s Liberation Front) di Meles Zenawi. Abiy Ahmed, alla guida del PP (Prosperity Party), di etnia Oromo, è giunto al potere nel 2018, prendendosi subito un Nobel per la Pace per aver deciso di chiudere la situazione di “né guerra né pace” fino ad allora aveva contrapposto il suo paese all’Eritrea. Nel 1998 l’Etiopia del TPLF aveva attaccato l’Eritrea, in una guerra durata fino al 2000 quando, con gli Accordi di Algeri, i due paesi avevano cessato le ostilità. Tuttavia, nei 18 anni successivi l’Etiopia guidata dal TPLF aveva rifiutato di accettare i termini degli Accordi, continuando ad occupare importanti aree di confine ed ingaggiando ricorrenti scontri con l’esercito eritreo, costretto pertanto alla mobilitazione perenne. L’arrivo di Abiy aveva sbloccato la situazione, ponendo le premesse per un primo percorso d’integrazione regionale che, coinvolgendo oltre all’Eritrea anche Gibuti e Somalia, pareva davvero molto promettente. Lo scoppio nel 2020 della guerra di secessione nello stato settentrionale etiopico del Tigray (l’Etiopia è una repubblica federale, seppur con un originale federalismo su basi etniche, unico al mondo), governato dal TPLF, aveva interrotto quel percorso con un nuovo conflitto durato fino al 2022.
Dopo quel conflitto, però, tutto è cambiato: gli Accordi di Pretoria che dovevano sanarlo non sono stati applicati, né dal governo federale di Abiy Ahmed né dal TPLF, e Addis Abeba ha cominciato a cambiare celermente le sue posizioni regionali. Da “attore nascente” del multipolarismo, è tornata nuovamente ad essere pedina del neocolonialismo occidentale, e non solo: è membro BRICS, certo, ma questo non significa che sia un attore geopolitico “controcorrente”, disallineato dal cosiddetto Washington consensus come Cina o Russia (e lo stesso del resto si potrebbe dire anche per altri attori BRICS, come l’India coi suoi buoni uffici con Israele e le sue iniziative QUAD e IMEC con Washington, in funzione anticinese; o ancora gli Emirati Arabi Uniti, che fanno analoga politica. E’ un tema che in parte esula dall’articolo, ma serve a chiarezza di quanti, magari da letture nei social, tendono ad immaginarsi i BRICS come una sorta di “club anti-occidentale” o addirittura di “proprietà privata” di Mosca o di Pechino), anche perché nel frattempo viene usato proprio da Stati Uniti, Israele ed Emirati Arabi Uniti per una loro comune e sporca strategia politica dai Grandi Laghi alla Valle del Nilo, di sicuro non proprio di stampo progressista. Parliamo del sostegno alle RSF (Rapid Support Forces, gli ex Janjaweed) in Sudan, del separatismo del Somaliland in Somalia, delle nuove e costanti tensioni con l’Eritrea per uno sbocco sul mare, e non ultimo di quelle con Sudan ed Egitto per la GERD. Di questi argomenti ho già parlato tante altre volte e non ho qui voglia di ripetermi, allungando oltretutto un articolo che sta già venendo lungo di suo: chi vuol saperne di più, vada a cercarsi quelli già pubblicati in precedenza, come ad esempio il penultimo, proprio sulla GERD.
I problemi della GERD non risiedono tanto nella sua natura tecnica, che divide ambientalisti e negazionisti del cambiamento climatico, e via dicendo con altre famiglie politiche e soprattutto social del genere; perché in un quadro di concordia regionale il suo uso potrebbe tranquillamente essere regolamentato tra l’Etiopia e gli altri Stati a valle, ovvero Sudan ed Egitto. Dopotutto a Khartum, dove Nilo Bianco e Nilo Azzurro si congiungono, ci sono spesso gravi inondazioni ed una gestione concordata dell’invaso potrebbe consentire anche al Sudan di fronteggiarle meglio; ma magari, per arrivare ad un simile vantaggio, la guerra civile che dilania il Sudan, e a dire la verità ormai anche l’Etiopia, dovrebbe prima cessare. Perché ciò succeda, l’Etiopia dovrebbe liberarsi del controllo che Stati Uniti, Israele ed Emirati Arabi Uniti le hanno imposto, in modo che non possano più usarla come loro ariete nelle regione: mica facile al momento immaginarlo, anche se il regime di Abiy sta cadendo a pezzi, giorno dopo giorno.
La GERD ha senza dubbio un suo potenziale per lo sviluppo del paese e, a ricaduta, anche per la regione, visto che la vendita di energia elettrica a basso costo risulterebbe vantaggiosa non soltanto per l’economia etiopica ma anche per quella sudanese, kenyota e via dicendo; ma senza per questo doversi perdere in grandi ed enfatiche retoriche anticolonialiste o “sviluppiste”. Prima di tutto, se vogliamo davvero parlare di “anticolonialismo”, e magari anche di “panafricanismo”, dobbiamo allora accettare che paesi dello stesso continente possano finalmente sedersi al tavolo per discutere, tra loro e senza ingerenze esterne, dei loro comuni problemi ed interessi; pertanto, senza pensare di appropriarsi di terre altrui, persino presentandolo come un proprio diritto, come invece il governo di Abiy sta tuttora facendo rivolgendosi al Sudan, alla Somalia e all’Eritrea.
In oltre dieci anni l’Etiopia non è riuscita a fornire una documentazione minima ad Egitto e Sudan circa l’uso e l’impatto effettivo della GERD, mentre nel frattempo continuava ad alzarne i livelli del bacino con l’acqua del Nilo Azzurro. Tra Il Cairo e Khartum c’è un accordo per lo sfruttamento delle acque del Nilo siglato nel 1959 a revisione del precedente del 1929; e riconosciuto dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) dell’ONU nella sua validità secondo il principio per cui i trattati tra Stati sulle acque equivalgono a quelli sui confini. I tre paesi avrebbero dunque potuto discuterne tra loro, accordandosi con strumenti politici e diplomatici, secondo il principio per cui ogni questione inerente il Corno d’Africa, la Valle del Nilo o i Grandi Laghi dovrebbero essere sempre affrontati unicamente dai paesi che ne sono parte, tra di loro, pacificamente, senza interferenze altrui.
Dopotutto esisterebbero pure apposite autorità intergovernative per farlo: una di queste è l’IGAD (Intergovernmental Authority on Development, che comprende Sudan, Sud Sudan, Etiopia, Eritrea, Somalia, Gibuti, Kenya ed Uganda), che invece in tutta questa situazione è stata lasciata da parte, a recitare il solito ruolo dell’ente fantasma, della tipica famiglia intergovernativa paralizzata da veti e sabotaggi solo apparentemente intestini. E, se proprio non c’era modo di risolvere la questione a livello regionale, allora la si poteva internazionalizzare ma sempre per vie diplomatiche, rivolgendosi alla CIG, la già nominata Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU: lo si fa sempre, per discutere dei confini, degli accessi al mare come ad esempio è avvenuto tra Bolivia e Cile, e per ottenere altri arbitrati politici e territoriali; e per questioni umanitarie, come la denuncia la denuncia sudafricana ad Israele o quella sudanese agli Emirati Arabi Uniti, ecc.
Eppure tutto ciò non è mai avvenuto. Il governo di Abiy ha preferito procedere col suo solito unilateralismo, ben consapevole che in sede di giustizia internazionale, dinanzi alla CIG, le sue pretese non sarebbero mai state accolte; ed ha così preferito continuare a minacciare i vicini, rifiutando loro un dialogo. Non s’è rivolto alla CIG per la questione dell’uso delle acque del Nilo Azzurro con Sudan ed Egitto, fomentando al contrario la tensione militare nei loro confronti; e men che meno l’ha fatto per “ottenere” un accesso al mare dall’Eritrea, nella forma di una cessione territoriale del porto eritreo di Assab che ovviamente nessun giudice della CIG mai approverebbe. Dopotutto le pretese non sono diritti; e nessun tribunale internazionale, men che meno dell’ONU, si sognerebbe mai d’equiparare le une agli altri.
Perché succede questo? Perché questa situazione bloccata? Una parte dei motivi l’ho già brevemente descritta nei paragrafi precedenti, mentre gli altri risiedono nei gravi problemi che l’Etiopia ha al suo interno. Anche di questo ho più volte trattato nei miei ultimi articoli, a beneficio di quanti vogliano approfondire la tematica. Intanto, giusto per fare qualche piccolo aggiornamento, mentre l’inflazione continua a crescere divorandosi il valore del birr, sempre più soldati ed ufficiali s’ammutinano dall’Esercito Federale Etiopico, molti addirittura scappando nella vicina Eritrea. Le popolazioni e spesso persino le autorità degli stati settentrionali etiopici di Tigray, Amhara ed Afar portano avanti con l’Eritrea la politica di fratellanza e buon vicinato, Tsimdo: le loro popolazioni non vogliono obbedire ad un regime intenzionato ad usarle contro Asmara, e far del loro stesso territorio nuova zona di guerra. I popoli della regione vogliono la pace, mentre Abiy li vorrebbe obbligare alla guerra.
Abiy teme un colpo di Stato e per questo nomina sempre nuovi generali: la lista è ormai impressionante. In un discorso tenuto proprio in questi giorni ai nuovi generali, ha rivolto loro una minaccia ricattatoria: di immolarsi per la bandiera, altrimenti saranno annientati. C’è chi argutamente sostiene che per “bandiera”, in realtà, Abiy intenda proprio se stesso: il futuro ce lo dirà. Questi nuovi generali dovrebbero essere dei suoi fedelissimi, in grado di difenderlo dalla rivolta degli Amhara e degli Oromo, che coi loro movimenti FANO e OLA ormai controllano vaste aree del territorio nazionale, anche in prossimità di Addis Abeba: ma tra loro potrebbero annidarsi pure molti dei suoi futuri traditori. 
Tra i tanti nuovi generali ed ufficiali, ve ne sono persino della Marina etiopica, forza appena ricostituita dopo la sua fine per ovvie ragioni nel 1993, quando con l’indipendenza dell’Eritrea l’Etiopia perse ogni sbocco al mare. La promessa di riportare l’Etiopia al mare, secondo Abiy, potrebbe salvarlo dall’impopolarità ed allungargli la permanenza al potere. Già, ma quella flotta militare, intanto, finì sconfitta ed affondata dall’EPLF (Eritrean People’s Liberation Front) con l’Operazione Fenkil del febbraio 1990; ed oggi giace in fondo al mare. Antonio Gramsci diceva: “La storia insegna, ma non ha scolari”. I sogni di Abiy potrebbero presto trasformarsi in un incubo: in un doloroso ripasso di storia, di cui certamente i popoli della regione a differenza sua non hanno e non avevano bisogno.
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LA GRANDE BUGIA - ERITREA ANDATA E RITORNO

18/9/2025

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di Francesca Ronchin

La messa in onda dell’inchiesta La Grande Bugia ha suscitato un ampio dibattito, con la ricezione di numerosi messaggi di apprezzamento, in particolare da parte di eritrei e appartenenti alla diaspora eritrea.

Chiaramente non sono mancate critiche e prese di posizione da parte di alcuni attivisti.

Era prevedibile che accadesse e sarebbe stato strano il contrario.

Critiche riproposte in articoli indirizzati ad alcuni dei principali quotidiani italiani fino ad una interrogazione parlamentare cui RAI ha risposto qui:

https://www.parlamento.it/show-doc?tipodoc=SommComm...

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RISPOSTA RAI - "Con riferimento all'interrogazione in oggetto, sulla base delle informazioni ricevute dalle competenti strutture aziendali, si forniscono i seguenti elementi.

La messa in onda dell'inchiesta ha suscitato un ampio dibattito, con la ricezione di numerosi messaggi di apprezzamento, in particolare da parte di appartenenti alla diaspora eritrea. Contestualmente, non sono mancate critiche e prese di posizione da parte di alcuni attivisti, le cui istanze risultano oggetto di analisi all'interno dell'inchiesta stessa. Pur nella legittimità del dissenso, tali reazioni sono considerate parte di un dibattito utile, poiché il confronto aperto e la ricerca della verità rappresentano i principi ispiratori del lavoro giornalistico svolto.

Scopo dell'inchiesta non è negare i problemi esistenti in Eritrea, ma analizzarli in una cornice più articolata, in particolare dando voce anche a chi, pur essendo fuggito, oggi rientra in patria senza subire ritorsioni. Spunti che invitano a interrogarsi anche su come aiutare concretamente i Paesi africani a superare le proprie difficoltà.

La cosiddetta "Grande bugia" non è quella di chi migra per migliorare le proprie condizioni di vita, bensì quella di un sistema che, in nome dell'umanitarismo, talvolta perpetua narrative strumentali per fini diversi da quelli dichiarati. In tale prospettiva, l'inchiesta invita a una riflessione più ampia su come sostenere realmente i Paesi africani e garantire una narrazione basata su fatti, fonti verificate e pluralismo delle voci.

L'inchiesta è stata realizzata in completa autonomia dalla giornalista Francesca Ronchin, senza alcuna sponsorizzazione o condizionamento da parte di enti pubblici o privati, nazionali o internazionali. Si tratta del risultato di un lungo lavoro di ricerca condotto sul campo, tra Italia, Europa ed Africa, nell'arco di diversi anni.
Il lavoro giornalistico si basa sulla raccolta e presentazione di fatti e non prende avvio da tesi precostituite.

Tra le fonti utilizzate vi è anche la documentazione ufficiale dell'EASO (Agenzia europea per l'asilo, oggi EUAA), che già nel 2016 rilevava come, in base a una direttiva non pubblicata, i cittadini eritrei rientrati nel Paese, dopo averlo lasciato illegalmente, non risultassero generalmente soggetti a persecuzioni qualora avessero regolarizzato i rapporti con le autorità prima del rientro.

Questo dato è stato verificato direttamente dalla giornalista, recatasi in Eritrea con regolare visto giornalistico e documentando la situazione tramite interviste e riprese sul campo. Tali elementi trovano inoltre riscontro in fonti esterne, come testate giornalistiche norvegesi e sentenze della giustizia svizzera (E-5022/2017 Swiss Federal Administrative Court), che confermano l'esistenza di rientri temporanei da parte di rifugiati eritrei senza conseguenze legali.

L'inchiesta dà conto delle principali accuse rivolte al regime eritreo, riportando anche le posizioni degli attivisti di "Eritrea Democratica" e intervistando dissidenti come Tesfamariam Sultan. Quest'ultimo è attivista noto e come tanti altri oppositori e dissidenti politici esprime da tempo pubblicamente e a volto scoperto le sue posizioni. Proprio per questo, ha liberamente deciso di essere intervistato dalla giornalista ben consapevole di essere ripreso tant'è che a ridosso della messa in onda, nel corso di diversi messaggi scambiati con la stessa giornalista, ha più volte ribadito la speranza che la sua posizione risultasse chiara e ben espressa in tutta la sua completezza.

Nell'inchiesta inoltre viene esplicitamente e più volte riconosciuto il contesto autoritario del Paese, le condizioni di vita difficili e l'esistenza di un sistema di leva prolungata.

Quanto all'imprenditore italiano intervistato, occorre precisare che trattasi del titolare di un'azienda che opera in Eritrea da vent'anni ed è subentrata al Cotonificio Barattolo, storica azienda italiana fondata da un altro imprenditore italiano negli anni '50. Rispetto all'attività svolta, il confezionamento dell'abbigliamento non è realizzabile in Italia da decenni per mancanza di disponibilità di manodopera interessata a questo lavoro e rappresenta nel mondo la principale occasione di lavoro dopo l'agricoltura di sussistenza.

Questa azienda italiana è inoltre da sempre impegnata nella realizzazione di un modello d'impresa sostenibile e sociale con welfare aziendale come dimostra la presenza di un asilo interno con 200 bambini, di un centro di formazione e la scelta di utilizzare energia solare. Più di 500 famiglie eritree hanno un lavoro proprio grazie a questa azienda che rappresenta un reale contributo al sostentamento della popolazione locale e allo sviluppo del territorio. Molte delle responsabilità sono affidate a donne e madri, caso esemplare di empowerment femminile.

Va infine detto che l'azienda si confronta abitualmente con il sindacato nazionale eritreo NCEW (National Confederation of Eritrean Workers) al quale l'adesione è libera, e ha un comitato interno denominato JCC per il confronto periodico tra management e lavoratori.

Quanto al sindacato eritreo, il NCEW è partner di diversi progetti dell'UNDP (United Nation Development Program) dell'Unione Europea nonché dei tre principali sindacati italiani

vedi link:

https://www.undp.org/.../fostering-aspiration-new-massawa...;
https://www.eeas.europa.eu/.../women-agribusiness...

L'inchiesta sottolinea come, al di là delle dinamiche politiche, la principale causa delle migrazioni sia tuttavia la povertà strutturale del Paese. Tale condizione è stata aggravata da decenni di conflitti con l'Etiopia e da sanzioni internazionali che, in alcuni casi, si sono rivelate infondate, come riconosciuto nel 2018 dalla stessa amministrazione statunitense.

Si evidenzia inoltre che il tema della povertà non viene quasi mai richiamato nelle dichiarazioni degli attivisti, i quali tendono invece a focalizzarsi unicamente su aspetti politici, tralasciando un'analisi più ampia delle cause dei flussi migratori.

L'inchiesta mette anche in evidenza come, in alcuni casi, individui di origine non eritrea - in particolare dal Tigray etiope - abbiano ottenuto lo status di rifugiati presentandosi come eritrei, ovvero sfruttando la narrazione consolidata di un Paese considerato tra i più repressivi al mondo. Ciò ha avuto conseguenze significative sul sistema di asilo e sull'immaginario pubblico, contribuendo a mantenere una visione semplificata e parziale della realtà eritrea".​

credit Francesca Ronchin
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Un po’ di vera Storia Africana…

15/9/2025

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da L'Antidiplomatico

*Daniel Wedi Korbaria
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Asmara. Quest’ultima fatica di Alemseged Tesfai[1], intitolata An african people’s quest for freedom and justice[2] (Un popolo africano alla ricerca di libertà e giustizia), è una pietra miliare per tutti coloro che si interessano di Eritrea e che vogliono conoscere veramente la sua Storia, raccontata per voce di uno dei suoi migliori scrittori.

Offre una risposta alla fatidica domanda dell'eritreo sceik Ibrahim Sultan[3]rivolta all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite proprio alla vigilia della Federazione dell'Eritrea con l’Etiopia: “Ma perché ci negate il nostro diritto naturale che invece è stato dato alla Libia e alla Somalia?” Inoltre, la sua reperibilità sugli scaffali delle Università anglosassoni, mi auguro presto anche quelle italiane, aiuterà i giovani studiosi a capire le ingiustizie e le malefatte che le Grandi Potenze hanno commesso contro un popolo africano, quello eritreo, già vittima del colonialismo, costringendolo a lottare duramente e a versare il sangue innocente di oltre 100.000 persone per poter trovare quella Libertà e Giustizia negata.

Nella sua voluminosa opera in lingua inglese (536 pagine), con una scrittura accattivante e scorrevole, lo storico eritreo ripercorre cronologicamente tutte le tappe di quegli avvenimenti che dai boicottaggi dell’Amministrazione Militare Britannica (BMA), passando per la farsa della Federazione, condurranno l’ex Colonia primigeniaa diventare la 13ma provincia dell’imperatore Haile Sellassie d’Etiopia.

In seguito ai primi malcontenti della popolazione, il Brigadiere Kennedy-Cooke (nominato Amministratore militare dell'Eritrea) emise un ordine per proibire le manifestazioni o gli incontri non autorizzati di più di tre o quattro persone. Così iniziò il rapporto degli eritrei con gli inglesi che avevano promesso loro di “liberarli”. Infatti, per convincere gli ascari a non combattere a fianco degli italiani, nei loro numerosi bombardamenti aerei effettuati in diverse città e che fecero centinaia di morti tra i civili, fecero piovere dei volantini promettendo che se la popolazione non li avesse ostacolati, avrebbero restituito i terreni in mano ai concessionari italiani e concesso l’Indipendenza. Ma, entrati da vincitori, alla gente che li accoglieva festante dissero: Sorry, non l’abbiamo fatto per voi!

Iniziarono subito lo smantellamento di tutte le installazioni costruite dagli italiani e, come preda bellica, le imbarcarono per vendere il ferro a chili. Ponti, ferrovia, moli, gru galleggianti e decine di grandi navi furono venduti al Pakistan per un valore stimato in centinaia di milioni di dollari. Poi passarono agli impianti industriali che furono chiusi, smantellati e spediti ad altri paesi. “Non lasciarono nemmeno chiodi arrugginiti.” scrive Alemseged, citando un detto eritreo. Da veri barbari non risparmiarono nemmeno la teleferica, la più lunga del mondo e tecnologicamente all’avanguardia. L’Autore cita in proposito il libro della studiosa inglese Sylvia Pankhurst “Why are we destroying Ethiopian Ports? Perché stiamo distruggendo i porti etiopi?” dove la signora accusava il proprio Governo di derubare l’Etiopia (e non l’Eritrea).

Non si trattava certo di un lapsus, perché l’unica proposta della Gran Bretagna sul futuro dell’Eritrea era sempre stata quella della spartizione, ossia l’altipiano eritreo e le regioni costiere regalati all’Etiopia, mentre tutto il bassopiano al Sudan Anglo-Egiziano. In pratica non si accettava l’idea di un’Eritrea come nazione indipendente e il popolo eritreo come unico ed indivisibile, perché entrambi sarebbero stati creati artificiosamente dagli italiani e andavano perciò smembrati su base etnico-religiosa. Difatti, nell’identificare gli eritrei, gli inglesi usavano appellativi quali “nativi”, “indigeni”, “copti” o “mussulmani”. Eppure, secondo l’Autore, già dal 1934 gli italiani avevano iniziato a chiamarli “Eritrei”.

Inoltre si erano convinti che gli eritrei non possedessero la capacità di amministrare se stessi, in quanto gli italiani, in 60 anni di colonialismo, avevano negato loro l’istruzione oltre la quarta elementare. Una grande differenza con i propri sudditi sudanesi che loro avevano invece formato adeguatamente fino a renderli dei buoni quadri amministrativi. Che gli italiani avessero educato gli eritrei per trasformarli in ascari e che quel poco di istruzione concesso serviva soltanto per farsi obbedire era innegabile ma gli inglesi usarono questa colpa per ritorcerla contro gli stessi eritrei. 

Ma poiché la malsana idea di smembrare in due il Paese e il suo popolo non ebbe alcun successo, il brigadiere Stephen Longrigg, nuovo Amministratore Capo dell’Eritrea, annunciò l’abolizione del divieto di organizzazioni politiche e perciò gli eritrei sarebbero stati titolati di discutere sul futuro del proprio Paese. Così il Mahber Ficri Hagher (MFH), ossia l’Associazione Amor Patrio, formatosi appena un mese dopo la vittoria della Gran Bretagna e che riuniva sia i musulmani che i cristiani eritrei allo scopo di difenderne gli interessi, verso la fine del 1945, iniziò ad incrinarsi con le prime controversie appunto tra musulmani e cristiani, a causa soprattutto delle interferenze inglesi ed etiopiche.

Finché, aggiungendo al nome la dicitura: “Eritrea con Etiopia-una sola Etiopia”, venne trasformato nel Partito Unionista. Chi non era d’accordo con questa deriva unionista, fra tutti Ibrahim Sultan e Weldeab Weldemariam, venne estromesso, cosa che provocò la nascita di nuovi partiti ed associazioni. La prima fu Al Rabita al Islamia al Eritrea (Lega Musulmana dell’Eritrea), nata a Cheren ai primi di dicembre 1946, mentre il Movimento politico liberale progressista, attivo fin dal 1944, assunse la nuova denominazione di Partito Liberale Progressista con il motto: Ertra n’Ertrawyan, l’Eritrea agli eritrei.

Il BMA, preoccupato dalla nascita di partiti che ambivano all’Indipendenza, mise in atto ogni possibile divieto per arginarne la diffusione, ostacolandoli in tutti i modi. Per esempio, per poter indebolire la Lega Musulmana, sostenne nel bassopiano occidentale la creazione dell’alter ego, Lega Liberale; mentre nell’altopiano agevolò l’attività del Partito Unionista a discapito del Partito Liberale Progressista. Alemseged cita le parole del brigadiere Longrigg: “coloro che volevano l’unione Eritrea-Etiopia erano dei giovani educati nelle missioni dell’intellighenzia di Asmara, una piccola proporzione di notabili e di capi-villaggi, i sacerdoti copti che favorivano l’Imperatore nella speranza che poi egli, a sua volta, li favorisca.”

Infatti divenne famoso Abune Markos[4], vescovo della chiesa ortodossa Eritrea, che già nel febbraio 1942, riferendosi all’Etiopia, iniziò a predicare ai fedeli di una “Madre che nutre” e negò persino la Santa Comunione, i funerali e i matrimoni a chi non aderiva al Partito Unionista. “Mentre l’idea dell’unione veniva opposta dalla maggior parte dei commercianti e dei notabili, da tutti coloro che valorizzavano il progresso raggiunto dall’Eritrea nell’ultimo mezzo secolo in netto contrasto con le condizioni dell’Etiopia e, ovviamente, anche da tutte le fila dei mussulmani.” Difatti era impensabile per i mussulmani eritrei considerare la sottomissione ad una nazione, quale l’Etiopia, governata con il simbolo della Santa Croce e che apertamente si definiva una Nazione cristiana.
Secondo l’Autore, l’idea dell’unione entrò in Eritrea dall’Etiopia, non nacque in Eritrea, come spesso viene raccontato. Ciò era stato possibile attraverso molti ufficiali del governo etiope di origini eritree che usarono le loro posizioni di privilegio per adescare altri eritrei in Eritrea. Nel raccontare dettagliatamente questi avvenimenti, l’Autore, nella sua prefazione, precisa: “Sono stato fortunato di aver incontrato alcune delle più prominenti personalità di entrambi gli schieramenti e di aver avuto accesso a documenti, articoli di giornali, corrispondenze e fonti simili che mi hanno aiutato ad identificare la grande questione.” Infatti, nel libro sono riportate molte citazioni, centinaia di fonti e qualche interessantissima intervista.

L’aggravarsi della situazione economica della ex Colonia, favorì nel 1943 la nascita di numerosi gruppi shifta (i banditi armati). Quell’anno furono registrate alle stazioni di polizia in tutto il Paese 108 casi di rapina con alcuni omicidi. Negli anni successivi i morti aumentarono e gran parte delle vittime erano italiani che avevano qualche attività imprenditoria, soprattutto le concessioni agricole. Ne parla dettagliatamente Eros Chiasserini nel suo libro intitolato: “Gli anni difficili”.[5] Ma quelli erano anni difficili soprattutto per gli eritrei. Per esempio, il 16 agosto 1946 per le vie di Asmara ci fu il massacro di 40 eritrei cristiani ad opera di soldati sudanesi, importati in Eritrea dagli stessi inglesi. Durante i funerali, il vescovo Abune Markos si rivolse direttamente al nuovo Capo amministrativo, Benoy, dicendo: “Né gli italiani né gli inglesi, ai quali avevamo creduto, ci aiutarono. Quindi dobbiamo tornare alla nostra Madre Etiopia che riceverà i suoi figli eritrei a braccia aperte!”

A peggiorare la situazione era nata l’ala estremista del Partito Unionista, denominata Andinet, che nella lingua del Negus significava appunto “unione”, infiltrata da elementi etiopici, la quale subito si recò a manifestare davanti alla sede del BMA, chiedendo l’immediata unione con l’Etiopia. Un’altra simile manifestazione nel centro di Asmara finì in atti di violenza con i manifestanti che derubarono i negozi dei mussulmani e poi gli dettero fuoco. I soldati sudanesi uccisero qualche dimostrante per fermare la rivolta. Successivamente il BMA impose il coprifuoco e proibì le manifestazioni.

Le prime azioni terroristiche di Andinet, di chiaro stampo politico, iniziarono però a metà del 1947, quando vittimizzarono sia i rappresentanti cristiani del Partito Liberale Progressista che i mussulmani della Lega Musulmana. La sera del 27 marzo 1949 spararono diversi colpi contro Abdelkader Kebire[6], leader della Lega Musulmana, che morì due giorni dopo. In seguito a questo fatto, Andinet venne dichiarato gruppo terrorista e i suoi uffici furono chiusi. Il 16 maggio 1950, davanti alla sua abitazione, venne ucciso da una scarica di pallottole uno dei leader del Partito Liberale Progressista[7], il quale aveva accusato l’Etiopia di sponsorizzare il terrorismo dei shifta. Un mese più tardi, sarà il turno di un altro rappresentante della Lega Mussulmana, mentre il 20 luglio fu assassinato Vittorio Longhi, leader del Partito Pro-Italia[8], aderente al Blocco Eritreo per l’Indipendenza.

In quegli anni ci sono state diverse iniziative diplomatiche internazionali per decidere le sorti della ex Colonia, come la Conferenza di Londra o quella di Parigi, dove l’Etiopia ebbe l’onore di presenziare a fianco delle quattro potenze vincitrici (Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia e Gran Bretagna), quale paese vincitore sul Fascismo. Così, il 12 novembre 1947, giunse in Asmara la Commissione Quadripartita d’Inchiesta con il compito di sondare le aspettative della popolazione circa il futuro assetto politico ed economico del Paese.

Nelle zone controllate dal Partito Unionista, gli incontri della Commissione con il pubblico erano accompagnati da pomposi cortei, processioni religiose e da balli. Negli incontri organizzati dalla Lega Mussulmana, dal Partito Progressista Liberale o dal Partito Pro-Italia, invece, i giovani di Andinet, con l’intento di influenzare il giudizio finale della Commissione, al grido di “Etiopia o morte!”, impedivano ai sostenitori di raggiungere i siti o, peggio, interrompevano l’evento a sassate. Durante quel drammatico periodo si verificarono numerosi incidenti a Teraemnì, Adi Ugri, Cheren, Agordat e Decameré.

Dopo un anno di incertezze, si decise di delegare la “questione Eritrea” alle Nazioni Unite che, a loro volta, inviarono un’altra Commissione d’Inchiesta composta da cinque membri: Pakistan, Guatemala, Burma, Sud Africa e Norvegia. Anche stavolta scoppiarono dei sanguinosi disordini tra cristiani e mussulmani, ossia tra i giovani di Andinet e quelli di Shuban, giovani mussulmani nati per contrastare la prepotenza dei primi. Negli scontri armati morirono una cinquantina di persone e un centinaio furono feriti.

Nel frattempo era fallito anche il compromesso Bevin-Sforza[9] per la spartizione dell'Eritrea. Il Ministro degli Esteri italiano, in cambio dell’Amministrazione Fiduciaria affidata all’Italia sia della Tripolitania che della Somalia, accettò che l’Eritrea, già divisa in due, fosse unita all’Etiopia ma con la garanzia di sicurezza per gli italiani lì residenti. Dopo tutte le guerre degli italiani (vedi in Etiopia, Libia e Somalia) in cui gli ascari eritrei avevano combattuto e dato la vita, indimenticabili i mutilati della guerra di Adua, l’Italia tradì proprio quelle decine di migliaia di suoi morti per consegnare l’ex Colonia Primigenia al nemico di sempre: l’Etiopia, cioè quella di Ras Alula e di Menelik. Infatti Haile Sellassie aveva subito favorevolmente accolto il compromesso pensando di impossessarsi intanto dell’altipiano e delle coste sul Mar Rosso e, successivamente, di lottare per avere il resto. Era famosa una sua frase in proposito: “Più degli eritrei mi interessa la loro terra!”

L’Imperatore etiope, che conobbe ben quattro Presidenti americani, nel novembre 1949 promise loro, qualora sostenessero l’assegnazione dell’Eritrea all’Etiopia, che avrebbe favorito la continuazione dell’affitto della base americana Radio Marina per tempo indefinito, così come l’utilizzo gratuito dell’aeroporto di Asmara e del porto di Massaua. L’attività statunitense di spionaggio era iniziata nell’aprile 1943 quando sette esperti di comunicazioni arrivarono all’ex base navale italiana per tirare su un’antenna e collegarsi con Washington. A ciò era seguito la creazione di Kagnew Station che dal 1950 divenne il più grande centro comunicazioni USA, con le sue antenne rivolte a tutto il Medio Oriente, Unione Sovietica ed Estremo Oriente.

La loro idea era quella di trasformare l’Eritrea in un “arsenale americano di democrazia in Africa”. Perciò, allettati dall’offerta di Haile Sellassie, cambiarono idea: da ché inizialmente erano favorevoli ad una decennale Amministrazione Fiduciaria affidata alle quattro potenze, poi sfociata in favore dell’Indipendenza, di nuovo favorevoli all’amministrazione temporanea dell’Italia, alla fine approdarono alla proposta del Segretario di Stato John Foster Dulles: “Gli interessi strategici degli Stati Uniti nel bacino del Mar Rosso e la pace nel mondo rendono necessario che l’Eritrea debba essere unita con il nostro alleato Etiopia.”[10]

“Il nostro paese non è mai stato soggetto all’Etiopia nemmeno in tempi antichi. Al contrario, gli eritrei erano costretti in molte occasioni a subire o a respingere i tentativi d’invasione degli etiopici con l’intento di razzie e saccheggi. (…) Il nostro Paese era composto da piccoli principati finché non venne occupato dagli Abbasidi e più tardi dagli ottomani, poi dagli egiziani ai quali subentrarono gli italiani.” disse Ibrahim Sultan all’Assemblea Generale, dove era riuscito a presentarsi nonostante i deplorevoli tentativi inglesi di negargli il visto per gli Stati Uniti. Memorabile fu anche il resto del suo discorso, che rimase però inascoltato poiché oramai il dado era stato già tratto.

Con la Risoluzione ONU 390-A(V) 38 nazioni, inclusa l’Etiopia, sostennero il piano USA di federazione. Tutti i paesi europei, esclusa la Svezia che si astenne, e i paesi del Commonwealth votarono a favore della proposta, convinti che “l’Eritrea non può sopravvivere politicamente ed economicamente, e che senza l’Etiopia non avrebbe avuto alcuna vita propria”; mentre il Pakistan, l’Arabia Saudita, la Siria, l’Iraq, l’Unione Sovietica e i suoi alleati dell’Est Europa votarono contro il piano americano. Così, il 2 dicembre 1950 l’Assemblea Generale chiuse la “questione Eritrea” con 46 paesi a favore, 10 contrari e 4 astenuti, approvando a maggioranza l’atto Federale che costringeva l’Eritrea a “costituire un’unità autonoma federata con Etiopia sotto la sovranità della Corona etiope”.

“Un grande tradimento, la più grande parodia sulla giustizia delle grandi potenze contro una piccola nazione. Senza la consapevolezza del popolo, senza essere stato consultato, mentre in buona fede aspettava equità, glielo è stato fatto subire con coercizione, manipolazione e tradimento.” commenterà con rammarico l’indipendentista Weldeab Weldemariam[11].

La Costituzione della Federazione venne scritta dal boliviano Anze Matienzo, Rappresentante dell’ONU, che giunse in Asmara il 9 febbraio 1951. Alla fine di marzo vennero eletti i membri dell’Assemblea Rappresentativa Eritrea e la Costituzione venne approvata ad unanimità il 10 luglio. Il giorno seguente venne ratificata anche dal governo di Addis Abeba. Il 28 agosto Tedla Bairu assunse l’incarico di primo capo di governo dell’Eritrea.

Il 15 settembre 1952, la bandiera britannica venne ammainata e sostituita dal tricolore etiopico. L’indomani, dopo oltre 11 anni e mezzo di permanenza, gli inglesi lasciarono l’Eritrea senza suscitare alcun rimpianto. “Gli inglesi lasciarono Asmara come sono arrivati, furtivamente. Era come se sperassero di cancellare l’Eritrea dalla loro memoria collettiva.” scrive Alemseged accreditando loro di aver formato le forze di polizia eritree dopo lo smantellamento dei Carabinieri e dei loro Zaptiè, di aver introdotto dei giornali locali e la libertà di stampa, di aver creato lo spazio per dibattiti politici e l’organizzazione dei partiti ma soprattutto di aver riformato l’Istruzione per i nativi che dalla quarta elementare venne estesa fino alle superiori.

In breve tempo le esclusive ville italiane di Asmara furono date agli ufficiali federali etiopici provenienti da Addis Abeba. Così anche una trentina di abitazioni del genere erano state destinate agli ufficiali dell’esercito che con le proprie truppe si accamparono negli ex campi italiani di Gaggiret e Villaggio Genio. Le strade, la ferrovia, i porti e gli aeroporti, con tutti i beni mobili ed immobili, quali attrezzature e terreni ad essi attribuiti, passarono sotto la gestione di Addis Abeba. Così come l’amministrazione doganale e tutta l’economia dell’Eritrea.

Nell’ottobre 1952, il giorno in cui l’Imperatore sconfinò ed entrò per la prima volta in Eritrea, si rifiutò di baciare la Croce che il famoso unionista vescovo Abune Markos gli porgeva e non solo, di lì a poco quest’ultimo sarà rimpiazzato dal patriarca etiope Abune Basilios. Usare gli eritrei finché gli servivano per poi sostituirli con veri etiopici sarà una costante imperiale nei dieci anni di Federazione.

Nel 1953, il Presidente dell’Assemblea Tedla Bairu, incontrastato protagonista del Partito Unionista, bandì il Sindacato dei Lavoratori, reo di aver organizzato una manifestazione pacifica assalita dai proiettili della polizia. In quell’occasione ci furono decine di morti e di feriti. A ciò seguirà la protesta degli insegnanti, anch’essa finita male. Dopo che al fondatore ed ex presidente del Sindacato, Weldeab Weldemariam, venne negato l’ingresso nell’Assemblea, nonostante fosse stato democraticamente eletto, questi, già vittima di una decina di attentati con pistole e granate ai quali era sopravvissuto miracolosamente, nell’agosto 1953 decise di andare in esilio prima in Sudan, poi in Egitto. Da lì condusse “Radio Cairo”, un programma radiofonico in lingua tigrigna per sensibilizzare i giovani eritrei in Patria. Preoccupato del suo successo, Haile Sellassie convinse il Presidente egiziano Abdel Nasser a chiudere il programma, cosa che avvenne agli inizi del 1957.

In Eritrea farà la stessa fine anche il quotidiano Dehai (ex Hanti Eritra). Nel frattempo, già dall’inizio del 1954, la lingua amarica venne introdotta come materia d’obbligo in tutte le scuole eritree, dalla quarta elementare in su, successivamente diventerà la lingua ufficiale, a discapito dell’arabo e del tigrigna. Poiché nelle provincie occidentali aumentavano le attività dei shifta, con la scusa dell’emergenza, il governo di Addis Abeba mandò ad Asmara la 2° Divisione dell’Esercito e altri grandi reggimenti si accamparono ad Akordat e Tessenei. Oramai tutta l’Eritrea era militarmente occupata. In seguito alla manifestazione dei portuali eritrei del 1954, Haile Sellassie decise di sostituirli con i Guraghe etiopici, in questo modo la città portuale di Assab cadde totalmente nelle mani etiopiche.

A metà del 1957 ci furono anche le manifestazioni degli studenti seguite dagli scioperi dei lavoratori del 1958, quest’ultima finita con una brutale soppressione e un numero imprecisato di morti e feriti e l’istituzione dello stato di polizia. Questi terribili fatti portarono alla nascita, in Port Sudan, del Movimento di Liberazione Eritreo intrapresa da 17 giovani eritrei.

Nel 1958 Tedla Bairu venne costretto dall’Imperatore alle dimissioni, gli successe Asfaha Weldemikael, ex interprete degli italiani, che Haile Sellassie definiva “un etiope di origini eritree”, il quale gli avrebbe servito sul piatto d’argento la tanto agognata annessione. Infatti al decimo anniversario della Federazione, un anno prima delle consultazioni popolari sul futuro dell’Eritrea già decise dalle Nazioni Unite, in occasione della visita ad Asmara dell’Imperatore in compagnia del Presidente della Guinea Sekou Tourè, Asfaha gli disse: “L’Assemblea è risoluta, permetteteci di terminare la Federazione!” ma poiché il suo Ministro degli Esteri lo sconsigliò dicendo: “Se la Federazione verrà abrogata mentre siete in Asmara, apparirà come se lo aveste imposto.

E questo vi esporrà alle critiche internazionali
”; la richiesta venne respinta. Pochi giorni dopo, al 34° Battaglione etiopico fu ordinato di entrare in Asmara e di circondare il Palazzo dell’Assemblea. “La tensione ad Asmara si tagliava con il coltello, pattuglie militari a bordo di jeep, armate di tutto punto, percorrevano lentamente le strade del centro. Si comportavano come se avessero conquistato una città nemica. Angolo dopo angolo e metro dopo metro, ovunque stanziavano agenti di polizia con elmetto e armi in pugno. Soprattutto nelle strade attorno al Palazzo dell'Assemblea. L'atmosfera non era di quelle aperte alla gioia.” scriverà[12] Enrico Mania, giornalista del Quotidiano Eritreo, unico giornalista presente all’evento.

Asfaha Weldemikael, senza alcuna votazione, proclamò finita la Federazione e tutti i presenti furono costretti ad applaudire sorvegliati dai soldati entrati nel Palazzo. Quel mattino del 14 novembre 1962 la Federazione venne abrogata per acclamazione e l’Eritrea venne annessa come 13ma provincia dell’Etiopia. Alle Nazioni Unite nessuno ebbe da obbiettare.

Con la prima fucilata contro una stazione di polizia sparata per mano di Idris Hamid Awate, un ex ascaro, il 1° settembre 1961 era di fatto iniziata la lotta armata per la Liberazione dell’Eritrea. Eppure, nel novembre 1949, Ibrahim Sultan aveva avvisato l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che negare i legittimi diritti all’indipendenza dell’Eritrea avrebbe messo in pericolo la pace e la sicurezza della regione. E così è stato. Ci vorranno trent’anni di sanguinosa guerra per conquistare la Liberazione e l’Indipendenza.

L’opera di Alemseged Tesfai, oltre a farmi scoprire troppe cose che ignoravo di quel nefasto periodo (1941-1962), mi ha suscitato molta rabbia, che non sapevo di nascondere dentro di me, verso tutti quegli eritrei che vendettero la loro Patria all’imperatore Haile Sellassie illudendosi di ottenere la sua eterna gratitudine ma che, giustamente, furono invece spazzati via lontani dal suo entourage. Quei traditori condannarono, marchiando con le loro insanguinate mani, un intero popolo: donne, bambini e anziani compresi. Costoro non avranno mai spazio nel cuore degli eritrei, mentre Weldeab Weldemariam e Ibrahim Sultan, entrambi costretti dall’Imperatore all’esilio, proprio per le loro instancabili battaglie a favore di un’Eritrea indipendente, sono oggi ricordati come i Padri della Patria, assieme al primo martire Abdelkader Kebire. Il primo ritornò nell’Eritrea liberata, dove morì nel 1995, il secondo invece morì al Cairo nel 1887, quattro anni prima della Liberazione.

Come disse Suleiman Ahmed Omar[13]: “Quando l’Eritrea sarà liberata vieni alla mia tomba per sussurrarmelo”, così mi piace pensare che sceik Ibrahim Sultan, Abdelkader Kebire ed altri combattenti eritrei che hanno sacrificato la loro vita per la Causa abbiano sentito quel sussurro dell’Indipendenza Eritrea, riconosciuta dalle Nazioni Unite nel 1993, dopo un referendum, questa volta realmente plebiscitario.

*Daniel Wedi Korbaria, scrittore eritreo e panafricanista, è nato ad Asmara nel 1970 e vive e lavora in Italia dal 1995. Con i suoi libri, articoli e saggi pubblicati online e tradotti in inglese, francese, tedesco e norvegese si è battuto per offrire una voce alternativa ai racconti dei media mainstream italiani ed europei sull'immigrazione e il neo colonialismo. Nel 2019 ha pubblicato il suo primo romanzo "Mother Eritrea" e nel 2022 il saggio d'inchiesta "Inferno Immigrazione". Di prossima pubblicazione (2026) il suo romanzo sul colonialismo italiano in Eritrea.

[1] Alemseged Tesfai è nato nel 1944 ad Adi Quala (Eritrea), è un avvocato, drammaturgo e storico che ha scritto diversi libri di storia in lingua tigrigna ed inglese.

[2] An African People’s Quest for Freedom and Justice. A political History of Eritrea 1941-1962 pubblicato da C. Hurst & Co. (Publishers) Ltd. www.hurstpublishers.com

[3] Ex capotreno presso le Ferrovie Eritree (1922-26), impiegato alla Camera di Commercio dell'Eritrea (fino a novembre 1946), fu uno dei fondatori e leader del partito Lega Musulmana dell’Eritrea.

[4] Abune Markos era stato nominato vescovo della diocesi Eritrea-Tigray da Rodolfo Graziani dopo l’occupazione italiana dell’Etiopia. Con la disfatta italiana per il timore di essere perseguito come collaboratore dei fascisti divenne uno dei primi accaniti sostenitori dell’Unione con l’Etiopia.

[5] Eritrea 1941-1951 Gli anni difficili

[6] Fu tra i fondatori del Mahber Ficri Hagher e della Lega Musulmana dell'Eritrea. Abdelkader Kebire è ricordato oggi come il primo martire della lotta per la Liberazione dell’Eritrea.

[7] Berhe Gebrekidan è considerato il secondo martire della lotta di Liberazione.

[8] Il Partito Eritrea pro-Italia vide la luce il 29 settembre del 1947 e raccolse centinaia di migliaia di iscritti.

[9] Ministro degli Esteri inglese Ernest Bevin e suo omologo italiano conte Carlo Sforza

[10] L’Autore non cita le parole di John Foster Dulles che le considera una sorta di storia orale.

[11] Ex insegnante presso le scuole della Missione Svedese, giornalista (fondatore e direttore del quotidiano “Hanti Ertra”), esponente politico del Fronte Democrat Eritreo.

[12] Non solo cronaca dell’Acrocorò - Enrico Mania

[13] Membro del Consiglio Superiore delIa Lega Mussulmana, nel 1949 a Lake Success assistette ai lavori delIa III. Sessione dell'Assemblea Generale delI'ONU sul futuro assetto dell’Eritrea.

​credit L'Antidiplomatico

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9 Settembre, l’Etiopia inaugura la GERD: motore di sviluppo, ma oggi anche di conflitto

9/9/2025

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Martedì 9 Settembre l'Etiopia celebra l'inaugurazione della GERD, la diga più grande di tutto il Continente Africano. Potrebbe essere un grande motore di sviluppo e di integrazione regionale, ma il difficile contesto geopolitico regionale al momento la rende soprattutto la "diga della discordia". 
Di Filippo Bovo
8 Settembre 2025

Martedì 9 Settembre viene inaugurata la GERD, la Grand Ethiopian Renaissance Dam. Alimentata dalle acque del Nilo Azzurro e situata a breve distanza dal confine sudanese, dal 2011 la sua costruzione ha generato infinite polemiche tra Etiopia, Sudan ed Egitto, con pesanti ripercussioni anche sugli altri attori regionali. Con una capacità di 6.450 MW ed un costo di 5 miliardi di dollari, appare oggi la più grande infrastruttura di questo genere in tutto il Continente Africano, sopravanzando in netta misura le dighe di Assuan in Egitto, di Merowe in Sudan o di Gilgel Gibe III, sempre in Etiopia.

Già quest’ultima, costruita sul fiume Omo, ha fornito all’Etiopia un raddoppio nella produzione energetica rispetto ai livelli precedenti; la GERD, a sua volta, ne consentirà un ulteriore, dando così ad un Paese con ormai più di 120 milioni di abitanti maggiori garanzie per la propria sicurezza energetica. Con la GERD, infatti, Addis Abeba punta a migliorare in patria l’accesso all’energia elettrica, oggi stimato poco sopra il 50%, a ridurre l’importazione di combustibili fossili, con relativi benefici nel contenimento del passivo commerciale, ed ancor più a divenire aun 
hub energetico regionale, rendendo l’energia elettrica una voce sempre più importante delle sue esportazioni. Tutto ciò esprime l’idea di un progetto di ampio respiro, che pur a costo di gravi sacrifici potrà dare infine degli importanti vantaggi per lo sviluppo nazionale.

Proprio qui, però, sorgono i principali problemi. L’Egitto e il Sudan dipendono per oltre il 90% dalle acque del Nilo per la produzione di energia elettrica e le attività agricole, senza considerare il fabbisogno idrico della popolazione, in entrambi i casi stanziata in prevalenza proprio lungo le rive del Grande Fiume. I negoziati trilaterali, guidati dall’Unione Africana, in tutti questi anni non hanno sortito grandi risultati, e così pure quelli tentati da altri loro importanti alleati comuni, dalla Cina alla Russia. Ad oggi, l’uso delle acque del Nilo è regolamentato dall’accordo firmato tra Egitto e Sudan nel 1959, revisione di quello coloniale del 1929, con una suddivisione rispettivamente in 55,5 e 18,5 milioni metri cubi in base al ciclo delle piene.

Tale accordo è rafforzato da una sentenza arbitrale della Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU del 1989, che ha sancito per gli accordi idrici la stessa immutabilità di quelli sui confini. L’Etiopia, ritenendosi però estranea ad un accordo che non ha firmato, e svincolata a causa delle fallite mediazioni da intese comuni sull’operatività della GERD, dal 2020 ha proceduto unilateralmente a colmarne il bacino. Ciò ha scatenato nuove tensioni col Cairo, portandola senza successo a sollecitare l’intervento del Consiglio di Sicurezza ONU.


Lo scontro geopolitico sull’uso delle acque del Nilo va ad intrecciarsi anche con altre partite regionali; nella guerra civile in Sudan, ad esempio, l’Etiopia sostiene le RSF (
Rapid Support Forces) del Generale Mohamed Dagalo Hemeti, mentre l’Egitto è al fianco del Governo nazionale sudanese, guidato dal Capo del Consiglio Sovrano di Transizione, Generale Abdel Fattah Burhan. Tra le ragioni del conflitto in Sudan, non solo il controllo delle acque, che Addis Abeba punta indirettamente ad ottenere con l’indebolimento dell’unità statale di Khartum e promuovendo una salita al potere dell’alleato Hemeti; ma anche l’accesso al mare, come attestato dai lunghi tentativi delle RSF di conquistare Port Sudan e le aree più prossime al confine etiopico.

Sempre per l’accesso al mare, l’Etiopia ha alimentato forti tensioni con la vicina Eritrea, soprattutto per il porto di Assab, e con la Somalia, ventilando nel 2024 con uno specifico memorandum un riconoscimento del separatista stato del Somaliland in cambio di una concessione da parte di quest’ultimo di una base portuale e militare sul Golfo di Aden.

Dietro questi obiettivi, che vanno ben oltre una semplice volontà di perseguire e salvaguardare l’interesse e la sovranità nazionali, s’intrecciano le mire di due importanti alleati di Addis Abeba come gli Emirati Arabi Uniti ed Israele, desiderosi di espandere la loro influenza nel Corno d’Africa e nel Mar Rosso. Israele punta a stabilire propri presidi navali e militari sulle coste, così da controllare maggiormente i paesi arabi del Golfo, le rotte del Mar Rocco e del Golfo di Aden e stringere nella morsa gli Houthi yemeniti; gli Emirati a rafforzare il loro peso nell’area e contenere quello della rivale Riyad finanziando questi progetti e realizzandone altri di analoghi ad uso proprio.

La triangolazione strategica tra Etiopia, Israele ed Emirati ha portato lo scorso anno alla nascita di un’altra alleanza, tra Egitto, Eritrea e Somalia, e anche ad un più deciso impegno della Turchia a Mogadiscio, decisa a non veder sfumare anni di sforzi ed investimenti nella ricostituzione della statualità somala. In particolare Ankara ha fortemente mediato tra Addis Abeba e Mogadiscio per un superamento del MoU tra Etiopia e Somaliland, risultato infine ottenuto. In tutto questo tempo, Turchia ed Egitto hanno pure raddoppiato la loro presenza militare a Mogadiscio.

Le tensioni intorno alla diga, in un quadro del genere, non possono che salire quanto il livello del suo bacino. Scontando continue e sotterranee ingerenze da altri paesi come Israele, gli Emirati o ancora gli Stati Uniti, che hanno agito da mediatori interessati ed incendiari, in tutti questi anni i paesi della Valle del Nilo non sono riusciti a raggiungere con mezzi politici un comune punto di vista sull’uso delle acque del Grande Fiume. Di conseguenza, le probabilità di nuovi scontri militari, diretti ed indiretti, non appaiono del tutto peregrine. Per difendere la GERD, nel timore di un attacco aereo egiziano, Addis Abeba ha posto nuovi sistemi antiaerei Pantsir-S1, acquistati dalla Russia con forti rimostranze del Cairo con Mosca che, in cambio, ha provveduto a vendere all’Egitto nuovi caccia Su-35.

Anche altri sistemi di difesa entrati nell’arsenale di Addis Abeba, come lo SPYDER-MR acquistato da Israele, hanno sollevato preoccupazioni al Cairo, con un suo infruttuoso tentativo di bloccarne la compravendita. L’Etiopia giustifica la sua crescente militarizzazione con l’eventualità di attacchi, oltre che dal Cairo, anche da Khartum, con cui le relazioni comprensibilmente non sono delle migliori e che, nel caso di uno scontro di Addis Abeba con l’alleanza tra Egitto, Eritrea e Somalia, si schiererebbe con quest’ultimi.

Tuttavia, esistono anche altre motivazioni più recondite, legate al fronte interno. Il governo di Addis Abeba, guidato dal Prosperity Party di Abiy Ahmed, sconta una sempre più grave crisi di consensi, con l’insorgere di numerose ribellioni interne, dai combattenti Amhara del FANO a quelli Oromo dell’OLA. Interi reparti dell’esercito federale etiopico, spesso muniti di armamento pesante, si arrendono agli insorti, soprattutto del FANO, dotati di sole armi leggere, non di rado passando poi pure dalla loro parte; a riprova che neppure le migliori tecnologie militari possono compensare, in un esercito, la demoralizzazione e la mancanza di consenso politico.

E’ la crisi economica a logorare il consenso per il governo: l’inflazione, stimata ben sopra il dato ufficiale 13,7%, erode il potere d’acquisto; il valore del 
birr, al cambio ufficiale quotato a 142 per 1 dollaro, al mercato nero vale assai meno; mentre il debito pubblico, sempre più nelle mani del FMI, risulta ormai ampiamente sopra i 30 miliardi di dollari dichiarati. Tali dati esprimono l’idea di un governo che da una parte cerca di scaricare verso l’esterno le crescenti contraddizioni interne e dall’altra si rinchiude nei palazzi, temendo il confronto con una popolazione divisa sì da forti conflittualità intestine, ma anche sempre più unita dal preoccupante desiderio di cambiare politicamente pagina. La crescente militarizzazione di Addis Abeba si spiega quindi anche con un uso interno, sebbene al momento non paia sortire risultati davvero efficaci.

Dati economici tanto opachi forniscono dubbi anche su come la GERD, in tutti questi anni, sia stata realmente finanziata. Secondo il governo, i costi dell’opera sarebbero stati coperti con risorse interne, ad esempio obbligando i dipendenti pubblici a contribuire con parte dei loro salari, vendendo obbligazioni ai cittadini e ricorrendo ad altre risorse governative; intuibilmente tali misure, in un paese dal reddito pro capite di 1.200 dollari, hanno suscitato più di una critica. Oltre alle fonti interne, per coprire parte del finanziamento Addis Abeba ha fatto ricorso anche ad una sottoscrizione tra i cittadini della Diaspora etiopica all’estero; ma in ogni caso per ultimare i pagamenti al gruppo di imprese guidato da WeBuild (già Salini Impregilo) molti capitali hanno continuato ancora a mancare all’appello.

A luglio il premier Abiy Ahmed, in visita a Roma, ha chiesto a Giorgia Meloni di usare una parte dei fondi del Piano Mattei per coprire l’ultima rata della GERD, di fatto chiedendo all’Italia di pagarsi da sola; comprensibilmente scontrandosi col rifiuto italiano. Poco dopo, il Presidente Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti avevano provveduto a coprire il pagamento, trovando però la smentita etiopica. Ad ogni modo, per concludere con la lista dei finanziatori, altri 1,8 miliardi sono stati forniti anche dalla Cina, soprattutto per la realizzazione di opere collaterali alla diga, come la rete di trasmissione elettrica con le città etiopiche e potenzialmente i paesi vicini, attraverso crediti erogati dalla 
Export-Import Bank of China (Exim Bank).

Come già dicevamo, la GERD è indubbiamente un progetto di ampio respiro, suscettibile di divenire un grande motore di sviluppo per l’Etiopia: come certe immense opere idrauliche dell’antichità, costruite col sudore e la vita di generazioni, anch’essa ha avuto un forte costo umano, stimato nella vita di almeno 15.000 etiopici. Ma è frutto anche di decisioni unilaterali, che non hanno tenuto conto degli equilibri geopolitici in tutta la regione, e che oggi sempre col medesimo unilateralismo vengono portate avanti.

​La sua inaugurazione segna certamente un traguardo storico per l’Etiopia, e in generale per tutto il Continente Africano. Ma al contempo assegna all’Etiopia anche un nuovo e storico dovere: quello di far sì che questo suo nuovo motore di sviluppo diventi anche motore di cooperazione ed integrazione regionale, anziché di tensione e di conflitto.

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Celebrazione a Roma dell'inizio della Lotta Armata in Eritrea

6/9/2025

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Il Mar Rosso non è un "Diritto di nascita"

4/9/2025

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In Etiopia, alcuni credono ancora che l'ambizione possa ridisegnare le mappe. Basta sventolare una statistica demografica, citare antichi imperi e, all'improvviso, il Mar Rosso diventa un "diritto di nascita". La stessa stanca fantasia è riemersa: che l'#Etiopia in qualche modo "meriti" l'accesso al mare, che l'assenza di sbocchi sul mare sia un'ingiustizia storica, che una linea costiera sia un "imperativo strategico" da negoziare. Questa non è politica estera.

​È un pio desiderio cartografico mascherato da strategia... l'ambizione che sostituisce la legge e la nostalgia che sostituisce la diplomazia. La popolazione, le ambizioni o la crescita economica dell'Etiopia non prevalgono sull'indipendenza conquistata a fatica dall'#Eritrea.

Purtroppo, ancora una volta, si sentono i leader militari dell'#Etiopia riecheggiare il linguaggio dell'impero: "Ne abbiamo bisogno, quindi è nostro". Questa non è strategia; è un'illusione in uniforme, una pericolosa nostalgia riconfezionata come logica geopolitica. Alcuni di questi leader si comportano come se la vicinanza equivalesse a un diritto: pubblicano una statistica demografica, pubblicano un comunicato stampa e all'improvviso il mare diventa "vostro".

Il Primo Ministro etiope continua a lanciare pericolose provocazioni. Prima ha affermato di aver "risolto" un problema secolare con la costruzione di una diga. Ora, apparentemente rincuorato, crede di poter risolvere la "questione" del Mar Rosso con la stessa arroganza, trattando la sovranità e il diritto internazionale come se fossero semplici problemi ingegneristici da riprogettare a piacimento.

La geografia non è destino. Non importa quanti comunicati stampa i leader dell'Etiopia pubblichino o quante statistiche demografiche pubblichino, il mare non diventa magicamente loro. Se la sola vicinanza dettasse un diritto, l'Europa sarebbe ancora un grande tour di riunificazione, con confini costantemente ridisegnati a seconda del capriccio del vicino più grande o più audace.

Alcune élite etiopi sembrano agire secondo la stessa fantasia. Si vantano di "3.000 anni di civiltà", ma sembrano non aver colto il memorandum sul diritto internazionale, l'Unione Africana e le Carte delle Nazioni Unite, e la sacralità dei confini. A quanto pare, nel loro mondo, la storia garantisce automaticamente un "destino manifesto", perché chi ha bisogno di trattati quando si hanno ambizione e una bella storia?

Negli ultimi 70 anni, questa ossessione per uno "sbocco sul mare" ha alimentato molteplici conflitti, guerre su vasta scala, scaramucce di confine e scontri militari, provocando decine di migliaia di morti, innumerevoli feriti o mutilati e generazioni segnate dalla violenza. Famiglie sono state sradicate, comunità distrutte e le economie di entrambe le nazioni destabilizzate, poiché le risorse sono state dirottate verso la guerra anziché verso lo sviluppo. Le infrastrutture sono crollate sotto ripetuti attacchi, il commercio e l'industria hanno sofferto e la coesione sociale si è logorata.

Ciò che è iniziato come un'ossessione strategica di un imperatore è diventato un trauma nazionale costoso e ricorrente, eppure la ricerca persiste, alimentando miti che vanno a discapito della gente comune, che continua a sopportare il peso di ambizioni che non possono essere realizzate senza calpestare la sovranità. Anche la regione ha già pagato per questo sogno irrealizzabile... e lo stesso mito viene ora rigurgitato dagli attuali governanti: che la prosperità si trovi appena oltre il confine di qualcun altro. Nessun cittadino del Corno d'Africa deve pagare il prezzo di tali fantasie che si spingono più lontano, verso il mare.

È ora di smetterla con la retorica secondo cui il mare è un "diritto geografico" dell'Etiopia, come se le mappe prevalessero sul diritto internazionale. Essere vicino al Mar Rosso o avere una popolazione maggiore di quella degli stati confinanti non garantisce la proprietà. La prossimità non è un diritto, e la sovranità non è una gara di popolarità. Eritrea, Gibuti e Somalia non sono "coste di riserva" in attesa di essere riassegnate.

Essere senza sbocchi sul mare è una sfida logistica, non un'ingiustizia storica. Può essere risolto attraverso il commercio e la diplomazia, non con rivendicazioni o coercizioni costruite ad arte. Popolazione, nostalgia o ambizione non possono mai giustificare pretese espansionistiche. La sovranità nazionale si fonda sul consenso, sulla legge e sulla sovranità, non su illusioni cartografiche.

Come è stato detto molte volte, il Mar Rosso dell'Eritrea non è in affitto. L'Eritrea non è una scorciatoia, una merce di scambio o un mezzo per raggiungere i fini geopolitici o economici di qualcun altro. La sovranità non è un progetto di gruppo. Non importa quante porte si bussino o quante lettere si inviino, la sovranità appartiene alle singole nazioni. Le esigenze interne o le ambizioni regionali dell'Etiopia non le autorizzano a scavalcare quelle dell'Eritrea. Confini e sovranità nazionale non sono problemi aperti che altri possono co-gestire o ridefinire.

Nessun comunicato stampa, dato demografico o affermazione storica garantisce a uno stato il diritto di accedere alle coste di un altro. La sovranità non si dissolve sotto pressione, né cede alle fantasie. L'indipendenza dell'Eritrea non è stata un caso fortuito. I suoi confini sono riconosciuti dalla Carta delle Nazioni Unite, affermati attraverso un referendum sostenuto dalle Nazioni Unite e sostenuti da ogni norma internazionale di sovranità e non aggressione. Nessuna statistica, slogan o mito del "destino" può annullare tutto ciò. L'Eritrea non sarà una pedina sulla scacchiera marittima di nessuno.

Quindi, diciamolo chiaramente: la dimensione della popolazione non è un passaporto e la nostalgia non è uno strumento di negoziazione. I confini sono sostenuti dalla diplomazia e dal diritto, non da miti o antiche mappe. Il mare non è un diritto di nascita, è la casa di qualcun altro. Non desiderare la costa del tuo vicino. Anche se ti offre una vista mozzafiato sul Mar Rosso...

Ambasciatrice Sophia Tesfamariam, Rappresentante Permanente dell'Eritrea presso le Nazioni Unite

credit Ghideon Musa Aron
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Referendum in Eritrea del 1993

4/9/2025

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Stiamo assistendo a una netta recrudescenza di sconsideratezze, accompagnate da una sprezzante distorsione della storia antica, medievale e moderna dell'Eritrea, da parte di funzionari e troll del Partito della Prosperità (o del Partito Potëmkin, a vostra scelta).

Gli argomenti banali - o sciocchezze politiche per così dire - sono troppo noiosi e fallaci per meritare un discorso serio. L'ultimo riguarda il referendum in Eritrea del 1993.

Vogliamo sottolineare, per l'ennesima volta, i seguenti fatti fondamentali (storia, diritto internazionale 101):

1. Il diritto di decolonizzazione dell'Eritrea - che avrebbe dovuto essere esercitato negli anni '40 - era e rimane una prerogativa politica nazionale inalienabile ed esclusiva, chiaramente sancita dal diritto internazionale. Questo diritto non può essere vetato da, né richiedere l'approvazione di, alcun altro paese o organismo internazionale.

2. Il referendum del 1993 fu quindi condotto per scelta e decisione unilaterale dell'Eritrea, secondo le modalità stabilite. Non era, e non poteva essere, basato sul previo consenso, approvazione o via libera della potenza occupante.
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3. La risposta concisa dell'Eritrea rimane, nelle parole della PIA: "ዓዲ ወዓሉ"

Yemane G. Meskel, Ministro dell'Informazione

credit Ghideon Musa Aron
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In memoria di "Geometra Petros"

4/9/2025

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Con grande dolore vi comunico che è venuto a mancare in Eritrea il nostro caro amico e collega Geom. Pietros, guida storica di AfroNine Tour ed EriNine.

Una persona speciale, che ha lasciato in tutti quelli che ha incontrato un ricordo fatto di simpatia, professionalità e umanità.

A me, e a tutti noi, mancheranno la sua disponibilità, la gioia contagiosa, la passione con cui formava le giovani guide, trasmettendo loro esperienza e amore per questo lavoro.

Pietros era la vera memoria storica della comunità italiana di Asmara, con una capacità eccezionale e un modo unico di raccontare.

La cosa che più mi ha colpito di lui, e che custodirò per sempre, è stata questa frase: “Io, ancora adesso, sogno in italiano.”

Diplomato all’Istituto Vittorio Bottego di Asmara nel 1966, da allora “Geometra” è rimasto il suo soprannome, portato con affetto da amici e colleghi per tutta la vita.

Nel rispetto della tradizione e delle consuetudini eritree, desidero invitare chi lo ha conosciuto e gli è stato amico a contribuire a una raccolta fondi a favore della famiglia, in questo momento così difficile.

Geometra, ci mancherai. Riposa in pace.
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Gian Marco Russo

credit AfroNine Tour

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La storia di Asmara vissuta dagli Eritrei relegati nel ghetto di Abba Shawl

2/9/2025

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Non si può parlare dell'unicità del patrimonio di Asmara senza dare il giusto merito alla zona che le ha contribuito ad acquisire il suo status elevato. Sulla collina a nord-est, che domina il cuore della città, il Campo Cintato, si trovavano le case disordinate, gli stretti vicoli, le capanne di fango e gli agudos, gli alloggi della popolazione indigena.

È vero, nessuno di questi può vantare il valore architettonico per cui il "perimetro storico" di Asmara è oggi famoso. Tuttavia, Campo Cintato sarebbe privo della cultura e del colore che gli eritrei gli hanno conferito, se il ruolo centrale svolto da Abba Shawl (pronunciato Shawul) nella sua costruzione e conservazione non fosse considerato degno di un trattamento parallelo. Abba Shawl e Campo Cintato conservano ancora le loro rispettive forme originali; si completano a vicenda.

Prima dell'occupazione italiana, la collina su cui è costruito Abba Shawl era conosciuta localmente come Gnbar Abba Awts. Era una landa desolata, fittamente boscosa, disabitata, con cipressi e cespugli spinosi, dove gli animali selvatici vagavano a piacimento. I primi insediamenti iniziarono alla vigilia dell'arrivo degli italiani, quando un signore feudale, Kentiba Desta, del villaggio di Tse'Azega, portò la sua famiglia e le sue truppe ad accamparsi in cima alla collina. Kentiba Desta aveva un vassallo del Tigrai, in Etiopia, un uomo di spirito e abilità che lo aiutava nelle faccende amministrative. Quest'ultimo possedeva un cavallo chiamato "Abba Shawl", che era anche il grido di battaglia del vassallo.

Il nome Abba Shawl deriva quindi dall'uomo e dal cavallo che, nell'adempimento dei doveri amministrativi del vassallo, erano diventati elementi onnipresenti del quartiere. Con la crescita demografica in epoca italiana, Abba Shawl si espanse a sufficienza da creare distretti amministrativi estesi come Geza Banda (Habesha), Haddish Adi, Geza Berhanu e nuovi insediamenti adiacenti come Edaga Hamus, Edaga Arbi, Mercato, Kidane Mehret... Ma l'onore di essere stato il fulcro originario dell'insediamento urbano eritreo spetta incontestabilmente ad Abba Shawl.

Se le case di Abba Shawl erano disordinate e affollate, le stanze di ogni casa brulicavano di familiari, visitatori, affittuari e persino passanti. La leggendaria ospitalità di Abba Shawl, ancora oggi per molti versi conservata dagli abitanti di Asmara, nasceva dalla necessità, dall'abitudine alla condivisione che una vita di prossimità e bisogni comuni comporta. Fu questo buon vicinato a lasciare un'impronta indelebile sulla cultura e sul carattere di Asmara.

Le persone condividevano tutto; soprattutto, condividevano i loro segreti. Nelle file di case dove cartone, lamiere ondulate o pareti porose erano le uniche divisioni tra le famiglie, non poteva esserci privacy. Si sviluppò così una cultura di apertura e si cercarono soluzioni comuni a problemi comuni. La condivisione, materiale e spirituale, divenne la norma. Gruppi di auto-aiuto (ekub) e raduni religiosi fornirono luoghi di discussione. La sicurezza stradale si trasformò in una preoccupazione comunitaria, così come la disciplina e l'educazione dei bambini. La pratica dell'arbitrato e la risoluzione delle controversie all'interno del quartiere e all'interno di queste associazioni prevalsero sull'intervento della polizia e sulle decisioni dei tribunali, uno sviluppo molto successivo.

Era, soprattutto, una comunità egualitaria in cui capi distrettuali, giudici e ufficiali nativi dell'esercito e dell'amministrazione coloniale si mescolavano liberamente con i sudditi meno fortunati, con rispetto reciproco e senza antagonismi di classe e acrimonia. Ogni gruppo etnico eritreo era rappresentato ad Abba Shawl, così come ogni religione. L'inclusività e la tolleranza verso la diversità etnica, religiosa e culturale, tratti che Asmara considera ancora cari come sua peculiare eredità, si diffusero ad Abba Shawl e nelle sue successive ramificazioni. È significativo e un grande merito per la zona il fatto che, nonostante tutte le disparità di fede, classe ed etnia, non abbia mai registrato conflitti interni o violenze settarie.

Con tutte le sue stradine buie i vicoli ciechi, Abba Shawl ha tutte le caratteristiche di un ghetto. In effetti, la recente letteratura tiginya usa la parola "shawl" per indicare il ghetto. I suoi abitanti insistono sul fatto che si tratti di un termine improprio. È vero che i colonizzatori italiani usavano Abba Shawl per confinare i nativi in ​​un'area ristretta: per tenerli lontani dal territorio che si erano riservati. Era quindi un ghetto nel senso che era il risultato di una politica di discriminazione ed esclusione simile, ad esempio, ai ghetti ebraici nelle capitali europee dei secoli precedenti.

Ma la discriminazione proveniva da un padrone coloniale con un sistema politico, una religione, una moralità e una cultura diversi. Il confinamento di massa degli eritrei ad Abba Shawl e in altre zone successive fu un fenomeno fisico. Non poteva in alcun modo dimostrare la superiorità spirituale del colonizzatore europeo. Né una cultura e un insieme di credenze europee potevano penetrare i costumi e le religioni consolidate di una società antica.

Non sorprende quindi che ad Abba Shawl o in altre aree del Paese con restrizioni simili non si sia sviluppata una significativa sottocultura di tratti indesiderabili. Gli italiani istituirono un governo moderno, un'amministrazione efficiente e introdussero tecnologie all'avanguardia in un contesto africano essenzialmente tradizionale. Ma la cultura dominante era quella che i "nativi" portarono ad Abba Shawl e quella che riportarono quando arrivarono a Campo Cintato, come artigiani, muratori, contabili, impiegati, guardie, domestici e lavoratori giornalieri, la cui terra, fatica, sacrificio e competenze acquisite costituiscono parte integrante della raffinatezza architettonica italiana che Asmara ha da offrire.

Dall'inizio alla fine, la cultura italiana rimase superficiale. In primo luogo, gli eritrei erano troppo radicati nei rispettivi costumi e fedi per cedere alle norme e alle credenze straniere introdotte dal colonizzatore. Il cristianesimo ortodosso era entrato in Eritrea nel IV secolo d.C. L'Islam aveva trovato i suoi primi convertiti quando il profeta Maometto era ancora in vita, a metà del VII secolo. Si trattava quindi di religioni che avevano coesistito fianco a fianco per secoli, troppo radicate perché i missionari europei potessero penetrarle facilmente. Persino il cattolicesimo aveva preceduto l'arrivo degli italiani di diversi decenni.

Ma, altrettanto significativo, fu il fatto che gli italiani fecero tutto il possibile per proteggere se stessi e la propria cultura dall'estensione ai sudditi coloniali. Agli eritrei fu negata l'istruzione moderna oltre la quarta elementare; il loro accesso alla tecnologia moderna fu limitato intenzionalmente alle competenze rudimentali che i maestri erano disposti a condividere per il proprio tornaconto; con l'avvento del fascismo, gli eritrei furono sottoposti a discriminazioni di tipo apartheid ...

l risultato di questa politica di discriminazione consapevole e di distacco fu che la cultura europea in Eritrea rimase in gran parte una cultura confinata in un'enclave aliena. L'effetto a cascata che ebbe su zone come Abba Shawl, a soli due chilometri dal fulcro della presenza italiana, sebbene significativo nell'instillare nella popolazione un senso di urbanizzazione, industrializzazione e modernità, non poté alterare i loro costumi tradizionali, la loro fede e il loro senso di valore e identità.

Gli eritrei, quindi, non soccombettero a una cultura di alienazione e depressione, né di rabbia e odio che le loro circostanze avrebbero altrimenti imposto loro. Piuttosto che nutrire risentimento e antagonismo verso la modernità e la relativa ricchezza del settore europeo, i nativi di Asmara adottarono un atteggiamento di accettazione, persino un senso di appartenenza alla città che si stava sviluppando proprio al loro interno, con gran parte del loro lavoro. In definitiva, l'amore e l'orgoglio eritrei per la bellezza e la dignità di Asmara avrebbero costituito una delle basi per l'ascesa del nazionalismo che avrebbe accompagnato il paese verso la piena indipendenza un secolo dopo che la città ne divenne la capitale riconosciuta.

l legame di Abba Shawl con il perimetro storico di Asmara è tale che l'uno non avrebbe potuto esistere senza l'altro. La conservazione del ricco patrimonio architettonico di Asmara non può essere immaginata senza il senso di attaccamento e appartenenza locale instauratosi per la prima volta ad Abba Shawl. In breve, proprio come Asmara avrebbe perso il suo splendore, la sua bellezza e il suo fascino senza l'ambiente europeo preservato, avrebbe perso allo stesso modo la sua cultura e la sua essenza senza la tutela e la protezione indigena e, in effetti, gelosa del suo patrimonio da parte di Abba Shawl.

Negli anni '60, durante l'illustre mandato del sindaco Haregot Abbay, Abba Shawl fu destinato alla distruzione e alla ricostruzione urbana. I suoi residenti furono informati di ciò e fu loro offerta la possibilità di scegliere un'alternativa al di fuori del distretto. L'ondata di dolore e indignazione che ne seguì fu sorprendente nella sua immediatezza e intensità. Ricostruire Abba Shawl per adattarlo alle esigenze dell'urbanizzazione e migliorarne i servizi non era di per sé discutibile. Ma il reinsediamento dei suoi residenti fondatori avrebbe eliminato la sua tradizione distintiva di inclusività e tolleranza. Uno sviluppo che alienerebbe e renderebbe senza casa i diseredati e gli sfortunati equivarrebbe quasi a un atto di crudeltà.

Così Abba Shawl e i suoi dintorni sopravvivono, in molti luoghi praticamente nella loro vecchia forma originale. Le poche strade asfaltate che attraversano la zona sono ancora percorse dagli stretti vicoli di un secolo fa. Né le poche ville, le file di case moderne e gli edifici ad un piano hanno completamente eliminato le baracche stipate che hanno dato ad Asmara molte delle sue personalità e luminari. Famosi personaggi storici – combattenti per la libertà, politici, burocrati e soldati, artisti, calciatori e ingegnosi – hanno imparato i rispettivi mestieri in quel crogiolo.

​n effetti, Abba Shawl esercita un'attrazione magica sugli abitanti di Asmara in generale. La sua inclusione nel perimetro storico di Asmara è quindi profondamente radicata nella psiche della città. La necessità di ristrutturarlo e modernizzarlo non può essere messa in discussione. L'ulteriore crescita di Asmara come capitale cosmopolita lo richiede. Ma come realizzare questo obiettivo senza distruggere l'equilibrio sociale, culturale e psicologico che si fonda su Abba Shawl e sui suoi quartieri gemelli rimarrà una sfida per urbanisti e decisori.
​

Una cosa è chiara. L'eventuale riconoscimento del "perimetro storico" di Asmara come sito patrimonio dell'umanità sarà incompleto se la cultura indigena, rappresentata da Abba Shawl, non sarà inclusa in tale riconoscimento.

Ministero dell’Informazione, Eritrea 2017

credit 
Mauro Ghermandi
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